LORENZO DE’ MEDICI (1449-1492)

 

Apollo e Pan

 

    E’ un monte in Tessaglia detto Pindo,

Più celebrato già da’ sacri vati,

Ch’alcun che sia dal vecchio Atlante all’Indo.

 

    Alla radice l’erba e’ fior ben nati

Bagnon l’acque d’un fonte, chiare e vive,

Rigando allor fioretti e verdi prati.

 

    Poi, non contente a così strette rive,

Si spargon per un loco, che mai vide

Il sol più bello, o d’alcun più si scrive.

 

    Penèo è il fiume, e ’l paese, che ride

D’intorno , è detto Tempe, una pianura,

La quale il fiume equalmente  divide.

 

    Cigne una selva ombrosa, non oscura,

il loco, piena di silvette fère,

non inimiche alla nostra natura.

 

    Vari color di fior si può vedere,

Sì vaghi, che convien che si ritarde

Il passo vinto da novel piacere.

 

    Quivi non son le notte pigre o tarde,

Né il freddo verno il verde asconde o cela,

Over le fronde tenere ritarde.

 

    Né l’aer nubiloso ivi congela

Il frigido Aquilon, né le corrente

Acque ritarda il ghiaccio o i pesci vela.

 

    Del Sirio con la rabbia non si sente,

Né par ch’a terra i fior languenti pieghi

L’arida arena, anela e siziente.

 

    Né si fende la terra, acciò che i prieghi

Suoi venghino agli orecchi di Giunone,

Che l’acque disiate più non nieghi.

 

    Eterna primavera una stagione

Sempre è ne’ lochi dilettosi e belli,

Né per volger di cielo han mutazione.

 

    Le fronde sempre verdi e’ fior novelli,

Come producer  primavera suole

Di primavera il canto degli uccelli.

 

    Febo ancor ama il loco, e ancora cole

Il laur suo, s’egli è; qual meraviglia

Se ’l verno temprato è, men caldo il sole?

 

    Del padre ambo le rive occupa e piglia

Dafni, e talor, piangendo, crescon l’onde,

Tanto che toccan pur l’amata filglia.

 

    Nell’acque all’ombra delle sacre fronde

Canton candidi cigni dolcemente:

L’acqua riceve il canto, e poi risponde.

 

    Poiché le frondi amò sempre virenti

Febo, lasciòro il fonte pegaseo

I cigni, e ’l canto loro or qui si sente.

 

    Sopra ad ogn’altro loco Apollo deo

Questo amò in terra dal surgente fonte,

Fin dove perde il nome di Peneo.

 

    Ma più dopo l’eccidio di Fetente,

Che lui per la vendetta del suo figlio

Fece passar a Sterpe Acheronte.

 

    Onde irato il rettor del gran concilio,

Per punir giustamente il grave errore,

Gli die’ del ciel per alcun tempo esilio.

 

    Allor abito prese di pastore;

Ma poca differenzia si comprende

Dalla pastoral forma al primo onore.

 

    L’arco sol, che da’ sacri òmeri pende,

Il quale già esser aureo solea,

Ora è di nasso e più splendor  non rende.

 

    Così l’aurata  lira, che pendea

Dall’altro lato già nel suo bel regno,

Di macero era, ed or più non lucea.

 

    L’eburneo plettro già or è di legno;

Gli occhi spiravon pur un divin lume:

Questo tòr non li può che nel fe’ degno.

 

    Servano i biondi crini il loro costume;

Ma dove li prendeva una corona

Di gemme, or delle fronde del suo fiume.

 

    Così fatto pastor  or canta, or suona;

Or ambo le dolcezze insieme aggiunge

Talor con Dafne , or con Peneo ragione.

 

    Sentillo Pan un giorno, e poi che giunse

Dov’era, disse: “Che sì ben cantassi,

Pastor mai guardò armenti o vacche munse.

 

    E’ converrai che teco un dì certassi;

Ma a me iddio saria certar vergogna

Con chi osserva degli armenti i passi”.

 

    Cinzio pastor a lui: “Non ti bisogna

Questo riguardo aver, ché la mia lira

Così degna è come la tua zampogna.

 

    Se no conosci il canto, gli occhi mira”.

Conobbe Pan  colui, che adora Delo,,

Per lo splendor che da’ santi occhi spira.

 

    “Ed or con molto più ardente zelo

Canto”, disse, “colui che Arcadia venera,

Più che ciascun abitator del cielo.”

 

 

    E Delio: “Questo in me gran piacere genera:

Contento son”. Così ciascun s’assise

Sopra l’erba fiorita, verde e tenera.

 

    All’ombra di Siringa Pan si mise:

Che dello antico amor pur si ricorda:

Ella si mosse e quasi al canto arrise.


    Tempera e scorre allor ciascuna corda

Apollo all’ombra del suo lauro santo:

Pan le congiunte sue zampogne accorda

 

Canto d’Apollo

 

    O bella ninfa, ch’io chiamai già tanto

Sotto quel vecchio faggio in valle ombrosa,

Né tu degnasti udire il nostro canto;

 

   Deh non tener la bella faccia ascosa,

Se gli arditi desir già non son folli

A voler recitar sì alta cosa.

 

    Io te ne priego per gli erbosi colli,

Per le grate ombre e pe’ surgenti fonti,

C’hanno i candidi piè tuoi spesso molli;

 

    Per  gli alti gioghi degli alpestri monti,

Per le leggiadre tue bellezze oneste,

Per gli occhi, i quai col Sol talora affronti;

 

    Per la candida tunica, che veste

L’eburnee  membra tue, pe’ capei biondi,

Per l’erbe liete dal piè scalzo péste;

 

    Per gli antri ambrosi, ove talor t’ascondi,

Pel tuo bell’arco, il qual se fussi d’oro,

Paresti Delia tra le verdi frondi;

 

    Ninfa, ricorda a me che versi fòro

Cantati dalle Dei, perché convenne

Ciascuna ninfa per udir costoro.

 

    Peneo il corso rapido ritenne

Misson gli armenti il pascere in oblio,

Troncò  il canto agli uccei le leggier penne.

 

    I fauni per onor del loro dio,

Ciascun satiro venne a quel concento,

Fermossi delle fronde il mormorio.

 

    Pan dette allora i dolci versi al vento

 

Canto di Pan

 

    Diva  nell’inquieto mar creata,

Fusti tu causa al siculo pastore

Di morte, o la prole impia da te nata?

 

    Certo tu fusti, anzi il tuo figlio Amore,

Anzi tu impia, e lui crudel li desti

Vana speranza tu, lui cieco ardore.

 

    E tu qual delle Furie togliesti,

O Cupido, il velen? Forse lo strale

Nelle schiume di Cerbero intingesti?

 

   Crudel, come potesti  tanto male

Guardare, e morte tanto acerba e rea

Con gli occhi asciutti, e se’ dio immortale?

 

    Se  ’l consenso vi fu di Citerea,

Io stimo omai i sua numini vani;

Se non son, tu non se’  figliuol di dea.

 

   Anzi ti partorir li gioghi strani

Di Caucaso nevoso, e in duri sassi

Il latte ti nutrì di tigri arcani.

 

    Crude nutrici, e superar ti lassi

Da sì crude nutrici, di pietate!

Pianserne  loro, ed il cor tuo duro stassi.

 

   Fur le pilose guance allor rigate

Da’ primi pianti, e lacrime novelle

Dagli occhi fèri avanti non gustate.

 

   Mai voi dove eravate, o ninfe belle,

Allor che dette gli ultimi lamenti

Dafni, chiamando le crudeli stelle?

 

    Dafni, amator delle selve virenti,

Dafni, onor del mio regno, a me più grato

Ch’alcun pastor, che mai guardassi armenti.

 

   Ah Dafni, Dafni, quant’hai ben guardato

Gli armenti e mal te stesso! Ma chi puote

Fuggir però lo inesorabil fato?

 

    Chi puote ostar alle costanti ruote,

E pregando piegar l’empie soròre,

O bagnando di lagrime le gote?

 

    Chi può fuggir, Cupido, il tuo furore?

Siringa sai, quanto al seguir leggieri

Fe’ già i mia piè, benché a te più il timore.

 

    Poiché non fe’  pietosi i duri imperi

Dafni  colla sua morte, almeno amante

Trovar pietate in lui giammai non speri.

 

    Empièro le spelonche tutte quante

Di mugghi fier leoni, e pianto tristo

Sudorno i sassi e le silvestre piante.

 

    Licaon, lacrimar mai non più visto,

Ne pianse, e quei, di cui la forma prese

Col figlio già la gelida Calisto.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

GIACOMO LEOPARDI (1796-1837)

 

Ultimo canto di Saffo

 

     Placida notte e verecondo raggio

Della cadente luna; e tu che spunti

Fra la tacita selva in su la rupe,

Nunzio del giorno; oh dilettose e care

Mentre ignote mi fur l’erinni e il fato,

Sembianze agli occhi miei; già non arride

Spettacol molle ai disperati affetti.

Noi l’insueto allor guadio ravviva

Quando per l’etra liquido si volve

E per li campi trepidanti il flutto

Polveroso de’ Noti, e quando il carro,

grave carro di Giove a noi sul capo,

Tonando, il tenebroso aere divide.

Noi per le balze e le profonde valli

Natar giova tra’ nembi, e noi la vasta

Fuga de’ greggi sbigottiti, o d’alto

Fiume alla dubbia sponda

Il suono e la pittrice ira dell’onda.

     Bello  il tuo manto, o divo cielo, e bella

Sei tu, rorida terra. Ahi di cotesta

Infinita beltà  parte nessuna

Alla misera Saffo i numi e l’empia

Sorte non fenno. A’ tuoi superbi regni

Vile, o natura, e grave ospite addetta,

E dispregiata amante, alle vezzose

Tue forme il core e le pupille invano

Supplichevole intendo. A me non ride

L’aprico margo, e dell’eterea porta

Il mattutino albor; me non il canto

De’ colorati augelli, e non de’ faggi

Il murmure saluta: e dove all’ombra

Degl’inchinati salici dispiega

Candido rivo il puro seno, al mio

Lubrico piè le flessuose linfe

Disdegnando sottragge,

E preme in fuga l’odorate spiagge.

     Qual fallo mai, qual sì nefando eccesso

Macchiommi anzi il natale, onde sì torvo

Il ciel mi fosse e di fortuna i volto?

In che peccai bambina, allor che  ignara

Di misfatto è la vita, onde poi scemo

Di giovanezza , e disfiorato, al fuso

Dell’indomita Parca si volvesse

Il ferrigno mio stame? Incaute voci

Spande il tuo labbro: i destinati eventi

Move arcano consiglio. Arcano è tutto,

Fuor che il nostro dolor. Negletta prole

Nascemmo al pianto, e la ragione  in grembo

De’ celesti si posa. Oh cure, oh speme

De’ più verd’anni! Alle sembianze il Padre,

Alle amene sembianze eterno regno

Diè nelle genti; e per virili imprese,

Per dotta lira o canto,

Virtù non luce in disadorno ammanto.

Morremo. Il velo indegno a terra sparto,

Rifuggirà l’ignudo animo a Dite,

E il crudo fallo emenderà del cieco

Dispensator de’ casi. E tu cui lungo

Amore indarno, e lunga fede, e vano

D’implacato desio furor mi strinse,

Vivi felice, se felice in terra

Visse nato mortal. Me non asperse

Del soave licor del doglio avaro

Giove, poi che perir gl’inganni e il sogno

Della mia fanciullezza. Ogni più lieto

Giorno di nostra età primo s’invola.

Sottentra il morbo, e la vecchiezza, e l’ombra

Della gelida morte. Ecco di tante

Sperate palme e dilettosi errori,

Il Tartaro m’avanza; e il prode ingegno

Han la tenaria Diva ,

E l’atra notte, e la silente riva.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

GIOSUE’ CARDUCCI (1835-1907)

 

A Febo Apolline

 

De la quadriga eterea

Agitator sovrano,

Sferza i focosi alipedi,

Bellissimo Titano.

 

Te pur, de l’ugna indocile

Stancando il balzo eoo,

Chiamaro in van ne’ vigili

Nitriti  Eto e Piroo,

 

Quando la bella Orcamide

Ti palpitò su ’l core

E gli achemenii talami

Chiuse ridendo Amore.

 

E a noi con l’alma Venere

Facile Amor si mostra,

E noi gli amplessi affrettano

De la fanciulla nostra.

In vano, in van la rigida

Madrigna  a me la niega;

Amor che tutto supera,

Amor che tutto piega.

 

Vuol, fausto iddio, commetterla

Ne le mie mani e vuole

I nostri amor congiungere,

Te declinato, o Sole.

 

Ed ella omai le tacite Cure nel petto anelo

Volge, e te guarda. Oh giungati

Il caro sguardo in cielo!

 

Dolce fiammeggian l’umide

Luci nel vano immote:

Siede pallor lievissimo

In su le rosse gote.

 

Ecco, presente Venere

Ne l’anima pudica

Regna, e il pensier virgineo

Con forza empia affatica.

 

Cotal forse  aggiratasi

Ne la stanza odiosa

Del giovinetto Piramo

L’inaugurata sposa.

 

E in cor pensava i gaudii

Al fido orror commessi

Ed i furtivi talami

E i raddoppiati amplessi:

 

In tanto  Amor gemeane,

De’ preparati lutti

Già fatalmente prèsago

E de’ mutati frutti.

 

Ma le dolenti imagini

Si portin gli euri in mare:

Diciam parole prospere:

Benigno Amor ne appare.

 

Oh sperar lungo e timido,

Oh d’angosciose notti

False quieti, oh torbidi

Sogni dal pianto rotti!

 

Mercé, mercé! pur compiesi

Il dolce e fier desio,

Pur debbo al fine io stringerla

Su questo petto mio!

 

Ah no che sen più candido

Endimion non strinse

Quando notturna Venere

La schiva dea gli scinse!

 

Io ardo, Amore infuria

Nel fulminato petto;

E corro, e guardo, ed Espero

Gridando in cielo afretto.

 

Pietà, divino Apolline!

Spingi i destrier celesti,

Le inerti Ore sollecita;

Ruina…A che t’arresti?

 

E ancor rattieni  il cocchio

In su l’estrema curva?

E ancor l’ancella undecima

Lenta su ’l fren s’incurva?

 

Male io sperai te facile

Al suon di mie querele,

Sempre agli amanti infausto,

Sempre in amor crudele!

 

Clizia oceania vergine

Per te conversa in fiore

Ancor mutata sèrbati

Il non mutato amore.

 

Imprecò già Coronide

Per te al disciolto cinto:

Amicle un giorno a Tàigeta

Pianser per te Giacinto.

 

Ma e tu d’amor gl’imperii,

Tu, petto immansueto,

Durasti e i greggi a pascere

Pur ti ritenne Admeto.

 

Te solitari attesero

I templi ermi del cielo,

Né più muggia da gli aditi

La religion di Delo.

 

Giacea de’ tori indocili

Dal vago piè calcato

L’arco divino argenteo

In abbandon su ’l prato.

 

Né bastò l’arte medica

Verso la cura nova:

Ahi, sol di furie e lacrime

Il nostro iddio si giova.

 

  tra le dita ambrosie

Più ti splendea la lira,

Quella onde al padre caddero

Sovente i fuochi e l’ira.

 

E che? L’avena rustica

Dal labbro tuo risona,

O figlio de l’Egioco,

o figlio di Latona?

 

Tu d’amor gemi, ed orride

Co ’l muggito diverso

Rompon le vacche tesale

La dotta voce e il verso.

 

Fama è però che memore

Tu de l’incendio antico

A gli amorosi giovini

Nume ti porgi amico.

 

E i voti a te salirono

Del buon Cerinto grati,

Quando immaturi pressero

L’egra Sulpizia i fati:

 

Tu al bel corpo le mediche

Mani applicar godesti,

Tu al giovinetto cupido

Integra lei rendesti.

 

E giorno fu che in trepida

Cura Tibullo ardea;

Varia di amori il candido

Vate Neera angea.

 

Gemeva egli le vigili

Piume stancando in vano:

Ma la piena luce vieti

Il cavalier romano.

 

Pe ’l lungo collo eburneo

Intonsi i crin fluire

Vide e stillar la mirtea

Chioma rugiade assire.

 

Qual de la luna in placido

Sereno, era il candore:

Era nel corpo niveo

Di porpora il colore,

 

Come al settembre tingonsi

Bianche mele fragranti,

Come fanciulle intrecciano

I gigli a li amaranti. 

 

       Soffri, dicesti: ad Albio

Serbata è pur Neera:

Tendi le braccia a i superi

Con molta prece, e spera. –

 

E anch’io pregai: di lacrime

Io gli abbracciati altari

Sparsi: e non furo i superi

A me di grazia avari.

 

Non io lamento perfida

La mia fanciulla, escluso

Non io gli aspri fastidii

De la superba accuso;

 

Né e le mense eteree

Vuo’ che ti prenda oblio,

Ed entri, almo Litoide,

Quest’umil tetto mio.

 

Mi dolgo io ben che tardisi

A le mie gioie  l’ora

Dal corso tuo che a Nèreo

Par non accenni ancora.

 

Dolgomi… Ahi folle! Inutil

Querele io spando: errore

Al cor m’induce il memore

Libetrico furore.

 

Te da le valli tessale,

Te da l’egea marina

Vedea  de’ vati ellenici

La fantasia divina.

 

Giovine iddio bellissimo

Pe’ i cieli ermi sorgente:

Ignei tu avevi alipedi,

Carro di fiamma ardente;

 

E intorno ti danzavano

Ne la serena spera

Le ventiquattro vergini

Fosca e vermiglia schiera.

 

Né vivi tu? Né giunseti

Del vecchio Omero il verso?

E Proclo in van chiamavati

Amor de l’universo?

 

Il vero inesorabile

Di fredda ombra covrio

Te larva d’altri secoli,

Nume de’ greci e mio.

 

Or dove il cocchio e l’aurea

Giovanil chioma e’ rai?

Tu bruta mole sfolgori

Di muto fuoco, e stai.

 

Ahi! da le terre ausonie

Tutti fuggìr li dèi:

In vasta solitudine,

O Musa mia, tu sei.

 

In vano, o ionia vergine,

Canti, ed evochi Omero:

Surge, e minaccia squallido

Da’ suoi deserti il vero.

 

Vale, o Titano Apolline,

Re del volubil anno!

Or solitario avanzami

Amore, ultimo inganno.

 

Andiam: de la mia Delia

Ne gli atti e nel sorriso

Le Grazie a me si mostrino

Qual le mirò Cefiso;

 

E pèra il grave secolo

Che vita mi spegnea,

Che agghiaccia il canto ellenico

Ne l’anima febea

 

Alessandrina

 

Gelido il vento pe’ lunghi e candidi

Intercolonnii feria; su’ tumuli

                          Di garzonetti e spose

                          Rabbrividian le rose

 

Sotto la pioggia, che, lenta, assidua,

Sottil, da un grigio cielo di maggio

                          Battea con faticoso

                          Metro il piano fangoso;

 

Quando, percossa d’un lieve tremito,

Ella il bel velo d’intorno a gli omeri

                          Raccolto al seno avvinse

                          E tutta a me si strinse:

 

Voluttuosa ne l’atto languido

Tra i gotici archi, quale tra’ larici

                         Gentil palma volgente

                         Al nativo oriente.

 

Guardò serena per entro i lugubri

Luoghi di morte; levò la tenue

                         Fronte, pallida e bella,

                         Tra le floride anella.

 

Che a l’agil collo scendendo incaute

Tutta di molle fulgor la irradiano:

                         E piovvemi nel cuore

                         Sguardi e accenti d’amore.

 

Lunghi, soavi, profondi: eolia

Cetra non rese più dolci gemiti

                         Mai né si molli spirti

                         Di Lesbo un dì tra i mirti.


Su i muti marmi intanto la serica

Vesta strisciava con legger sibilo,

                          Spargeanmi al viso i venti

                          Le sue chiome fluenti.

 

Non mai le tombe si belle apparvero

A me ne i primi sogni di gloria.

                         Oh amor, solenne e forte

                         Come il suggel di morte!

 

Oh delibato fra i sospir trepidi

Su i cari labri fiore de l’anima

                          E intraviste n’ baci

                          Interinate paci!

 

Oh favolosi prati d’Elisio,

Pieni di cetre, di ludi eroici

                          E  del purpureo raggio

                          Di non fallace maggio,

 

Ove in disparte bisbigliando errano

(Né patto umano né destin ferreo

                          L’un da l’altradivelle)

                          I poeti e le belle.

 

Da Sogno d’estate

 

Tra le battaglie, Omero, nel carme tuo sempre sonanti

la calda ora mi vinse: chinommisi il capo tra ’l sonno

in riva allo Scafandro, ma il cor mi fuggì su ’l Tirreno.

Sognai, placide cose de’ miei novelli anni sognai.

Non più libri: la stanza da ’l sole affocata,

rintronata da i carri rotolanti su ’l ciottolato

de la città, slargassi: sorgeanmi intorno i miei colli,

cari selvaggi colli che il giovane april rifioria.

Scendeva per la spiaggia con mormorii freschi un zampillo

pur divenendo rio: su ’l rio passeggiava mia madre

florida ancor ne gli anni, traendosi un pargolo a mano

cui per le spalle bianche splendevano i riccioli d’oro.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

GIOVANNI PASCOLI (1855-1912)

 

PENSIERI

 

This is a group of poems imitating ancient Greece’s gnomic poets

and their philosophy of life

 

I. Tre versi dell’Ascreo

 

“Non di perenni fiumi passar l’onda,

che tu non preghi volto alla corrente

pura, e le mani tuffi nella monda

                       acqua lucente”

 

dice il poeta. E così guarda, o saggio,

tu nel dolore, cupo fiume errante:

passa, e le mani reca dal passaggio

                   sempre più sante…

 

II. I tre grappoli

 

Ha tre, Giacinto, grappoli la vite.

Bevi del primo il limpido piacere;

bevi dell’altro l’oblio breve e mite;

                   e… più non bere:

 

ché sonno è il terzo, e con lo sguardo acuto

nel nero sonno vigila, da un canto,

sappi, il dolore; e alto grida un muto

                   pianto già pianto.

 

III. Sapienza

 

Sali pensoso la romita altura

Ove ha il suo nido l’aquila e il torrente,

e centro della lontananza oscura

                         sta, sapiente.

 

Oh! Scruta intorno gl’ignorati abissi:

più ti va lungi l’occhio del pensiero,

più presso viene quello che tu fissi

                        ombra e mistero.


IV. Cuore e cielo

 

Nel cuor dove ogni vision s’immilla,

e spazio al cielo ed alla terra avanza,

talor si spenge un desiderio, e brilla

                          una speranza:

 

come nel cielo, oceano profondo,

dove ascendendo il pensier  nostro annega,

tramonta un’Alfa, e pullula dal fondo

                          cupo un’Omega.

 

V. Morte e sole

 

Fissa la morte: costellazione

Lugubre che in un cielo nero brilla:

breve parola, chiara visione:

                          leggi, o pupilla.

 

Non puoi. Così, se fissi mai l’immoto

astro nei cieli solitari ardente,

se guardi il sole, occhio, che vedi? Un vòto

                           vortice, un niente.

 

VI. Pianto

 

Più bello il fiore cui la pioggia estiva

lascia una stilla dove il sol si frange;

più bello il bacio che d’un raggio avviva

                        occhio che piange.