LUIGI PADOVESE

SPIRITUALITÀ E PREGHIERA
NELLA TESTIMONIANZA DEI PADRI APOSTOLICI

I 'Padri Apostolici': con questa denominazione risalente al XVIII secolo vengono definiti alcuni scrittori che direttamente o indirettamente sono venuti a contatto con il gruppo apostolico. A essi va ascritto un insieme di opere abbastanza eterogenee tra loro che, tuttavia, nel pensiero e nella forma si richiamano agli scritti del Vecchio e del Nuovo Testamento. Si tratta di opere con finalità non dottrinali ma parenetiche: "la conformità dell'esistenza cristiana con le esigenze della fede ricevuta è il soggetto principale di queste esortazioni".

Quanto i Padri Apostolici annunciano è eco della tradizione apostolica. Certo, sono testimonianze numericamente assai ridotte e quindi frammentarie della vita cristiana. Per questa ragione sono ancor più significative. Costituiscono, infatti documenti di eccezionale importanza se si considera che nel periodo in cui si collocano (fine I sec.- primi decenni del II), si compiono una quantità di rivoluzioni che fissano alcuni aspetti decisivi per il cristianesimo posteriore e dei quali per altra strada non potremmo sapere quasi niente. Con i Padri Apostolici "siamo in un periodo in cui la Chiesa comincia a irrigidire la sua organizzazione per reagire a pericoli interni es esterni: di qui il richiamo all'esercizio delle virtù e a un modo di vita compiutamente cristiano, l'avvertimento a non prestar fede alla propaganda degli eretici. Contro costoro viene ripetutamente affermata la realtà della natura umana di Cristo. Si insiste sul significato della redenzione, sulla autorità della Chiesa, sul valore del battesimo, sulla resurrezione dei morti. In nessuno di questi scritti si avverte l'esigenza di organizzare i dati della rivelazione in un sistema organico di dottrina: il messaggio cristiano è vissuto e sentito ancora con lo schietto entusiasmo della precedente generazione come esigenza di un modo di vita completamente nuovo rispetto all'antico".

Tipica di queste opere è inoltre la tensione escatologica: si vive nell'attesa dell'imminente ritorno di Cristo.

Al novero dei Padri Apostolici appartiene la Prima Lettera di Clemente ai Corinzi, la Lettera e il martirio di Policarpo, la Lettera di Barnaba, le Lettere d'Ignazio, la seconda Lettera di Clemente, Il Pastore d'Erma, il discorso a Diogneto, i frammenti di Papia e di Quadrato.

Dopo queste premesse, mettiamoci a confronto con il pensiero dei Padri Apostolici. Propriamente va ricordato che come la coscienza della primitiva comunità sia improntata dall'idea che il motivo della divisione tra uomo e Dio non sta nel contrasto tra eterno e temporale, tra incorruttibile e corruttibile (così per la filosofia). E nemmeno tra spirituale e materiale (così per lo gnosticismo). Il contrasto tra Dio e l'uomo è ritenuto prodotto dal peccato. Questo poi non va inteso in senso rituale, cultuale o morale, ma in senso teologico-comunicativo: peccato significa non riconoscere Dio in quanto Dio e pertanto non riconoscere veramente l'uomo in quanto uomo. Il peccato, dunque, so esprime come un rapportarsi falso e falsante nei confronti dell'uno e dell'altro. E' un'alterazione a livello di relazioni. Se pertanto Gesù annuncia la remissione dei peccati, con ciò non si deve intendere semplicemente l'accantonamento della colpa, ma molto di più: la creazione di un nuovo rapporto con Dio e con gli uomini. Ed è appunto unanime testimonianza del tempo apostolico che il perdono dei peccati costituisce una nuova comunione tra Dio e l'uomo, come pure tra uomo e uomo. Queste riflessioni valide per il periodo apostolico, valgono anche per il periodo immediatamente successivo cui ci riferiamo e determinano tanto un nuovo rapporto con Dio che un modo particolare di essere 'comunità credente'.

Rapporto nuovo con Dio. Circa questo aspetto è da rilevare che gli autori del periodo subapostolico, pur nell'eterogeneità dei loro scritti, esprimono unanimemente come un "proprium" cristiano il fatto di possedere una nuova conoscenza di Dio ottenuta tramite Gesù. È lui la 'bocca' infallibile mediante la quale il Padre ci ha parlato. "Perché - scrive Ignazio di Antiochia - non diveniamo tutti saggi ricevendo la conoscenza di Dio (theoù gnòsin) che è Gesù Cristo?". E Clemente Romano, nella lettera ai Corinzi afferma che fu "per intercessione del suo Figlio Gesù Cristo che Dio ci chiamò dalle tenebre alla luce e dall'ignoranza alla conoscenza del suo nome glorioso"- Questa conoscenza, se apre gli occhi del cuore, se ci fa intendere il senso profondo delle Scritture e ci disvela l'intero disegno di salvezza di Dio all'interno della storia, risulta comunque essere innanzi tutto rivelazione della paternità di Dio. "Cristo - è detto nella seconda lettera di Clemente - ha compiuto con noi una grande opera di misericordia: noi esseri viventi, ora non sacrifichiamo più agli dei morti e non serviamo ad essi, ma conosciamo il Padre della verità". Dal canto suo, Policarpo, nella preghiera formulata prima di morire, esordisce dicendo: "Signore Iddio Onnipotente Padre del tuo servo amato e benedetto che ci diede notizia di Te".

In effetti, è comune l'idea che la vera immagine di Dio non ci possa essere comunicata che da Dio stesso. "Chi mai fra gli uomini - scrive l'autore del discorso a Diogneto - sapeva che cosa è Dio prima che egli venisse? Vorrai forse prestare fede alle affermazioni vuote e sciocche dei filosofi saccentoni? ... Nessun uomo mai né vide né conobbe Dio, ma egli stesso si rivelò a noi; si rivelò per mezzo della fede che sola può vedere Dio... Se tu pure desideri questa fede cerca anzitutto di conoscere il Padre... Di quale gioia sarai ricolmo quando lo avrai conosciuto, e come amerai colui che per primo ti ha amato!" Queste espressioni ci attestano come la rivelazione del Padre sia considerata un punto fermo nella fede cristiana primitiva. Ciò si desume anche dalla semplice osservazione statistica di quanto la parola 'Padre' ricorre negli scritti dei nostri autori. "Fissiamo il nostro sguardo nel Padre", "amiamo questo nostro Padre benigno e misericordioso", "diveniamo sue pietre per la costruzione che Egli compie", stiamo a Lui uniti, ottemperiamo alla sua volontà, crediamo che Egli è fedele. Il Padre, insomma, entra nella vita cristiana e occupa in essa un ruolo primario. A Lui i primi cristiani rivolgono, attraverso Cristo, la loro preghiera: questa passa attraverso il Signore, come ancora attraverso Lui che è la porta, si ha accesso al Padre. A titolo di esemplificazione riporto alcune preghiere o loro stralci desunti dagli scritti dei Padri Apostolici:

"Ti ringraziamo, o Padre nostro per la santa vite di David tuo servo, che ci hai fatto svelare da Gesù Cristo tuo servo. A te sia gloria nei secoli. Amen.

Ti ringraziamo o Padre nostro, per la vita e per la conoscenza che ci hai fatto svelare da Gesù Cristo tuo servo. A te sia gloria nei secoli. Amen... Perché tua è la gloria e la potenza per mezzo di Gesù Cristo nei secoli. Amen.

Ti ringraziamo, o Padre santo, per il tuo santo nome, che hai fatto abitare nei nostri cuori, e per la sapienza , la fede, l'immortalità che ci hai fatto svelare da Gesù Cristo tuo servo! A te sia gloria nei secoli! Amen."

"Tu apristi gli occhi del nostro cuore, perché conoscessimo te... Tu che scruti gli abissi, che osservi le opere umane, che soccorri che è in pericolo, e che salvi chi non ha speranza. Creatore e custode di ogni spirito, che moltiplichi le genti sulla terra e che tra tutti ha eletto coloro che ti avrebbero amato, per Gesù Cristo il diletto Figlio tuo, per cui opera ci hai educati, santificarti, innalzati...

Tu solo puoi compiere queste cose e anche meraviglie più grandi, per amore nostro; e noi ti ringraziamo, uniti al sommo Sacerdote e protettore delle anime nostre: Gesù Cristo, dal quale a te gloria e lode, ora, e di generazione in generazione e nei secoli dei secoli. Amen".

"Signore Iddio onnipotente, Padre del tuo servo amato e benedetto, Gesù Cristo, che ci diede notizia di Te... io ti benedico... ti lodo per tutte le cose e ti glorifico, per mezzo dell'eterno, celeste sacerdote, Gesù Cristo tuo servo diletto per cui a te, con lo Spirito Santo, è gloria, ora, e nei secoli futuri. Amen".

"A Dio unico e invisibile, Padre della verità, che ci inviò il Salvatore e il principio della nostra incorruttibilità, e che per mezzo suo ci manifestò la verità e a vita celeste, a lui gloria nei secoli dei secoli. Amen".

Seguono testimonianze indirette circa il modo di pregare:

"Ma anche voi laici dovete formare un solo coro... per inneggiare a una voce al Padre per mezzo di Gesù Cristo; egli vi ascolterà e riconoscerà, dalle vostre opere, che voi siete il canto del suo Figlio".

"... solo allora, uniti dall'amore in un solo coro, inneggerete al Padre, in Cristo Gesù, perché Iddio s'è degnato di posare lo sguardo sul vescovo della Siria chiamandolo dall'Oriente all'Occidente".

"...Il Padre è fedele: esaudirà la mia e la vostra supplica in Gesù Cristo".

La preghiera delle comunità subapostoliche appare dunque sempre orientata al Padre per Cristo o in Cristo. Al Padre fa perciò capo l'esistenza cristiana. La stesa aspirazione al martirio che Ignazio d'Antiochia nutre, è giustificata come un andare al Padre: "Il mio amore (sc. eros) è crocifisso, e non vi è più in me un fuoco terreno; ma un'acqua viva gorgoglia in me e mi dice dentro 'Viene al Padre'".

Quest'ultima riflessione conclude e avvalora il convincimento che la spiritualità dei Padri Apostolici è 'cristologica' anzitutto perché riconosce il posto che Cristo riserva al Padre nella vita, nella preghiera e persino nella morte.

Passiamo ora a delineare l'immagine di Cristo a partire dai testi in nostro possesso. Li considereremo non tanto da in punto di vista dottrinale sotto il quale pure si potrebbero leggere, quanto in ordine alla vita cristiana.

Valgano a introdurci in questo nuovo tema alcune significative considerazioni di W. GRUNDMANN per il quale "ciò che il giovane movimento cristiano ha e possiede come elemento proprio, non sono in prima linea nuovi pensieri nuove idee che prima non esistevano ancora; non sono neppure determinate visuali o eventi. Ciò che è specifico è la persona di Gesù Cristo come un'immagine dai chiari contorni. Essa è ed opera come un campo di forze attirando a sé ciò che le è conforme e respingendo quanto le è estraneo". Questa polarizzazione di interessi sulla persona di Cristo - polarizzazione veicolata per buona parte da errori dottrinali che mettevano a repentaglio ora l'aspetto umano del Salvatore (docetismo, gnosticismo), ora la sua divinità (ebionismo, adozionismo) - se porta progressivamente ad un riconoscimento sempre più maturo della sua realtà divina, non lo distacca comunque dall'uomo come vorrebbero alcuni per i quali "la divinizzazione di Gesù ha fatto di lui un personaggio inoffensivo, ha diluito la sua esigenza di sequela e di radicale obbedienza, trasformandola in una religione di consolazione e redenzione". Contro una tale convinzione si colloca appunto la testimonianza dei Padri Apostolici per i quali il riconoscimento della divinità di Cristo non lo distanzia dagli uomini ma, semmai, svela ad essi la misura esatta di quel che significa incarnazione, passione, salvezza.

Considerati sullo sfondo della trascendenza, gli eventi della vita di Cristo, le sue stesse parole assumono una pregnanza particolare. Di questa idea è certo l'anonimo redattore della seconda lettera cosiddetta di Clemente ai Corinzi, per il quale "dobbiamo essere convinti che Gesù Cristo è Dio ed è giudice dei vivi e dei morti; solo così non apprezzeremo troppo la nostra salvezza, perché se abbiamo di lui un concetto meschino, è meschino anche l'oggetto della nostra speranza. Chi ascolta queste cose e le stima poco, pecca; e anche pecchiamo, se non teniamo presente chi ci chiamò, da dove e per quale destino ci chiamò, e anche se non teniamo presente i dolori che Gesù Cristo volle soffrire per noi".

L'affermazione della divinità di Cristo non riduce perciò le esigenze di sequela ma, al contrario, vincola più strettamente a Lui. I cristiani dei primi due secoli, insomma, non possono dimenticare che il loro Dio, il Kyrios glorificato, è stato anche l'uomo dei dolori che "imparò l'obbedienza dalle cose che patì" (Ebr. 5, 8). L'idea della passione di Cristo diviene perciò uno dei capisaldi nella spiritualità cristologica dei Padri Apostolici. L'immagine del sangue di Cristo versato per l'uomo non si cancella dalla loro mente e compare nei loro scritti ancor più frequente degli accenni alla resurrezione.

Potremmo dire che l'ideale di vita cristiana da essi proposto trae la sua forza da una continua riflessione sui dolori del Signore.

I passi che seguono vogliono offrire una conferma:

Prima lettera di Clemente ai Corinzi 2: "(voi Corinzi) avevate sempre presenti le sue parole e le sue sofferenze erano sempre dinanzi ai vostri occhi".

Idem 7: "Fissiamo lo sguardo nel sangue di Cristo e consideriamo quanto sia prezioso e stimato da Dio suo Padre"

Idem 21: "Non oltraggiano il Signore Gesù Cristo il cui sangue fu sparso per noi".

Idem 69: "Gesù Cristo dette il suo sangue per il nostro sangue, la sua carne per la nostra carne, la sua anima per la nostra anima".

Ignazio, Lettera agli Efesini 1: "Imitatori di Dio, ritemprati nel suo sangue".

Idem, Lett. agli Efes.: "Sforziamoci di imitare il Signore. Chi soffrì maggiori ingiustizie, privazioni, disprezzi?"

Idem, Lett. ai Magnesi 5: "Se non siamo disposti a morire per imitare la sua passione, non abbiamo la sua vita in noi".

Idem, Lettera ai Trallesi 11: "Nella croce il Signore vi invitò alla sofferenza perché siete sue membra".

Idem, Lettera ai Romani 6: "Io cerco colui che morì per noi... lasciate ch'io imiti la passione del mio Dio".

Idem, Lettera ai Filippesi 8: "Ma per me l'archivio è Gesù Cristo, il mio sacro archivio sono la sua croce, la sua morte".

Idem, Lettera agli Smirnesi 1: "... fu trafitto per noi dai chiodi nella carne, e noi siamo il suo frutto, cioè il frutto della sua beata e divina passione".

Idem, Lettera a Policarpo 3: "Sappi attendere... l'impassibile che per noi si è fatto passibile e che per noi ha sofferto ogni dolore".

Potrebbe continuare questa rassegna di passi. Comunque già da quelli richiamati ci si può fare un'idea di come le sofferenze del Signore abbiano fortemente impressionato le prime generazioni cristiane. Profondamente colpiti da questo amore straripante che scandalizza e che mette a soqquadro la tradizionale concezione di Dio, i cristiani delle origini intenderanno la loro vita anzitutto come una risposta a Cristo. Quel che importa per essi e di vivere in modo degno di Lui, dagli lode. Nella vita ormai conta soltanto Lui. "Se l'uno o l'altro (cioè un circonciso o un incirconciso) non parlano di Gesù Cristo, essi sono, per me, dei monumenti funebri, dei sepolcri sui quali sono scritti solo nomi di uomini".

Dopo l'esperienza della passione di Cristo Ignazio può scrivere:

"Come possiamo noi vivere senza di Lui, se gli stessi profeti, suoi discepoli in spirito, lo aspettavano come loro maestro?" E altrove dichiara: "Fuori di Lui nulla mi giova; è per Lui che io porto queste catene, mie gemme spirituali".

L'aspirazione del vescovo di Antiochia è fondamentalmente quella di ripagare Cristo con la sua stessa moneta: amandolo sino alla morte. Egli è perciò fiero di portare le catene per Lui e aspira a raggiungerlo. "Nessuna cosa visibile o invisibile mi impedisca di raggiungere Gesù Cristo. Il fuoco, le belve, la croce... i più malvagi tormenti del demonio vengano su di me purché io raggiunga Gesù Cristo... Per me è meglio morire per Gesù Cristo... Io cerco colui che morì per noi... lasciate che io imiti la passione del mio Dio". Nell'imitazione fino al martirio il cristiano opera la sua piena fusione con Cristo. La 'sequela' conduce all''unione'. La vita cristiana intesa come riposta a Dio, trova il, senso pieno nella confessione di Lui. "Quale sarà la nostra riconoscenza (verso Cristo)? - si chiede l'autore della seconda lettera di Clemente - Solo questo: evitare di rinnegarlo, anzi confessare la sua fede.. Questa è dunque la nostra fede, se confesseremo colui che ci ha salvati": La convinzione che i cristiani vivessero per Cristo e non per delle 'dottrine' che si richiamavano a Lui, era ben presente agli stessi persecutori i quali richiedevano dai martiri che avessero a rinnegare il cristianesimo maledicendo Cristo. Da quando s'è detto appare chiaro che la spiritualità dei nostri autori si alimenta al fuoco della pasione di Cristo; eppure non si può ignorare che anche la fede nella sua resurrezione è valsa allo stesso scopo. I Padri Apostolici mostrano infatti di credere in un 'vivente'. Come dichiara J. STARCK richiamandosi a J. LEBRETON "il primo secolo fu il secolo della rivelazione, il secondo può essere considerato quello della tradizione. E questa affermazione vale anzitutto per la fede nella resurrezione di Gesù Cristo".

In effetti la vita dei primi cristiani è illuminata dalla certezza che la resurrezione conferma l'identità e le parole terrene di Cristo, per cui ci si deve totalmente fidare di Lui. "Ricevuto il loro mandato - scrive Clemente - rassicurati dalla resurrezione de Signore, (gli apostoli) andarono ad annunziare la buona novella dell'avvento del regno di Dio". Policarpo, dal canto suo, invita ad avere fede nella resurrezione di Cristo che appare garanzia sicura della nostra. "Iddio che lo resuscitò da morte, resusciterà anche noi se faremo la sua volontà, se vivremo nella sua legge e ameremo ciò che egli amò".Di un medesimo avviso si mostra Ignazio, disposto ad affrontare la morte per Cristo nella certezza di continuare a vivere in Lui: "Solo quando il mondo non vedrà più nulla del mio corpo sarò u vero discepolo di Cristo... se soffro, diventerò liberto in Cristo, e risorgerò in lui come uomo libero... Io cerco colui che morì per noi, io voglio colui che per noi resuscitò. Il momento in cui sarò partorito e imminente". Questa fede nel Cristo vivente è trasmessa al vescovo di Antiochia dalla esperienza stessa degli apostoli che Ignazio ha sotto gli occhi e in base alla quale seppero affrontare la morte: "Io so e credo che Gesù Cristo, dopo la resurrezione, aveva il corpo. E quando si presentò a Pietro e agli apostoli radunati con lui disse loro: "... toccatemi, palpatemi e vedete che non sono uno spirito senza corpo"". Subito lo toccarono e credettero al contatto della sua carne e del suo spirito. È per questo che poi disprezzarono la morte, o meglio si mostrarono superiori alla morte stessa. E dopo la resurrezione mangiò e bevette con loro, come un uomo di carne, quantunque spiritualmente fosse una cosa sola con il Padre". Possiamo dunque affermare che passione e resurrezione, come sono gli eventi cardine della fede nella Chiesa primitiva, divengono anche i fondamenti della spiritualità cristiana che è intesa come sequela del Cristo - se occorre fino alla morte - in ordine ad un congiungimento con lui nella resurrezione.

Va dunque rilevato che la spiritualità cristiana nel periodo da noi esaminato è contrassegnata anche dall'idea della parusia ormai imminente. Come scrive J. SRACK, "L'impressione causata dalla predicazione apostolica della resurrezione era stata tanto forte che le prime generazioni cristiane, sentendo vivamente il carattere escatologico di questo fatto, attendevano una prossima fine".

In effetti, negli scritti dei Padri Apostolici è presente la convinzione circa l'imminenza della parusia che, come vedremo, avrà un notevole influsso nell'origine dell'ascesi cristiana.

L'idea di trovarsi verso la fine determina, insomma, la vita stesa, ne eleva il tenore, introduce nuovi criteri di valutazione dei beni temporali. In realtà notiamo che la menzione agli eventi ultimi non è quasi mai un'affermazione atemporale, ma appare spesso congiunta a raccomandazioni di carattere etico. Ciò si nota ad esempio nella Lettera di Barnaba in cui leggiamo "sapete chi potete beneficare, non omettete di farlo. È vicino il giorno in cui tutto andrà in rovina insieme al nemico malvagio. È vicino il Signore e la sua ricompensa". Significativa anche la testimonianza del Pastore: "Lanciò un grido e mi apostrofò così: "Insensato! non vedi che la torre (sc. la Chiesa) è ancora in costruzione? Quando sarà terminata allora verrà la fine... Ma ci vuole poco tempo ancora perché venga edificato l'ultimo tratto... Basta! Non chiedermi più nulla. Questo avviso sia sufficiente a te e ai santi per rinnovarvi nello spirito!... Guardate il giudizio ormai imminente: voi, benestanti, cercate i poveri fintanto che la torre sta in costruzione, perché quando sarà ultimata bramerete di fare opere buone, ma non vi sarà posto per esse."" Per Ignazio il richiamo all'ultimo tempo è congiunto ad un invito a rispettare e temere la pazienza di Dio e per l'anonimo autore della lettera di Barnaba l'accenno agli ultimi giorni si accompagna all'ammonizione alla vigilanza e alla fortezza. Comunque, appare chiaro che i primi cristiani non si pongono dinanzi agli eventi ultimi come a un fatto predeterminato e ineluttabile; essi devono piuttosto affrettarlo e vivere nella tensione che ciò avvenga. Di questo avviso è certo l'autore della Didachè quando scrive: "Venga la grazia e passi questo mondo... Maranatha!" È anzitutto nella pratica dell'ascesi che si verifica l'irruzione piena del regno di Dio. Come dichiara E. PETERSON esaminando alcuni antichissimi Atti apocrifi, "questa ascesi ha uno stretto rapporto con la fede escatologica: si tratta di affrettare l'avvento del regno di Dio". Ma in che modo? Mediante la vita in castità che pone fine al processo generativo. "Fino a che le donne partoriscono regna la morte; il regno di Dio verrà quando la distinzione dei sessi sarà superata... Alla fine - continua PETERSON - la consistenza del mondo presente dipende dalla donna che partorisce; per questo si diceva: 'La verginità della donna è oro, la continenza dell'uomo è argento'".

Con questo modo di vedere mi pare s'accordi l'autore della Seconda lettera di Clemente ai Corinzi, quando scrive "L'espressione tra maschio e femmina, né maschio né femmina", vuol dire che quando un fratello vede una sorella, non deve considerare il sesso femminile, né essa deve pensare al sesso maschile. Se voi agirete così - vuole egli dire - verrà il regno del Padre mio". Certo, la castità che qualifica l'ascesi cristiana primitiva, non è vissuta in questa sola prospettiva. Di essa, infatti, si rileva anche il carattere di dono ("chi è casto non se ne vanti, ben sapendo che non da sé ma da un altro egli riceve il, dono della continenza") e la sua relazione con il Signore o, più esattamente, con la carne del Signore ("Se qualcuno riesce a mantenersi in castità, a gloria della carne del Signore, vi rimanga, ma senza insuperbirsi. Se se ne vanta è perduto"). In ogni modo mi pare tuttavia di dover assentire con E. PETERSON quando dichiara che "ascesi cristiana nelle sue origini non ha nulla a che fare né con la filosofia greca né con un dualismo metafisico: essa è in stretto rapporto con la fede in un prossimo avvento del regno di Dio. Questo regno non è una cosa completamente futura... ma è una realtà presente, dal momento che il parto verginale di Maria e la resurrezione di Cristo dai morti sono una vera e propria realtà... L'ascesi cristiana è (dunque) un elemento inseparabile dalla Fede cristiana stessa".

Con queste osservazioni concludiamo la sezione riservata ad esaminare in rapporto nuovo con Dio, quale ci è apparso a partire dagli scritti subapostolici. Veniamo ora a considerare i risvolti concreti che un tale rapporto produce nelle coscienze cristiane e nelle relazioni con l'ambiente circostante. Detto in altri termini, i cristiani raccolti intorno al Cristo morto e risorto per loro, coscienti della paternità di Dio e protesi al futuro escatologico come si sono considerati e come hanno tradotto questa loro fede nella pratica?

Un primo aspetto da rilevare è dato dalla coscienza dell'elezione presente nel cristianesimo subapostolico che applica a sé le riflessioni bibliche sul popolo di Israele. Già il profetismo "aveva elaborato tutta una teologia d'Israele come sposa di Jahvè, come vigna del Signore e città dell'Altissimo. L'apocalittica aveva arricchito questi simboli". Ebbene, noi li ritroviamo negli scritti del nostro periodo. D'altra parte, l'idea di elezione risalta anche dal gergo impiegato dai Padri Apostolici per qualificare il 'popolo santo': 'santi', 'servi di Dio', 'eletti', 'imitatori di Dio', 'uomini nuovi', 'giusti', 'credenti', 'fedeli' sono designazioni correnti. La consapevolezza dell'elezione poggia, poi, su una intensa vita comunitaria. "Procura di vedere ogni giorno il volto dei santi", scrive l'autore della Didachè, e poco oltre soggiunge: "Riunitevi spesso per pensare a ciò che giova alle vostre anime". Una analoga esortazione suggerisce anche Ignazio a Policarpo, scrivendogli: "Le adunanze siano più frequenti invita tutti, a uno a uno". La motivazione di questo ritrovarsi insieme di frequente è poi esplicata da Ignazio nella Lettera agli Efesini 13: "quando vi riunite crollano le forze di Satana e i suoi flagelli si dissolvono nella concordia che vi insegna la fede". Dal canto suo, l'autore della lettera di Barnaba consiglia "di non vivere isolati, ripiegandosi su se stessi, come se già foste confermati nella giustizia; piuttosto riunitevi insieme, per ricercare ciò che giova al bene di tutti". Anche nella Seconda lettera di Clemente compare tale esortazione: "Cerchiamo di riunirci tutti insieme, frequentemente, e così, tutti uniti dagli stessi sentimenti potremo essere uniti anche per la vita". Questi inviti a incontrarsi sono una implicita testimonianza di come la spiritualità della Chiesa primitiva si regge anche su una intensa vita comunitaria.

Quanto mantiene nel proposito della nuova vita è la coesione e la comunione con i fratelli di fede. Anzi questa unione è tanto importante da trovare presso Ignazio una profonda giustificazione teologica. Nel vescovo di Antiochia - scrive L. SCIPIONI - noi vediamo tutta una riflessione teologica sulla Chiesa come comunione di amore nella comprensione di base che la Chiesa di quaggiù, nella sua vita, nelle sue relazioni interne e nelle sue operazioni, altro non è che il riflesso e la riproposizione terrestre del suo Archetipo celeste, il Dio uno e trino nella sua vita intima e nelle sue misteriose interrelazioni". In Ignazio prevale "il simbolismo verticale, celeste, della gerarchia ecclesiale concepita come una manifestazione di Dio e della gerarchia celeste. Come Dio è uno solo e ogni rapporto interpersonale si risolve in una misteriosa unità che ha cura di mantenere al suo vertice il Padre a cui tutto resta sottomesso e tutto fa ritorno perché sia tutto in tutti, così uno solo e al vertice deve essere il vescovo nel contesto delle relazioni interpersonali in seno alla Chiesa, sicché la carità ecclesiale sia una effettiva realizzazione 'carnale e spirituale' di quella armonia divina". In questa prospettiva le colpe contro l'unità appaiono tra le più gravi. Esse infatti non soltanto ledono l'immagine terrena della Trinità, cioè la Chiesa, ma impediscono anche ai cristiani d'essere il nuovo popolo dell'elezione e creano scandalo. "Perché ci sono tra voi la contesa, il dissenso, la divisione, guerra? - scrive Clemente ai Corinzi - Non abbiamo un solo Dio, un solo Cristo, un solo Spirito di carità diffuso sopra di noi? Non abbiamo un'unica vocazione al cristianesimo? Perché strappiamo e laceriamo le membra di Cristo, e ci rivolgiamo contro il nostro proprio corpo, giungendo a tale eccesso di pazzia da dimenticarci che siamo membra gli uni degli altri? Ricordate le parole di Gesù nostro Signore che disse 'Guai a quell'uomo! Sarebbe meglio per lui non essere nato, che scandalizzare uno dei miei eletti...' E la vostra divisione ha pervertito molti, molti ha gettato nello scoraggiamento e nel dubbio, e tutti noi ne siamo addolorati; ma nonostante ciò il vostro dissenso continua!" Gli inviti dei Padri Apostolici sono perciò orientati a sollecitare l'unità. Per la stessa ragione, ovvero, perché i cristiani abbiano a costituire una comunità di santi, sono frequenti le esortazioni a non mescolarsi con i peccatori e con i pagani. Di questa opinione è certo l'autore della Lettera di Barnaba quando scrive "Non lasciamo alla nostra anima la libertà di correre a unirsi con i peccatori e i malvagi, perché non succeda che diventiamo simili ad essi". Prevale in queste espressioni ma anche in altre ricorrenti presso i Padri Apostolici l'idea che la comunione con i santi rende santi, la comunione con i peccatori invece perverte".

Questo modo d'intendere diviene una direttiva che raccomanda la fedeltà alla comunità perché questa promuove la salvezza del singolo. Ma è chiaro che questa concezione trae origine anche dalla considerazione che la Chiesa, in quanto minoranza religiosa, può persistere se dai suoi membri richiede una intensa vita comunitaria. Questa infatti tiene vivo il senso dell'elezione così spiccato nel cristianesimo primitivo e al tempo stesso sviluppa una dottrina di estraneità nei riguardi del mondo che pure avrà notevoli ripercussioni nella spiritualità primitiva.

Questa estraneità non è comunque da intendersi come disinteresse e non porta a uno stato di sdegnosa separazione dalla società. Se così fosse i primi cristiani costituirebbero una 'setta' e non avrebbero alcun orientamento missionario. Invece vediamo che l'impulso missionario esiste ed è congiunto all'idea di elezione in base alla quale i cristiani sono chiamati a offrire la testimonianza del loro nuovo tenore di vita. "Pregate, senza cessare - scrive sant'Ignazio agli Efesini - anche per tutti gli altri uomini: per loro pure vi è speranza di conversione e di unione a Dio. Permettete almeno che imparino dal vostro esempio. Alla loro ira, la vostra mitezza; alla loro boria, la vostra umiltà; alle loro bestemmie, le vostre preghiere; al loro errore, la vostra fermezza nella Fede; alla loro ferocia, la vostra dolcezza che evita di rendere male per male. Per la nostra bontà mostriamoci loro fratelli, sforzandoci di imitare il Signore". Significativo per il nostro assunto è pure quel che scrive l'autore della Seconda lettera di Clemente: "non preoccupiamoci di piacere solamente ai fratelli, ma cerchiamo anche di edificare, con la nostra santità, gli uomini di fuori, perché non accada che per nostra colpa sia bestemmiato il nome di Cristo... Perché viene bestemmiato? perché voi non fate quello che voglio. È proprio così: quando i pagani ascoltano dalla nostra bocca i detti di Dio, ne ammirano la bellezza e la grandezza; ma quando poi si rendono conto che le nostre opere non corrispondono alle nostre parole., allora cambiano idea e cominciano a bestemmiare, dicendo che il cristianesimo è solo mito e inganno... Quando vedono che non solo non amiamo coloro che ci odiano, ma neppure coloro che ci amano, allora ci deridono, e così il nome di Cristo viene bestemmiato".

Stando a questi testi, emerge un chiaro impegno cristiano nei confronti dei non credenti: unità ecclesiale, condotta morale ineccepibile, preghiera per quelli che stanno 'al di fuori' e, persino, sottomissione al prossimo, sono espressioni di questo essere missionari. A partire dalle attestazioni della Lettera a Diogneto: "i cristiani sono addirittura necessari al mondo come l'anima lo è per la sopravvivenza del corpo". Essi, certo, non s'identificano con il corpo, ovvero con il mondo, eppure questo non può sussistere senza di loro e come il corpo odia l'anima perché è contraria ai suoi desideri, così il mondo odia i cristiani perché non lo assecondano.

A questo riguardo si può affermare che la testimonianza da essi offerta al mondo e in forza della quale vengono proscritti e perseguitati, sta nella loro convinzione di non poter vivere 'del' e 'per' il solo presente. Per questa ragione essi si considerano proiettati verso il futuro, uomini in cammino, pellegrini. In quanto tali si sforzano, poi, d'essere liberi da quanto può appesantirli o, addirittura, far perdere di vista la meta del viaggio. Quanto detta la norma del vivere cristiano è anzitutto la fede nell'escatologia e, questo, certamente, non può farli apparire che sospetti agli occhi dei contemporanei i quali li ritengono esaltati un fuga dalla realtà.

In effetti va rilevato che l'orientamento al futuro, ovvero il tema della 'speranza' ha una notevole amplificazione negli scritti dei Padri Apostolici. Per essi tale virtù è innestata nell'uomo mediante il battesimo ed è il dono di Cristo, anzi talvolta è identificata con Cristo stesso. Egli è la nostra speranza. Lo divenne mediante la resurrezione che squarcia il velo del tempo presente e ci illumina sul nostro futuro. Il cristiano dunque si configura come l'uomo la cui fede in Cristo sfocia nella speranza in Lui e nella resurrezione da Lui promessa. Stando all'autore della Lettera di Barnaba, la speranza precede addirittura la fede.

Questa virtù è un fondamento della vita cristiana comunitaria, dal momento che, secondo Ignazio, i cristiani devono essere uniti nella adesione alla 'comune speranza'. Essa, certo, va alimentata e in essa si deve perseverare, perché, come afferma l'autore della Lettera a Diogneto "chi, con timore, ha raggiunto la scienza e cerca la vita, costui pianta nella speranza e attende il frutto". Da parte sua, l'anonimo scrittore della Seconda lettera di Clemente ai Corinzi spiega il senso ultimo della Speranza cristiana, dichiarando: "Il giusto non coglie subito il frutto, ma lo deve attendere, perché se Dio desse ora il premio ai giusti, noi non eserciteremmo la pietà ma un commercio; avremmo l'apparenza di essere giusti, mentre invece seguiremmo il guadagno, non la fede".

Soltanto chi avrà perseverato in questo atteggiamento di fiduciosa attesa potrà, alla fine, dire "è una realtà la speranza di chi ha servito Dio con tutto il cuore!"

Per terminare va osservato che l'idea di essere incamminati verso i beni celesti, congiunta al piacere di essere una comunità di fratelli è la fonte primaria di quella gioia che pure costituisce una nota caratterizzante del periodo subapostolico.

Un primo motivo dell'essere felici proviene - come s'è detto - dall'unità della comunità e dall'aver sperimentato in essa un nuovo tipo di rapporti umani. Così Clemente ricorda ai Corinzi come essi godevano "il dono d'una pace gioiosa e profonda" e al presente si augura di poter gioire al più presto per il loro buon ordine. Anche Ignazio si muove nella stessa direzione dichiarando che la Chiesa di Filadelfo sarà la sua "gioia continua, eterna, specialmente se tutti formeranno una cosa sola". Questa gioia degli altri cui si deve tendere con la propria azione, diventa un augurio per le comunità cui Ignazio scrive e per le quali, appunto, desidera una gioia più pura, una grande gioia, una più grande gioia. Agli Efesini scrive addirittura: "Siate un'unica purissima gioia". jdskks

I cristiani di questo tempo rilevano anche la gioia che è connessa con l'agire retto dell'uomo: gode chi può rinfrancare i fratelli nella fede; chi pratica l'ospitalità; chi allevia il prossimo dalle preoccupazioni del vivere; chi adempie la volontà di Dio; chi porta in sé il 'nome'; chi non ha dissapori; chi sa meditare la parola di Dio, 'ruminandola'. La gioia cristiana, dunque, è associata alle altre virtù e non esiste se non con esse. Per questa stessa ragione non esiste un modo 'triste' d'essere cristiani. Non si dà una sequela 'rattristata' di Gesù Cristo. La tristezza (luvph) è dunque da bandire perché, come è detto nel Pastore "lo Spirito Santo che fu infuso nella tua carne non sopporta né tristezza né angustia". E poco oltre: "In Dio vivranno tutti quelli che cacciano da sé la tristezza e si rivestono di giocondità. Sempre il Pastore rileva che chi prega senza gioia non ottiene risposta da Dio, invece rivestiti di giocondità, poiché essa trova sempre grazia al cospetto di Dio cui è accetta". Perché? La risposta è tratta da un esempio naturale: "Se al vino si mescola l'aceto, non si ha più lo stesso sapore; così se la tristezza si unisce allo Spirito Santo non si ha più la stessa preghiera". L'unico motivo in cui la tristezza sembra ammessa temporaneamente, sta nella considerazione dei peccati che l'uomo ha commesso.

Se fin qui abbiamo accennato ad alcune ragioni della gioia cristiana, si deve certo ricordare che essa trae fondamentalmente origine da Gesù Cristo. È la sua passione che rende felici. È, ancora, il dono d'essere salvati gratuitamente per mezzo suo. Questa felicità trova espressione nell'ottavo giorno della settimana. Il cristiano, dunque, non può che gioire del presente ma anche del futuro che la resurrezione di Cristo gli ha garantito come bene sicuro. Anche dinanzi alla morte - come nel caso di Policarpo - questa gioia illumina il volto del cristiano e, forse, proprio per questo diventa una testimonianza che respinge o affascina, ma che comunque sconcerta chi la incontra.

Con queste riflessioni concludiamo la nostra investigazione nella spiritualità del periodo subapostolico. Di essa abbiamo colto soltanto alcuni aspetti, ma ritengo siano sufficienti per capire come la vita spirituale delle prime generazioni cristiane si sia costruita sui dati fondamentali della fede.

La lex credendi ha determinato in essi la lex orandi.

 

Da Simposio Cristiano,
edizioni dell'Istituto di Studi Teologici Ortodossi "S. Gregorio Palamas", Milano 1989, pp. 27-46