E’ un monte in Tessaglia detto Pindo,
Più
celebrato già da’ sacri vati,
Ch’alcun
che sia dal vecchio Atlante all’Indo.
Alla radice l’erba e’ fior ben nati
Bagnon
l’acque d’un fonte, chiare e vive,
Rigando
allor fioretti e verdi prati.
Poi, non contente a così strette rive,
Si
spargon per un loco, che mai vide
Il
sol più bello, o d’alcun più si scrive.
Penèo è il fiume, e ’l paese, che ride
D’intorno
, è detto Tempe, una pianura,
La
quale il fiume equalmente divide.
Cigne una selva ombrosa, non oscura,
il
loco, piena di silvette fère,
non
inimiche alla nostra natura.
Vari color di fior si può vedere,
Sì
vaghi, che convien che si ritarde
Il
passo vinto da novel piacere.
Quivi non son le notte pigre o tarde,
Né
il freddo verno il verde asconde o cela,
Over
le fronde tenere ritarde.
Né l’aer nubiloso ivi congela
Il
frigido Aquilon, né le corrente
Acque
ritarda il ghiaccio o i pesci vela.
Del Sirio con la rabbia non si sente,
Né
par ch’a terra i fior languenti pieghi
L’arida
arena, anela e siziente.
Né si fende la terra, acciò che i prieghi
Suoi
venghino agli orecchi di Giunone,
Che
l’acque disiate più non nieghi.
Eterna primavera una stagione
Sempre
è ne’ lochi dilettosi e belli,
Né
per volger di cielo han mutazione.
Le fronde sempre verdi e’ fior novelli,
Come
producer primavera suole
Di
primavera il canto degli uccelli.
Febo ancor ama il loco, e ancora cole
Il
laur suo, s’egli è; qual meraviglia
Se
’l verno temprato è, men caldo il sole?
Del padre ambo le rive occupa e piglia
Dafni,
e talor, piangendo, crescon l’onde,
Tanto
che toccan pur l’amata filglia.
Nell’acque all’ombra delle sacre fronde
Canton
candidi cigni dolcemente:
L’acqua
riceve il canto, e poi risponde.
Poiché le frondi amò sempre virenti
Febo,
lasciòro il fonte pegaseo
I
cigni, e ’l canto loro or qui si sente.
Sopra ad ogn’altro loco Apollo deo
Questo
amò in terra dal surgente fonte,
Fin
dove perde il nome di Peneo.
Ma più dopo l’eccidio di Fetente,
Che
lui per la vendetta del suo figlio
Fece
passar a Sterpe Acheronte.
Onde irato il rettor del gran concilio,
Per
punir giustamente il grave errore,
Gli
die’ del ciel per alcun tempo esilio.
Allor abito prese di pastore;
Ma
poca differenzia si comprende
Dalla
pastoral forma al primo onore.
L’arco sol, che da’ sacri òmeri pende,
Il
quale già esser aureo solea,
Ora
è di nasso e più splendor non rende.
Così l’aurata lira, che pendea
Dall’altro
lato già nel suo bel regno,
Di
macero era, ed or più non lucea.
L’eburneo plettro già or è di legno;
Gli
occhi spiravon pur un divin lume:
Questo
tòr non li può che nel fe’ degno.
Servano i biondi crini il loro costume;
Ma
dove li prendeva una corona
Di
gemme, or delle fronde del suo fiume.
Così fatto pastor or canta, or suona;
Or
ambo le dolcezze insieme aggiunge
Talor
con Dafne , or con Peneo ragione.
Sentillo Pan un giorno, e poi che giunse
Dov’era,
disse: “Che sì ben cantassi,
Pastor
mai guardò armenti o vacche munse.
E’ converrai che teco un dì certassi;
Ma
a me iddio saria certar vergogna
Con
chi osserva degli armenti i passi”.
Cinzio pastor a lui: “Non ti bisogna
Questo
riguardo aver, ché la mia lira
Così
degna è come la tua zampogna.
Se no conosci il canto, gli occhi mira”.
Conobbe
Pan colui, che adora Delo,,
Per
lo splendor che da’ santi occhi spira.
“Ed or con molto più ardente zelo
Canto”,
disse, “colui che Arcadia venera,
Più
che ciascun abitator del cielo.”
E Delio: “Questo in me gran piacere genera:
Contento
son”. Così ciascun s’assise
Sopra
l’erba fiorita, verde e tenera.
All’ombra di Siringa Pan si mise:
Che
dello antico amor pur si ricorda:
Ella
si mosse e quasi al canto arrise.
Tempera e scorre allor ciascuna corda
Apollo
all’ombra del suo lauro santo:
Pan
le congiunte sue zampogne accorda
O bella ninfa, ch’io chiamai già tanto
Sotto
quel vecchio faggio in valle ombrosa,
Né
tu degnasti udire il nostro canto;
Deh non tener la bella faccia ascosa,
Se
gli arditi desir già non son folli
A
voler recitar sì alta cosa.
Io te ne priego per gli erbosi colli,
Per
le grate ombre e pe’ surgenti fonti,
C’hanno
i candidi piè tuoi spesso molli;
Per gli
alti gioghi degli alpestri monti,
Per
le leggiadre tue bellezze oneste,
Per
gli occhi, i quai col Sol talora affronti;
Per la candida tunica, che veste
L’eburnee membra tue, pe’ capei biondi,
Per
l’erbe liete dal piè scalzo péste;
Per gli antri ambrosi, ove talor t’ascondi,
Pel
tuo bell’arco, il qual se fussi d’oro,
Paresti
Delia tra le verdi frondi;
Ninfa, ricorda a me che versi fòro
Cantati
dalle Dei, perché convenne
Ciascuna
ninfa per udir costoro.
Peneo il corso rapido ritenne
Misson
gli armenti il pascere in oblio,
Troncò il canto agli uccei le leggier penne.
I fauni per onor del loro dio,
Ciascun
satiro venne a quel concento,
Fermossi
delle fronde il mormorio.
Pan dette allora i dolci versi al vento
Diva nell’inquieto
mar creata,
Fusti
tu causa al siculo pastore
Di
morte, o la prole impia da te nata?
Certo tu fusti, anzi il tuo figlio Amore,
Anzi
tu impia, e lui crudel li desti
Vana
speranza tu, lui cieco ardore.
E
tu qual delle Furie togliesti,
O
Cupido, il velen? Forse lo strale
Nelle
schiume di Cerbero intingesti?
Crudel, come potesti tanto male
Guardare,
e morte tanto acerba e rea
Con
gli occhi asciutti, e se’ dio immortale?
Se ’l
consenso vi fu di Citerea,
Io
stimo omai i sua numini vani;
Se
non son, tu non se’ figliuol di dea.
Anzi ti partorir li gioghi strani
Di
Caucaso nevoso, e in duri sassi
Il
latte ti nutrì di tigri arcani.
Crude nutrici, e superar ti lassi
Da
sì crude nutrici, di pietate!
Pianserne loro, ed il cor tuo duro stassi.
Fur le pilose guance allor rigate
Da’
primi pianti, e lacrime novelle
Dagli
occhi fèri avanti non gustate.
Mai voi dove eravate, o ninfe belle,
Allor
che dette gli ultimi lamenti
Dafni,
chiamando le crudeli stelle?
Dafni, amator delle selve virenti,
Dafni,
onor del mio regno, a me più grato
Ch’alcun
pastor, che mai guardassi armenti.
Ah Dafni, Dafni, quant’hai ben guardato
Gli
armenti e mal te stesso! Ma chi puote
Fuggir
però lo inesorabil fato?
Chi puote ostar alle costanti ruote,
E
pregando piegar l’empie soròre,
O
bagnando di lagrime le gote?
Chi può fuggir, Cupido, il tuo furore?
Siringa
sai, quanto al seguir leggieri
Fe’
già i mia piè, benché a te più il timore.
Poiché non fe’ pietosi i duri imperi
Dafni colla sua morte, almeno amante
Trovar
pietate in lui giammai non speri.
Empièro le spelonche tutte quante
Di
mugghi fier leoni, e pianto tristo
Sudorno
i sassi e le silvestre piante.
Licaon, lacrimar mai non più visto,
Ne
pianse, e quei, di cui la forma prese
Col
figlio già la gelida Calisto.
GIACOMO
LEOPARDI (1796-1837)
Placida
notte e verecondo raggio
Della cadente luna; e tu che spunti
Fra la tacita selva in su la rupe,
Nunzio del giorno; oh dilettose e care
Mentre ignote mi fur l’erinni e il fato,
Sembianze agli occhi miei; già non arride
Spettacol molle ai disperati affetti.
Noi l’insueto allor guadio ravviva
Quando per l’etra liquido si volve
E per li campi trepidanti il flutto
Polveroso de’ Noti, e quando il carro,
grave carro di Giove a noi sul capo,
Tonando, il tenebroso aere divide.
Noi per le balze e le profonde valli
Natar giova tra’ nembi, e noi la vasta
Fuga de’ greggi sbigottiti, o d’alto
Fiume alla dubbia sponda
Il suono e la pittrice ira dell’onda.
Bello
il tuo manto, o divo cielo, e bella
Sei tu, rorida terra. Ahi di cotesta
Infinita beltà parte
nessuna
Alla misera Saffo i numi e l’empia
Sorte non fenno. A’ tuoi superbi regni
Vile, o natura, e grave ospite addetta,
E dispregiata amante, alle vezzose
Tue forme il core e le pupille invano
Supplichevole intendo. A me non ride
L’aprico margo, e dell’eterea porta
Il mattutino albor; me non il canto
De’ colorati augelli, e non de’ faggi
Il murmure saluta: e dove all’ombra
Degl’inchinati salici dispiega
Candido rivo il puro seno, al mio
Lubrico piè le flessuose linfe
Disdegnando sottragge,
E preme in fuga l’odorate spiagge.
Qual fallo
mai, qual sì nefando eccesso
Macchiommi anzi il natale, onde sì torvo
Il ciel mi fosse e di fortuna i volto?
In che peccai bambina, allor che ignara
Di misfatto è la vita, onde poi scemo
Di giovanezza , e disfiorato, al fuso
Dell’indomita Parca si volvesse
Il ferrigno mio stame? Incaute voci
Spande il tuo labbro: i destinati eventi
Move arcano consiglio. Arcano è tutto,
Fuor che il nostro dolor. Negletta prole
Nascemmo al pianto, e la ragione in grembo
De’ celesti si posa. Oh cure, oh speme
De’ più verd’anni! Alle sembianze il Padre,
Alle amene sembianze eterno regno
Diè nelle genti; e per virili imprese,
Per dotta lira o canto,
Virtù non luce in disadorno ammanto.
Morremo. Il velo indegno a terra sparto,
Rifuggirà l’ignudo animo a Dite,
E il crudo fallo emenderà del cieco
Dispensator de’ casi. E tu cui lungo
Amore indarno, e lunga fede, e vano
D’implacato desio furor mi strinse,
Vivi felice, se felice in terra
Visse nato mortal. Me non asperse
Del soave licor del doglio avaro
Giove, poi che perir gl’inganni e il sogno
Della mia fanciullezza. Ogni più lieto
Giorno di nostra età primo s’invola.
Sottentra il morbo, e la vecchiezza, e l’ombra
Della gelida morte. Ecco di tante
Sperate palme e dilettosi errori,
Il Tartaro m’avanza; e il prode ingegno
Han la tenaria Diva ,
E l’atra notte, e la silente riva.
GIOSUE’ CARDUCCI (1835-1907)
De la quadriga eterea
Agitator sovrano,
Sferza i focosi alipedi,
Bellissimo Titano.
Te pur, de l’ugna indocile
Stancando il balzo eoo,
Chiamaro in van ne’ vigili
Nitriti Eto
e Piroo,
Quando la bella Orcamide
Ti palpitò su ’l core
E gli achemenii talami
Chiuse ridendo Amore.
E a noi con l’alma Venere
Facile Amor si mostra,
E noi gli amplessi affrettano
De la fanciulla nostra.
In vano, in van la rigida
Madrigna a
me la niega;
Amor che tutto supera,
Amor che tutto piega.
Vuol, fausto iddio, commetterla
Ne le mie mani e vuole
I nostri amor congiungere,
Te declinato, o Sole.
Ed ella omai le tacite Cure nel petto anelo
Volge, e te guarda. Oh giungati
Il caro sguardo in cielo!
Dolce fiammeggian l’umide
Luci nel vano immote:
Siede pallor lievissimo
In su le rosse gote.
Ecco, presente Venere
Ne l’anima pudica
Regna, e il pensier virgineo
Con forza empia affatica.
Cotal forse aggiratasi
Ne la stanza odiosa
Del giovinetto Piramo
L’inaugurata sposa.
E in cor pensava i gaudii
Al fido orror commessi
Ed i furtivi talami
E i raddoppiati amplessi:
In tanto Amor
gemeane,
De’ preparati lutti
Già fatalmente prèsago
E de’ mutati frutti.
Ma le dolenti imagini
Si portin gli euri in mare:
Diciam parole prospere:
Benigno Amor ne appare.
Oh sperar lungo e timido,
Oh d’angosciose notti
False quieti, oh torbidi
Sogni dal pianto rotti!
Mercé, mercé! pur compiesi
Il dolce e fier desio,
Pur debbo al fine io stringerla
Su questo petto mio!
Ah no che sen più candido
Endimion non strinse
Quando notturna Venere
La schiva dea gli scinse!
Io ardo, Amore infuria
Nel fulminato petto;
E corro, e guardo, ed Espero
Gridando in cielo afretto.
Pietà, divino Apolline!
Spingi i destrier celesti,
Le inerti Ore sollecita;
Ruina…A che t’arresti?
E ancor rattieni il
cocchio
In su l’estrema curva?
E ancor l’ancella undecima
Lenta su ’l fren s’incurva?
Male io sperai te facile
Al suon di mie querele,
Sempre agli amanti infausto,
Sempre in amor crudele!
Clizia oceania vergine
Per te conversa in fiore
Ancor mutata sèrbati
Il non mutato amore.
Imprecò già Coronide
Per te al disciolto cinto:
Amicle un giorno a Tàigeta
Pianser per te Giacinto.
Ma e tu d’amor gl’imperii,
Tu, petto immansueto,
Durasti e i greggi a pascere
Pur ti ritenne Admeto.
Te solitari attesero
I templi ermi del cielo,
Né più muggia da gli aditi
La religion di Delo.
Giacea de’ tori indocili
Dal vago piè calcato
L’arco divino argenteo
In abbandon su ’l prato.
Né bastò l’arte medica
Verso la cura nova:
Ahi, sol di furie e lacrime
Il nostro iddio si giova.
Né tra le dita
ambrosie
Più ti splendea la lira,
Quella onde al padre caddero
Sovente i fuochi e l’ira.
E che? L’avena rustica
Dal labbro tuo risona,
O figlio de l’Egioco,
o figlio di Latona?
Tu d’amor gemi, ed orride
Co ’l muggito diverso
Rompon le vacche tesale
La dotta voce e il verso.
Fama è però che memore
Tu de l’incendio antico
A gli amorosi giovini
Nume ti porgi amico.
E i voti a te salirono
Del buon Cerinto grati,
Quando immaturi pressero
L’egra Sulpizia i fati:
Tu al bel corpo le mediche
Mani applicar godesti,
Tu al giovinetto cupido
Integra lei rendesti.
E giorno fu che in trepida
Cura Tibullo ardea;
Varia di amori il candido
Vate
Neera angea.
Gemeva egli le vigili
Piume stancando in vano:
Ma la piena luce vieti
Il cavalier romano.
Pe ’l lungo collo eburneo
Intonsi i crin fluire
Vide e stillar la mirtea
Chioma rugiade assire.
Qual de la luna in placido
Sereno, era il candore:
Era nel corpo niveo
Di porpora il colore,
Come al settembre tingonsi
Bianche mele fragranti,
Come fanciulle intrecciano
I gigli a li amaranti.
–
Soffri,
dicesti: ad Albio
Serbata è pur Neera:
Tendi le braccia a i superi
Con molta prece, e spera. –
E anch’io pregai: di lacrime
Io gli abbracciati altari
Sparsi: e non furo i superi
A me di grazia avari.
Non io lamento perfida
La mia fanciulla, escluso
Non io gli aspri fastidii
De la superba accuso;
Né e le mense eteree
Vuo’ che ti prenda oblio,
Ed entri, almo Litoide,
Quest’umil tetto mio.
Mi dolgo io ben che tardisi
A le mie gioie l’ora
Dal corso tuo che a Nèreo
Par non accenni ancora.
Dolgomi…
Ahi folle! Inutil
Querele io spando: errore
Al cor m’induce il memore
Libetrico
furore.
Te da le valli tessale,
Te da l’egea marina
Vedea de’ vati
ellenici
La fantasia divina.
Giovine iddio bellissimo
Pe’ i cieli ermi sorgente:
Ignei tu avevi alipedi,
Carro di fiamma ardente;
E intorno ti danzavano
Ne la serena spera
Le ventiquattro vergini
Fosca e vermiglia schiera.
Né vivi tu? Né giunseti
Del vecchio Omero il verso?
E Proclo in van chiamavati
Amor de l’universo?
Il vero inesorabile
Di fredda ombra covrio
Te larva d’altri secoli,
Nume de’ greci e mio.
Or dove il cocchio e l’aurea
Giovanil chioma e’ rai?
Tu bruta mole sfolgori
Di muto fuoco, e stai.
Ahi! da le terre ausonie
Tutti fuggìr li dèi:
In vasta solitudine,
O Musa mia, tu sei.
In vano, o ionia vergine,
Canti, ed evochi Omero:
Surge, e minaccia squallido
Da’ suoi deserti il vero.
Vale, o Titano Apolline,
Re del volubil anno!
Or solitario avanzami
Amore, ultimo inganno.
Andiam: de la mia Delia
Ne gli atti e nel sorriso
Le Grazie a me si mostrino
Qual le mirò Cefiso;
E pèra il grave secolo
Che vita mi spegnea,
Che agghiaccia il canto ellenico
Ne l’anima febea
Gelido il vento pe’ lunghi e candidi
Intercolonnii feria; su’ tumuli
Di garzonetti e spose
Rabbrividian le rose
Sotto la pioggia, che, lenta, assidua,
Sottil, da un grigio cielo di maggio
Battea con faticoso
Metro il piano fangoso;
Quando, percossa d’un lieve tremito,
Ella il bel velo d’intorno a gli omeri
Raccolto al seno avvinse
E tutta a me si strinse:
Voluttuosa ne l’atto languido
Tra i gotici archi, quale tra’ larici
Gentil palma volgente
Al nativo oriente.
Guardò serena per entro i lugubri
Luoghi di morte; levò la tenue
Fronte, pallida e bella,
Tra
le floride anella.
Che a l’agil collo scendendo incaute
Tutta di molle fulgor la irradiano:
E piovvemi nel cuore
Sguardi e accenti d’amore.
Lunghi, soavi, profondi: eolia
Cetra non rese più dolci gemiti
Mai né si molli spirti
Di Lesbo un dì tra i mirti.
Su i muti marmi intanto la serica
Vesta strisciava con legger sibilo,
Spargeanmi al viso i venti
Le
sue chiome fluenti.
Non mai le tombe si belle apparvero
A me ne i primi sogni di gloria.
Oh amor, solenne e forte
Come il suggel di morte!
Oh delibato fra i sospir trepidi
Su i cari labri fiore de l’anima
E intraviste n’ baci
Interinate paci!
Oh favolosi prati d’Elisio,
Pieni di cetre, di ludi eroici
E del
purpureo raggio
Di non fallace maggio,
Ove in disparte bisbigliando errano
(Né patto umano né destin ferreo
L’un da l’altradivelle)
I poeti e le belle.
Tra le battaglie, Omero, nel carme tuo sempre sonanti
la calda ora mi vinse: chinommisi il capo tra ’l sonno
in riva allo Scafandro, ma il cor mi fuggì su ’l Tirreno.
Sognai, placide cose de’ miei novelli anni sognai.
Non più libri: la stanza da ’l sole affocata,
rintronata da i carri rotolanti su ’l ciottolato
de la città, slargassi: sorgeanmi intorno i miei colli,
cari selvaggi colli che il giovane april rifioria.
Scendeva per la spiaggia con mormorii freschi un zampillo
pur divenendo rio: su ’l rio passeggiava mia madre
florida ancor ne gli anni, traendosi un pargolo a mano
cui per le spalle bianche splendevano i riccioli d’oro.
GIOVANNI
PASCOLI (1855-1912)
and their philosophy of life
“Non di perenni fiumi passar l’onda,
che tu non preghi volto alla corrente
pura, e le mani tuffi nella monda
acqua lucente”
dice il poeta. E così guarda, o saggio,
tu nel dolore, cupo fiume errante:
passa, e le mani reca dal passaggio
sempre più sante…
II. I tre grappoli
Bevi
del primo il limpido piacere;
bevi
dell’altro l’oblio breve e mite;
e… più non bere:
ché
sonno è il terzo, e con lo sguardo acuto
nel
nero sonno vigila, da un canto,
sappi,
il dolore; e alto grida un muto
pianto già pianto.
III.
Sapienza
Ove
ha il suo nido l’aquila e il torrente,
e
centro della lontananza oscura
sta, sapiente.
Oh!
Scruta intorno gl’ignorati abissi:
più
ti va lungi l’occhio del pensiero,
più
presso viene quello che tu fissi
ombra e mistero.
IV.
Cuore e cielo
e
spazio al cielo ed alla terra avanza,
talor
si spenge un desiderio, e brilla
una speranza:
come
nel cielo, oceano profondo,
dove
ascendendo il pensier nostro annega,
tramonta
un’Alfa, e pullula dal fondo
cupo un’Omega.
V.
Morte e sole
Lugubre
che in un cielo nero brilla:
breve
parola, chiara visione:
leggi, o pupilla.
Non
puoi. Così, se fissi mai l’immoto
astro
nei cieli solitari ardente,
se
guardi il sole, occhio, che vedi? Un vòto
vortice, un niente.
VI.
Pianto
lascia
una stilla dove il sol si frange;
più
bello il bacio che d’un raggio avviva
occhio che piange.