KOSTAS E. TSIRÓPOULOS è nato a Larissa, in Tessaglia, nel 1930. Poeta e saggista. Appartiene alla cosiddetta generazione del dopoguerra. Scrive le prime liriche sotto l'influenza di I. Th. Vafópoulos, corifeo della scuola di Salonicco, città in cui Tsirópoulos studiava giurisprudenza. Attualmente vive ad Atene dove dirige la rivista letteraria Efthyni (Responsabilità) e la casa editrice Ekdoseis ton Filon (Edizioni degli amici). Tra le sue opere più rappresentative segnaliamo Odeon per voci solitarie (1962), Quaderno di allucinazioni (1979), Musica (1982), Mistero (1988), Appunti di prova generale (1995), Sulla tenerezza (1996).
A Delfi, davanti all'Auriga, una mattina d'autunno. La pace assoluta mi dona una rara facoltà intuitiva. Il mio essere è predisposto ad accogliere nella maniera più assoluta l'effusione erotica di cui è preda per conoscere – sebbene possa essere bruciato, fulminato da quel soffio di conoscenza. Tale soffio di libertà che fa schiudere il mio essere mi permette di vedere tutto ciò che, per tutta la vita, mi era rimasto celato, enigmatico. Devo guardare la statua come se rappresentasse la tragicità del mio essere, vale a dire, devo guardarla in faccia come farò con la morte quando dovrò affrontarla.
La statua: per mezzo della vista ne riconosco il corpo, la mano ferma, i piedi nobili e delicati. Ne sfioro di nuovo il volto, le labbra forti sotto gli occhi immortali, virili e bellissimi nella loro purezza. Ne riconosco la forma come prova della sua presenza nello spazio, come impronta di bellezza resa perfetta dall'assenza di mortalità. Ma non la conosco realmente. Perché conoscere veramente gli altri significa conoscere il destino costituito dal risultato della loro lotta contro la morte. Questo si ha solo quando si realizza una unione organica e ontologica – simile alla esperienza profonda che gli uomini, esseri oscuri, fanno con la spasmodica unione carnale dei loro corpi – allorché l'amore giunge a compimento quale morte momentanea di un individuo in un altro.
Solo così l'uomo conosce l'opera d'arte. E ciò avviene con una intensità graduale, analoga a quella che prova lo scultore – colui che plasma l'opera d'arte – quando concepisce e crea, con travaglio di corpo e d'anima, una figura perfetta, e la colloca sulla linea di confine del tempo. Felice colui che con timore reverenziale rende visibile la natura concepita astrattamente plasmando un'opera d'arte perfetta. «Chi oserà denigrare la bellezza umana prediletta da Dio?» (Fernan Pérez de Oliva, Diálogo de la dignidad del hombre, Madrid 1982, p. 97). E nemmeno io oso, quando osservo un'opera d'arte e partecipo ad essa. (Aristotele, Poetica, IV, 1-6).
Ma una oscura malinconia turba questa mia gioia personale. Lo stillicidio di amarezza nel più profondo di me, è causato dalla bellezza o è forse dovuto al fatto che la statua, riuscendo a prevalere sulla corruttibilità, a vincere il tempo, a sopravvivere alla mia morte e a durare, adombra la mia esistenza?
L'Auriga fu creato nel tempo da una creatura del tempo, lo scultore, il quale visse il proprio pathos creativo con un impeto di pienezza. Anche lo scultore deve morire. Ma mentre lo scultore, creatura mortale, soccombe alla propria temporalità (ricordiamo le parole di Anassimandro: «Gli esseri ritornano, corrotti, là ove furono generati, conformemente a una necessità; poiché pagano l'un l'altro l'ingiustizia che compiono secondo la disposizione del tempo»), l'opera d'arte che egli plasmò, fatta da un essere temporale e mortale, non muore. Essa attraversa la corruttibilità del tempo come se la sua immagine e la sua enigmatica essenza possedessero l'eternità e l'eterna giovinezza di cui parla Anassimandro. Nonostante il fluire dei secoli, la statua, immune dall'oltraggio del tempo, costituisce una prova della propria bellezza. E la glorifica. Infatti l'azione del tempo sul mondo è duplice: ora lo oltraggia, ora lo purifica. (Ammiro la purezza speculativa di taluni uomini avanti negli anni, che ho avuto la fortuna di conoscere).
La caratteristica dell'Auriga, così come di ogni autentica opera d'arte, non è la mortalità come accade agli uomini. Eppure l'Auriga è malinconico. Perché i fiori della cultura vengono seminati entro la morte degli uomini.
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