NICOLAS OZOLINE

LA TEOLOGIA DELL'ICONA

Se qualcuno non confessa che Cristo Dio è circoscritto secondo l'umanità, sia anamtema.

(MANSI, XIII, 400 B)

 

Il 4 ottobre, giorno della chiusura del nostro colloquio, si apriva 1139 anni fa, nella cattedrale di Santa Sofia di Nicea la quinta sessione del VII Concilio Ecumenico di cui celebriamo in questi giorni, per anticipazione, il dodicesimo centenario. Esso rappresenta per molti di noi una grande gioia e un segno di speranza, poiché bisogna riconoscere che il Niceno II è, fra tutti i Concili che la Chiesa Ortodossa riconosce come ecumenici, certamente uno dei più sconosciuti, e non solo per l'Occidente latino.

Secondo il nostro contemporaneo Sergio Bulgakov, per esempio, i Padri del VII Concilio non hanno fatto altro che esprimere delle "opinioni" (bisogna credere personali), e insiste "noi non siano obbligati a condividere queste opinioni, poiché esse sono erronee in se stesse", e, peggio ancora, "nel caso che venissero sviluppate con consequenzialità, porterebbero all'iconoclasmo".

Altri più antichi, come il prof. A.P. Lebedev, che nega semplicemente ogni legame dell'iconoclasmo con le eresie cristologie precedenti o I. Andreev, sono più o meno fortemente influenzati dalla scuola storica del protestantesimo tedesco che non ha mai esitato a esprimere le sue simpatie per il movimento iconoclasta. In ogni modo, per questa scuola, il Niceno II non sarebbe che l'ultima fase della ellenizzazione del cristianesimo. Chiaramente impressionato dalla rispettabilità accademica di Harnack e dei suoi discepoli, Andreev si meraviglia della finezza della argomentazione iconoclasta deplorando la goffaggine e le insufficienze della apologia ortodossa.

Più vicino a noi, dopo le icone di "Taizé" e il bel libro del pastore Ramsayer La parole e l'image, vi è la radicale rimessa in questione delle acquisizioni del VII Concilio da parte di Jacques Ellul intitolata La parole humiliée. Non si può negare all'autore il merito della franchezza quando esclama: "Sono desolato per i miei amici ortodossi ma la teologia dell'icona... è idolatrica. Gli iconoclasti avevano ragione. Ma essi furono sconfitti."

Da parte del cattolicesimo romano, alcuni sono entusiasti e altri si lamentano di quello che essi chiamano la "moda delle icone". Da parte mia ritengo che si tratti di altra cosa. L'apparizione delle icone un po' ovunque nelle chiese cattoliche e perfino in certi templi protestanti mi sembra testimoniare una autentica sete della immagine specificamente cristiana, e il riconoscimento di questa specificità nella icona ortodossa.

Ma come ha ben detto François Dominique Boespflug durante la presentazione del suo libro Dieu dans l'art alla televisione: "Accettare veramente l'icona significa accettarne le implicazioni teologiche." E noi non siamo purtroppo ancora arrivati a questo. In effetti "l'arte della Chiesa è una questione di fede", ama ripetere il padre del rinnovamento contemporaneo della iconografia ortodossa e della teologia dell'icona, Leonild Ouspensky. "Anche quando le parole sono le stesse, sottolinea l'autore, l'immagine manifesta non solo la verità, ma anche tutte le sue deformazioni. E' l'immagine che denuncia in modo incontestabile ogni deviazione dalla tradizione apostolica. Questo aspetto dell'arte sacra è stato poco o per nulla considerato dai teologi, siano essi ortodossi o cattolici romani. Ora, è proprio qui che appare con irrefutabile evidenza la differenza tra la dottrina e la spiritualità degli ortodossi e quella delle confessioni occidentali... La dottrina dei Concili Ecumenici non ha penetrato fino ad oggi le coscienze: il cattolicesimo romano considera sempre come accettabile una qualunque interpretazione individuale della rivelazione cristiana espressa da una forma artistica, di qualunque stile essa sia, compresa l'arte non figurativa. "Non vi è uno stile religioso o ecclesiastico" dice ad esempio un commento autorizzato della Costituzione sulla Liturgia del Concilio Vaticano II. Non vi è più una confessione comune del dogma della venerazione dell'icona, è un dogma nuovo, quello della venerazione dell'arte. E' tempo di comprendere e di riconoscere che il dogma della venerazione delle icone non si rapporta a una rappresentazione qualsiasi, né concerne il solo soggetto rappresentato; riguarda una immagine precisa, definita dal suo contenuto e dalla sua destinazione, che corrisponde alle altre espressioni della fede, una immagine che manifesta l'unità della fede, della vita e della creazione artistica".

Di qui la necessità dei nostri sforzi comuni in vista di una conoscenza approfondita dell'ultimo Concilio Ecumenico al quale Oriente e Occidente hanno partecipato insieme. A questo proposito, io mi sono permesso di ricordare qui il bisogno più che urgente di una edizione critica degli atti del Niceno II, che continua a mancare a tutti coloro che in ogni modo si interessano a questo concilio. Un concilio che non aveva soltanto precisato e giustificato la pratica della venerazione delle icone (come troppo spesso si sente dire), ma che ha anche, di fronte alla furia iconoclasta, indicato i fondamenti dogmatici di cui ogni "teologo cristiano dell'immagine" dovrà tenere conto, perché solo questi fondamenti garantiscono la sua specificità e premettono così di parlare di una "teologia", (nel senso stretto della parola) dell'icona.

"Da un punto di vista teologico la questione fondamentale tra gli ortodossi e gli iconoclasti era quella dell'icona del Cristo, perché la fede nella divinità del Cristo portava con sé una presa di posizione sul problema cruciale della indescrivibilità essenziale di Dio e sulla Incarnazione che lo rende visibile. L'icona del Cristo è dunque l'icona per eccellenza, essa implica una professione di fede nella Incarnazione". Questa resta il fatto dogmatico fondamentale del cristianesimo e si trova come tale legata alla triadologia e alla antropologia, essendo nello stesso tempo il soggetto stesso della cristologia. In questi tre campi il momento dell'immagine si presenta come una nozione essenziale e indispensabile per una comprensione corretta della iconografia ortodossa. Cominciamo le nostre brevi considerazioni con alcune parole circa il concetto di immagine nella triadologia.


Il Figlio immagine consustanziale del Padre

Appena uscita vittoriosa dagli ultimi anni di persecuzione da parte dello stato, la Chiesa dovette affrontare la prima grande controversia dottrinale della sua storia: la crisi ariana. Nella argomentazione antiariana la nozione la nozione di immagine doveva necessariamente attirare l'attenzione degli ortodossi. Non era Paolo che diceva del Cristo in modo molto diretto: "Egli è l'immagine del Dio invisibile"? (Col 1, 15; 2 Cor 4, 4). E secondo Gv 14, 9, il Signore non è stato meno chiaro rispondendo a Filippo: "Chi ha visto me, ha visto il Padre".

Cosa potevano dunque significare queste parole nel sistema dell'eresiarca alessandrino: "Dato che egli è Monade e principio di tutto, Dio è anche prima di tutto. Per questo egli è prima del Figlio". Questa era l'idea fondamentale e il leitmotiv del pensiero di Ario. A dire il vero non vi era posto per la triade cristiana, perché il Dio di Ario resta monade, una monade chiusa in se stessa, "solo Dio ingenerato, solo eterno, solo senza inizio, solo vero, solo immortale, solo saggio, solo buono, solo potente". "Egli è solo a non avere nessuno di uguale, né di simile, né della stessa gloria".

In un tale sistema, non essendo il Figlio che Immagine del Padre si vede ridotto a una dissomiglianza radicale, cioè alla differenza assoluta che separa il creatore dalla creatura. Il solo testo di Ario in cui egli parla dell'immagine dice ciò chiaramente: "Comprendi che vi era la Monade e che la Diade non era ancora venuta all'esistenza. Così dunque quando il Figlio non esiste, il Padre è Dio. E ora il Figlio, che non era (perché cominciò a esistere per la volontà del Padre), è Dio monogenito e estraneo... Egli è dunque concepito, secondo mille e mille pensieri, come spirito, potenza, saggezza, gloria di Dio, verità, immagine e verbo". Non essendo né eguale né coeterno, né consustanziale al Padre, il Figlio non potrebbe essere considerato immagine perfetta del Padre che possa manifestarlo pienamente, poiché "il Figlio non ha nulla in proprio di Dio... che gli sia proprio". Vi è qui una concezione di Dio, osserva Christof von Schönborn, "che distrugge la vera trascendenza del 'Dio e Padre del Signore nostro Gesù Cristo', quella di potersi donare interamente al Figlio e allo Spirito senza che questo attenti alla sua sovranità".

Come tutti sanno la risposta della Chiesa si è cristallizzata nel termine omoousios, introdotto nel Credo di Nicea, che diviene da quel momento la barriera dell'ortodossia. Nel corso della sua lotta antiariana, il difensore più ardente della "fede di Nicea", sant'Atanasio il Grande, fu portato a elaborare la dottrina ecclesiale dell'immagine come termine tecnico per la triadologia: per lui il Figlio è l'immagine consustanziale del Padre. "Quando tu parli dell'immagine, è il Figlio che indichi, perché chi potrebbe essere simile a Dio, se non l'Ingenerato uscito da Lui?" La paternità, come una delle caratteristiche fondamentali della prima persona della Santa Trinità ci è rivelata dal Figlio, spiega sant'Atanasio, essa non è un caso , essa è perfino una delle rare affermazioni positive che noi possiamo azzardare sulla prima persona, una di quelle che ci permettono di designarla. Prima di ogni inizio e dell'eternità, la prima persona è Padre del suo Figlio senza inizio e coeterno, Padre del Logos consustanziale. Ma dato che la qualità di Padre e Figlio significa l'identità di essenza, ciò deve ripercuotersi sulla nozione di immagine applicata a delle persone della Santa Trinità. Per questo Atanasio scrive: "Il, Padre è eterno, immortale, onnipotente, Dio, Signore, Creatore e produttore. Bisogna che questi caratteri si ritrovino nell'immagine perché sia vero che chi vede il Figlio vede il Padre (Gv 14, 9); se invece, come pensano gli ariani, il Figlio è prodotto e non eterno, non abbiamo una vera immagine del Padre, a meno che si abbia l'imprudenza di pretendere che il Figlio Immagine non connoti una essenza simile, ma che questo sia solo un modo di dire".

La designazione di immagine che è applicata nelle Scritture al Figlio deve essere portata, per così dire, a un livello più elevato di quello del linguaggio quotidiano e della filosofia profana. Solo nelle alte sfere della rivelazione divina diventa possibile forgiare la nozione nuova del Figlio, immagine consustanziale al prototipo paterno. "Riservato al Verbo Unigenito, l'attributo di immagine non sarà mai accordato a una creatura neppure agli angeli, 'perché essi stessi non sono immagine', dice Atanasio espressamente... Ma che non ci si inganni circa la metafora dell'immagine: "L'immagine di Dio non è una riproduzione estrinseca (exothen graphomene); Dio stesso è il suo generatore'. Di qui la conclusione: 'Se Dio non è prodotto, la sua Immagine non è prodotta, ma generata'. Questa precisione taglia corto con le sottigliezze degli ariani: noi abbiamo qui il genitum, non factum del Credo di Nicea, esigito in forza del contenuto stretto e autentico della categoria dell'Immagine".

Il merito di Atanasio fu quello di avere arricchito la teologia cristiana di questa nozione di immagine consustanziale che divenne d'altronde rapidamente una parte costitutiva della triadologia patristica. Diamo a titolo di esempio la parola a san Basilio il Grande, che, nel suo celebre scritto Sullo Spirito Santo, traspone la nozione di immagine per imitazione, e della somiglianza per ciò che è comune, sul piano trinitario. "Ciò che l'immagine è per imitazione, il Figlio lo è per natura. E come nell'arte la somiglianza riguarda la forma, così per la natura divina, che è semplice, è nella comunanza della divina che risiede il principio della unità".

Vladimir Lossky esprime lo stesso pensiero così: il Figlio, immagine del Padre, non manifesta "la persona del Padre ma la sua natura identica nel Figlio. E' l'identità essenziale che è mostrata nella diversità personale, in rapporto all'Altro: il Figlio, in quanto eikon, rende testimonianza alla divinità del Padre... bisognerebbe quindi evitare qualsiasi equivoco, parlare di immagine naturale, come faceva Giovanni Damasceno, per il quale il Figlio è una eikon physikè completa, in tutto simile al Padre, salvo l'innascibilità e la paternità".

Così siamo risaliti alla fonte ultima di ogni venerazione cristiana della immagini: "Il Figlio è nel Padre come la bellezza della immagine risiede nella forma archetipa... Il Padre è nel Figlio come la bellezza archetipa permane nella sua immagine", esclama Gregorio di Nissa.

Ma per prevenire ogni malinteso nella teologia dell'icona, dobbiamo immediatamente sottolineare che questa "natura paterna identica nel Figlio", resta in quanto tale sempre invisibile e dunque anche indescrivibile o non circoscritta nel senso di non rappresentabile. Sant'Atanasio stesso è categorico a questo riguardo. Fra gli attributi che l'Immagine e il Prototipo hanno in comune secondo la loro divina ousia vi è naturalmente l'invisibilità: "L'Immagine del Dio invisibile è una Immagine invisibile", dichiara egli con chiarezza.

La nozione di immagine consustanziale appartiene esclusivamente alla triadologia e non può essere utilizzata se non nella sfera divina delle relazioni intratrinitarie. In nessun caso deve essere considerata come il primo anello di una lunga catena di immagini che discenderebbero per così dire da un qualche Urgrund divino e dai cieli supremi fino al livello della nostra percezione ottica e della sua riproduzione per mezzo della pittura. In quanto Immagine "essenziale" e "naturale" del Padre, il Figlio resta sul piano trinitario strettamente invisibile e dunque aperigraptos, indescrivibile o non circoscritto, perché la aperigraphia, la indescrivibilità, è un attributo della natura divina del Padre, che Egli ha in comune con il Figlio. Nella economia della salvezza il Figlio, in quanto Immagine consustanziale del Padre, rivela al mondo questa divinità comune nella sua persona. Quando noi ci dovremo interrogare su ciò che è rappresentato e venerabile nella icona del Cristo, faremo bene a ricordarci che questa persona resta, anche dopo l'Incarnazione, l'ipostasi del Verbo divino.

Ma torniamo ala vittoria sull'arianesimo. Una delle maggiori conseguenze di questa vittoria fu la salvaguardia non solo della possibilità dell'arte cristiana, ma anche e soprattutto della sua specificità. Da quel momento, il compito affidato agli artisti cristiani sarà quello di trovare delle forme sempre più adeguate alla raffigurazione della discesa di Dio nella sua creazione e alla rappresentazione delle conseguenze "trasfiguranti" di questa venuta. Visibilmente ispirate dall'ampiezza ella loro missione, le arti plastiche si dedicheranno a confessare, ciascuna coi propri mezzi, la "fede di Nicea" e la trasporranno in nuove composizioni nell'arte della Chiesa, facilmente leggibili dai contemporanei, come per esempio quella del triumphator e del pambasileus divino, re dell'universo. Così una delle particolarità più notevoli delle creazioni realizzate dal IV al VI secolo consiste nel fatto "che in nessun altro momento nella storia dell'arte cristiana, si sono illustrati tanti passaggi evangelici dove Gesù appariva nella gloria", la gloria divina del Figlio unigenito, non creato e consustanziale al Padre.

Dopo queste brevi note sulla nozione di immagine nella triadologia, possiamo volgerci ora alla antropologia.


Immagine e somiglianza di Dio nell'uomo. Dono naturale e compitò personale

Si sa che la Settanta è la sola versione dell'Antico Testamento riconosciuta dalla autorità del consensus Patrum. Questa traduzione sembrava in effetti una tappa importante della rivelazione, confermata anche dalla utilizzazione che ne fecero gli autori del Nuovo Testamento, i Padri e la liturgia. In Gn 1,26 leggiamo: "Dio disse, facciamo l'uomo secondo la nostra immagine e la nostra somiglianza (kat' eikona emeteran kai kat' omoiosin)".


L'immagine di Dio

Secondo i commentari patristici, questo versetto indica prima di tutto che l'imago dei è un dato ontologico nell'uomo che implica una relazione particolare tra lui e Dio e che rimane un attributo inalienabile e indistruttibile della natura umana voluta così dal divino creatore. L'essere umano non è creato autonomo e sufficiente a se stesso, ma per la partecipazione alla vita divina, infatti non è che "in Dio" che può realizzare il suo destino originale. Nulla di più "maturale" per l'uomo che vivere e crescere nella grazia. Ben lontane dall'opporsi l'una all'altra, natura e grazia esprimono, in questa vicinanza, la dinamica vivificante delle relazioni fra il Creatore e la sua creazione. Anche se radicalmente differenti secondo la loro essenza, questi vivono in una comunione che non soltanto ignora l'opposizione, ma che considera questa grazia divina e le sue energie increate come l'ambito naturale della esistenza umana. I Padri intendevano l racconto biblico del giardino dell'Eden precisamente in questo senso, come uno sguardo della "Chiesa del Paradiso", dove Adamo possedeva ancora la "antica dignità di uomo libero", come dice san Gregorio Palamas. Il p. Jean Meyendorff ama parlare a questo proposito di antropologia aperta. Alla natura pura dell'essere umano secondo la scolastica, natura quasi neutra e chiusa in se stessa, il p. Jean oppone l'uomo creato letteralmente "in stato di grazia", naturalmente aperto a Dio in comunione e sinergia. Una simile visione della santità "naturale" e voluta da Dio della esistenza umana si fonda ultimamente sulla dottrina biblica della immagine di Dio nell'uomo. Detto in altri termini, dobbiamo vedere in Adamo il portatore della prima immagine creata da Dio. Gn 1, 27 lo dice chiaramente: "Dio creò l'uomo a sua immagine, a immagine di Dio lo creò".

Riflettendo in ciò le diverse tendenze del pensiero patristico, diversi Padri hanno tentato di situare l'imago Dei nell'uomo. Alcuni, come Gregorio di Nissa, sono stati influenzati, attraverso Origene, dal neoplatonismo , sono stati influenzati, attraverso Origene, dal neoplatonismo col suo concetto si syggeneia. A questi autori l'intelletto sembra prestarsi meglio alla localizzazione e alla espressione di questa "comunanza". Altri, come Ireneo di Lione, con la sua soteriologia della "ricapitolazione in Cristo, nuovo Adamo", o Palamas considerano, rimanendo nella linea del realismo biblico, che non sono soltanto lo spirito e l'anima che hanno parte a questa qualità di immaginare, ma anche il corpo umano. Così Palamas dice: "Il nome di uomo non è applicato all'anima o al corpo separatamente mai due insieme, perché insieme sono stati creati a immagine di Dio." Vladimir Lossky si esprime nello stesso senso: "La persona umana non è una parte dell'essere umano, come le persone della Trinità non sono una parte di Dio. Per questo la qualità dell'immagine di Dio non fa riferimento a un elemento qualunque del composto umano, ma si riferisce a tutta la natura dell'uomo nella sua integrità". Esattamente come per la Incarnazione e la Resurrezione di Cristo, la salvezza offerta all'uomo si riferisce alla totalità della sua natura senza escludere il corpo, così la qualità di immagine di Dio deve necessariamente includere la corporeità, ciò che d'altronde è chiaramente implicato dalla dottrina tradizionale della resurrezione corporea dei morti".

Detto ciò non sembra più possibile avanzare ulteriormente nel tentativo di definire in cosa consista precisamente l'immagine di Dio nell'uomo, perché, come ha spiegato Gregorio di Nissa "l'immagine di Dio nell'uomo, in quanto perfetta, è necessariamente inconoscibile (e dunque non circoscritta e non descrivibile), perché riflettendo la pienezza del suo Archetipo, essa deve possedere anche la inconoscibilità dell'essere divino..." "Noi non possiamo concepirla altrimenti, commenta Lossky, che attraverso l'idea della partecipazione ai beni infiniti di Dio".

Come già è stato detto, l'Immagine di Dio appartiene in modo inalienabile alla natura umana, e nulla può distruggere questa immagine, neppure il peccato originale, "contro natura" al massimo grado. Per i Padri non vi era alcun dubbio sul fatto che solo una persona libera poteva commettere un peccato e che questo peccato restava sempre "personale". La dottrina del "peccato di natura" è qualificata perfino come eretica da san Fozio. Nel quadro di questo congresso non possiamo affrontare nel dettaglio le interpretazioni del peccato originale, molto diverse in Oriente e in Occidente. Per quello che riguarda la comprensione ortodossa, ci permettiamo di rinviare al capitolo particolarmente interessante intitolato "il peccato originale" del libro del p. Jean Meyendorff Initiation à la théologie byzantine, dove egli mostra che per i Padri il peccato originale di Adamo ed Eva non conduce al "peccato ereditario", ma per così dire a una "mortalità ereditaria. Per questo la morte di Cristo sulla croce non è una espiazione atroce inflitta al Figlio dell'Uomo, ma la vittoria precisamente su questa mortalità (1 Cor 15, 22) e il ristabilimento totale dello splendore originale della immagine di Dio, divenuta quasi irriconoscibile a causa della morte e del peccato.

Eccoci giunti alla somiglianza. Se noi abbiamo tanto parlato di immagine inalienabile e insondabile di Dio, che è il "luogo teologico" del mistero di ogni essere umano, è prima di tutto per il fatto che la somiglianza suppone l'immagine come la crismazione suppone il battesimo. In rapporto alla teologia dell'icona, questa ci interessa evidentemente in primo luogo.


La somiglianza

Questa è dunque l'opera dello Spirito che compie ogni cosa.

"Il Verbo, scrive Atanasio, ci ha dato le primizie dello Spirito, perché noi possiamo divenire figli di Dio, conformemente alla immagine del Figlio di Dio". E' in Cristo che è restituita l'immagine di Dio nella natura comune di tutti gli uomini. Nel Battesimo, nel quale muore il vecchio Adamo e noi resuscitiamo in Cristo, si compie questa restaurazione per ciascun credente in modo individuale. Lo Spirito Santo permette a tutti coloro che sono ricreati "a immagine", che sono risorti in questa acqua battesimale, di continuare a perfezionare questa somiglianza, di portarla a compimento. Diadoco di Foticea descrive questo processo riferendosi esplicitamente all'arte della pittura: "Come i pittori tracciano prima con un solo colore lo schizzo del ritratto e, facendo fiorire a poco a poco un colore sull'altro, precisano la somiglianza del ritratto al suo modello ... così anche la grazia di Dio comincia nel Battesimo per rifare l'immagine come essa era quando l'uomo venne all'esistenza. Poi quando essa ci vede aspirare con tutta la nostra volontà alla bellezza della somiglianza ... allora facendo fiorire virtù sopra virtù, elevando la bellezza dell'anima di gloria in gloria, essa le ottiene il contrassegno della somiglianza". Anche il Damasceno parla allo stesso modo: il Verbo "ha creato l'uomo a sua immagine e somiglianza ... l'immagine riguarda lo spirito e la libertà, la somiglianza il fatto che egli è capace di somigliargli per mezzo delle sue virtù".

Il Cristo include la natura comune alla molteplicità degli uomini nella sua unica ipostasi divina. Lo Spirito Santo distribuisce la sua natura divina che egli ha in comune col Padre e col Figlio alla molteplicità delle ipostasi umane. Lossky descrive così questo dono dello Spirito Santo: "Lo Spirito Santo si nasconde, in quanto persona, davanti alle persone create alle quali appropria la grazia. In lui la volontà di Dio non è più esterna a noi: essa ci conferisce la grazia nella interiorità, manifestandosi nella nostra stessa persona, tanto che la nostra volontà umana rimane in accordo con la volontà divina e coopera con essa acquisendo la grazia, facendola nostra. E' la via della deificazione che conduce al Regno di Dio, introdotto nei cuori dallo Spirito Santo a partire da questa vita presente. Perché lo Spirito Santo è l'unzione regale che rimane sul Cristo e su tutti i cristiani chiamati a regnare con lui nel secolo futuro. Allora questa persona divina sconosciuta, non avendo la sua immagine in un'altra ipostasi, si manifesta nelle persone deificate: perché la moltitudine dei santi sarà la sua immagine".

Ma ora veniamo a tutti quegli unti del Signor, al Cristo e alla moltitudine dei santi che ci rappresentiamo sulle icone.

Cos'è l'icona di un santo? E' l'immagine di una persona che ha realizzato la sua santità, l'immagine di colui che per l'acquisizione dello Spirito Santo ne porta i frutti, l'immagine quindi di colui che ha pienamente utilizzato le possibilità che gli ha procurato nel Battesimo la totale ricostituzione della sua qualità di immagine di Dio.

L'icona si sorza di rappresentare la somiglianza realizzata. L'immagine cristiana specifica mostra con mezzi che le sono propri la "santità naturale", voluta da Dio, della creatura che si ritrova in piena comunione di grazia con Creatore e che ha pienamente realizzato questa comunione. In questo caso, accade qualcosa al vecchio e coriaceo Adamo, e questo deve essere mostrato, non la tentazione né il combattimento, ma il risultato finale, al pace nel Signore che non è più altro che adorazione e glorificazione.

La vera arte sacra mostra il cambiamento compiuto, la salvezza, la trasformazione per Dio e in Dio del mondo decaduto e mortale, in una parola trasfigurazione.

Colui che muove ala realizzazione della somiglianza, muove alla trasfigurazione del mondo.

Dire con san Serafino di Sarov che "il senso della vita umana è ottenere lo Spirito santo" significa dire che il senso della vita è quello di realizzarsi pienamente come essere umano, perché questo non è possibile che "in Dio". La persona umana rassomiglia al Cristo nella misura in cui acquista lo Spirito Santo, perché è lui che rende manifesto il Cristo agli uomini e permette loro di ottenerlo. E' quindi realmente lo Spirito Santo che compie la somiglianza divina nell'uomo.

In questo stesso ordine di idee ci si apre il significato profondo di un'altra espressione dello stesso san Serafino: "Salva te stesso e migliaia intorno a te saranno salvati": colui che si adopera per la propria salvezza opera per la trasfigurazione del mondo. Questo è per così dire l'oggetto stesso e il tema di ogni icona.

Il terzo campo che vogliamo ancora esaminare brevemente dal punto di vista della teologia dell'immagine è la cristologia.


Il teopaschismo - Presupposto necessario per una giusta comprensione dell'icona di Cristo

Ciò che è stato il Concilio di Nicea (325) per la triadologia, lo fu il Concilio di Calcedonia (451) per la cristologia. Se la Chiesa dopo Nicea doveva per così dire "digerire" l'homoousios, si può dire la stessa cosa per la dottrina delle "due nature in una persona".

Si tratta dapprima di preservare l'intuizione iniziale soteriologica di san Cirillo di Alessandria, che egli stesso esprimeva già chiaramente con le parole: "Il Verbo ha sofferto nella carne". Già l'espressione Theotokos, proclamata al Concilio di Efeso (431), che riassume in una sola parola, come pensa Giovanni Damasceno, tutta l'economia della salvezza, doveva significare che non vi è altro soggetto in Cristo che il Logos.

Si trattava dunque della identità personale, soteriologicamente necessaria, del Verbo preeterno e senza inizio con il Logos incarnato, come la esprimeva il Credo di Nicea: "Io credo... in un solo Signore Gesù Cristo, Figlio unico di Dio, generato dal Padre prima di tutti i secoli, luce da luce, vero Dio da vero Dio, generato, non creato, consustanziale al Padre, per il quale tutto è stato fatto. Che per noi uomini e per la nostra salvezza è disceso dal cielo e si è incarnato dallo Spirito Santo e dalla Vergine Maria e si è fatto uomo. Che è stato crocifisso per noi sotto Ponzio Pilato, ha sofferto ed è stato sepolto. Che è risuscitato il terzo giorno..."

Qui, nel Credo, questa identità personale è per così dire naturalmente supposta. Essa sarà particolarmente messa in evidenza nell'Inno O monogenes Yios, "Figlio unico e Verbo di Dio", attribuito al grande Giustiniano in persona e che è cantato in ogni liturgia alla fine della seconda antifona. Vi si dice "Figlio unico e Verbo di Dio, tu che sei immortale... e che senza cambiamento ti sei fatto uomo e fosti crocifisso, o Cristo Dio, che hai vinto la morte con la morte, essendo Uno della Santa Trinità, glorificato col Padre e con lo Spirito Santo, salvaci".

Il p. Jean Meyendorff lo esprime così: "E' questo Verbo preesistente che è il soggetto della morte del Cristo, perché in Cristo non vi è altro soggetto personale che il Verbo: solo qualcuno può morire, non "qualche cosa", né una "natura" né una "carne"... Il V Concilio, riabilitando pienamente la nozione cirilliana della unità (o meglio della unicità) del soggetto in Cristo, mette in luce tutta l'importanza delle unità ipostatica del Verbo incarnato". E' al P. Georges Florovsky che dobbiamo la espressione asimmetria della cristologia ortodossa. Asimmetrica perché, al contrario della natura divina, nessuna ipostasi propria corrisponde alla natura umana, ma questa natura umana ha la sua persona nella ipostasi divina, è inclusa in essa, è "enipostatizzata". Questo non significa tuttavia che le sue azioni ed energie non siano veramente umane. Al contrario, è proprio la nozione di ipostasi che permette alla teologia ortodossa nella sua comprensione del Dio incarnato, di salvaguardare il fondamento positivo del pensiero antiocheno antiocheni e del Tomus di Leone, cioè l'affermazione che ogni natura conserva il suo modo proprio di esistere.

Avete certamente compreso la ragione per cui ci siamo brevemente fermati sul tema "uno della Trinità ha sofferto nella carne: questa formula mi sembra la chiave di una giusta comprensione della icona del Cristo. Come abbiamo già detto, fu essa e, più precisamente la sua stessa possibilità, il pomo della discordia fra gli ortodossi e gli avversari delle immagini. Era chiaro per entrambe le parti che ci trattava qui della precisazione della teologia ortodossa. Noi sappiamo che, l'epoca dell'iconoclasmo, che durò dal 730 all'843 si divise in due periodi, dell'intervallo dei quali ebbe luogo i II Concilio di Nicea.

Il primo periodo fu dominato dalla personalità straordinaria di Giovanni Damasceno. I due temi principali della sua lotta ardente in favore della venerazione delle icone possono essere chiaramente definiti. Da una parte l'icona del Cristo come professione di fede nella verità della Incarnazione. Dipingere una icona significa confessare la ensarke oikonomia, la divina economia della salvezza nella carne, annunciare la sua vera Incarnazione. E dall'altra, la icona in quanto rivelazione della materia trasfigurata, riempita di grazia, materia che essa mostra e che è essa stessa. Mai, certamente, Giovanni Damasceno venera la materia come tale, ma, afferma "il Creatore della materia che è divenuta materia per me... e ha realizzato la mia salvezza per mezzo della materia".

Tuttavia, quando Dio penetra nella sua creazione o piuttosto quando accoglie nella sua persona la materia di un corpo umano, accade qualcosa in questa materia, questo corpo è allora divinizzato perché è il corpo umano di Dio.

San Giovanni lo chiama omotheos, uguale a Dio. Questo corpo è allora invaso dalle energie divine, e diviene, in rapporto alla creatura non ancora trasfigurata, sorgente di queste energie divine, come un pezzo di ferro tenuto nel fuoco si trasforma esso stesso in fuoco, senza per questo perdere la sua materialità.

Ma il corpo di Cristo non è solo sorgente delle energie divine grazie alla Incarnazione. Tutto ciò che è stato compreso nella sua opera di salvezza e tutto ciò che prosegue quest'opera, particolarmente nella liturgia, si trova inondato dallo Spirito Santo e comunica la sua grazia. "Ma io venero così il resto della materia per la quale mi è venuta la salvezza, come riempita di energia divina e di grazia. Il legno della croce... non è materia? Il calvario... non è materia? O questa pietra che porta la vita, il santo sepolcro, non è sorgente della nostra resurrezione? L'inchiostro e il libro dei Vangeli non sono materia? O l'altare, che ci dona il pane della vita, l'oro, l'argento con cui si fanno le croci, le tavole e i vasi sacri, non sono materia?... O dunque sopprime la venerazione di tutte queste cose, o concedi alla tradizione della Chiesa anche la venerazione delle icone, che sono state santificate dal nome di Dio e dei suoi amici (i santi) e che per questo nasconde l'ombra della grazia dello Spirito Santo! Non disprezzate la materia: essa non è vergognosa, perché nulla di ciò che Dio fa è vergognoso".

Per questi l'icona si sforza di rappresentare, nel suo stile e nella sua forma, questa trasfigurazione del corpo umano e di tutto ciò che lo circonda... Il criterio supremo della forma dell'icona ci viene dalla sua funzione liturgica e questo criterio è la preghiera. Tutto nell'icona deve servire alla preghiera, deve perfino esprimerla.

Per concludere, gettiamo uno sguardo sul secondo periodo della lotta per le immagini. Due nomi dobbiamo ricordare prima di tutto, quello del santo patriarca Niceforo di Costantinopoli e quello di san Teodoro Studita., che svilupparono nei loro scritti gli argomenti sostenuti dal Damasceno. Ma ciascuno di essi portò il suo contributo personale a una elaborazione più profonda della teologia dell'icona.

Si potrebbe formulare così il contributo di Niceforo: "L'immagine è una somiglianza dell'archetipo che esprime in se stessa, per la somiglianza, tutto l'aspetto (eidos) di colui che vi è figurato, con la sola differenza della sostanza distinta dalla materia". La somiglianza storica con la persona rappresenta, confermata dalla iscrizione obbligatoria del suo nome, trasforma l'immagine in legame mutuo fra colui che prega e colui al quale è rivolta la preghiera, e Niceforo sottolinea che sul piano della creatura una immagine non è mai della stessa natura del modello ma sempre di sostanza differente.

Si oppone così risolutamente alla dottrina degli iconoclasti, che affermavano che l'Eucaristia sarebbe la vera icona perché della stessa natura. L'ultima tappa è segnata da Teodoro Studita che definisce l'icona del Signore come una immagine del Cristo e che si lega in questo alla dottrina cristologica di Cirillo di Alessandria, del V Concilio Ecumenico, e di Massimo il Confessore. Egli scrive ad esempio: "Noi seguiamo la fede della Chiesa e confessiamo che l'ipostasi del Verbo è divenuta l'ipostasi comune delle due nature e che essa ha ipostizzato in sé (en auté upostesasan) la natura umana con le proprietà che la distinguono Per questo noi chiamiamo a buon diritto la sola e identica ipostasi del Verbo, non circoscritta secondo la natura divina, e circoscritta secondo la natura umana".


Conclusione

Siamo giunti qui all'ultima questione: "Cosa è descrivibile in Cristo?"

Sul piano trinitario, il Figlio in quanto immagine consustanziale del Padre testimonia la divinità del Padre. Questa divinità resta evidentemente sempre invisibile, in quanto "natura" e in quanto "divina".

Nel Verbo incarnato, la natura divina consustanziale al Padre resta evidentemente anch'essa invisibile.

Ma la sua natura umana, ricevuta dalla Madre, e consustanziale a noi, non avendo, ipostasi propria ed essendo enipostatizzata dal Verbo, conserva la sua proprietà naturale e la sua descrivibilità secondo la carne, come essa ha conservato per esempio la sua volontà propriamente umana.

L'immagine di Dio nella natura umana del Cristo pienamente restaurata, ma rimane, come immagine che riflette l'inconoscibilità del modello, invisibile e dunque indescrivibile.

La somiglianza divina della umanità trasfigurata del Cristo è totale, non per grazia, ma per così dire "secondo la sua persona divina".

In effetti lo Spirito Santo non ha bisogno di perfezionare una persona, perché la persona che assume la natura umana del Nuovo Adamo è la divina ipostasi del Verbo stesso.

Il corpo umano trasfigurato, ma descrivibile del Cristo, consustanziale a noi, è dunque somiglianza perfetta perché "enipostatizzati" nella persona totale e perfettamente santa del Verbo, quindi è mezzo e luogo teofanico.

La carne del Cristo, descrivibile benché deificata, ci mostra la persona del Verbo, perché la somiglianza perfetta non può essere che totalmente personale!

L'icona mostra l'unica persona del Cristo, Verbo incarnato secondo la sua carne deificata, indicando, coi mezzi stilistici appropriati, che egli ha totalmente realizzato la somiglianza divina nell'uomo assumendo, come Nuovo Adamo, nella sua divina ipostasi la natura umana completa e descrivibile secondo la carne.

Se dovessimo riassumere queste osservazioni, direi, ispirandomi al linguaggio del V Concilio Ecumenico (533) che la frase "Dio ha sofferto nella carne ed è morto sulla croce" può essere trasformata nel modo seguente: "Uno della Santa Trinità è divenuto descrivibile nella carene, e noi dipingiamo l'immagine della sua divina persona".

da SIMPOSIO CRISTIANO
EDIZIONE DELL'ISTITUTO DI STUDI TEOLOGIGI ORTODOSSI - SAN GREGORIO PALAMAS
Milano 1994, pp. 97-112

                                                                                                                                                                                                            Trad. di Pietro Galignani