PLATON RODOKANAKIS
LA TONACA ARDENTE
TO FLOGISMENO RASO
HELLENISMOS
VIAGGIO NEL MONDO GRECO DELLO SPIRITO
TAXIDI STO ELLHNKO KOSMO TOU PNEUMATOS
NOTA
INTRODUTTIVA
Platon
Rodokanakis, il primo esponente dell'estetismo greco, nacque a Smirne nel
1883. Ancora bambino si ammalò di tisi e la sua famiglia si trasferì a Kordeliò,
una amena località in riva al mare. Nei tre anni trascorsi in questo paesino,
di cui serberà ricordi nostalgici, Platon non solo guarì della sua malattia,
ma foggiò anche il suo peculiare mondo spirituale e sentì per la prima volta
l'attrazione per taluni aspetti della vita monastica e religiosa. Così, nonostante
il parere contrario di sua madre, egli decise di andare a studiare alla Scuola
teologica di Chalki, dipendente dal Patriarcato ecumenico di Costantinopoli.
Ma indotto dal suo temperamento al culto del bello e alla ricerca della voluttà,,
abbandonò la Scuola per ritornare nel secolo. Le rimembranze del tempo trascorso
a Kordeliò e a Chalki costituiscono il tema de La tonaca ardente. Lasciata
Smirne, si stabilì ad Atene dove collaborò con vari quotidiani. Nel 1916 istituì
il Museo bizantino a Salonicco e nel 1917 fu nominato direttore della sezione
bizantina del Ministero dell'istruzione. Tra le sue opere principali ricordiamo
De profundis (poesie in prosa, 1908), La tonaca ardente (1911), La rosa scarlatta
(1912). Morì nel 1919.
PARTE PRIMA PARTE SECONDA PARTE TERZA PARTE QUARTA
Ogni pomeriggio,
quando uscivamo dal vespro, ci sistemavamo un po' i capelli e quindi a due
a due, a tre a tre, andavamo a fare una passeggiata nel bosco. Io rimanevo
spesso nel monastero, andavo sulla terrazza tutto solo, e mi mettevo ad ascoltare
il canto triste e languido del muezzin, che mi giungeva dal minareto del liceo
nautico. Allora mi pareva che quel canto triste e struggente fosse il sospiro
musicale emesso dalle forme e dai colori di tutte le cose della terra quando,
all'orizzonte, il sole veniva colpito e fatto a pezzi dalla mezzaluna sulla
cupola di Santa Sofia, tutte le cose erano sopraffatte dal dolore dell'annientamento,
e nere ombre di disperazione avvolgevano la loro bellezza.
Spesso facevo la passeggiata nel bosco con un amico.
I pini arrivavano fino alla spiaggia scoscesa dove scendevano e assumevano
posizioni folli, con le radici alla rovescia e le frondose chiome distese
sul mare come una rete verde, quasi volessero tirar su le tenere visioni che,
la notte, avevano accompagnato i palpiti della Ninfa tra le braccia del tritone
dalla crespa barba azzurra.
Viottoli e sentieri si snodavano qua e là tormentosamente fra i tronchi
degli alberi, trascinando la loro solitudine in mezzo al bosco dove dal paese
venivano i sekertzìdes a vendere dolci con i pistacchi, i pinoli, le
mandorle, e il muchalebì bianco come la panna, nei piatti, fatto di
riso pestato e d'innocente latte di mucca.
Molte volte la curiosità induceva la gente a salire fino al nostro
bosco dalle ville, e allora capitava che le risa e le graziose conversazioni
di alcune floride donne cadessero sull'erba sfogliandosi come profumati fiori
di seta rosa che esse stesse si chinavano a raccogliere, li mettevano in un
panierino e li riportavano alle ville, dove li preparavano con lo zucchero,
senza sapere che avevano già fatto dei dolci con le loro risa e i loro
discorsi mondani.
I monaci abbassavano gli occhi quando vedevano le fanciulle andare e venire,
perché erano certi che se li avessero tenuti alzati, sarebbero caduti
in ginocchio dinanzi alla voluttà che passava vicina al punto che le
loro tonache sfioravano come una carezza le sottane delle donne, come le dita
d'una mano ce si danno da fare sulla buccia dorata d'una arancia, con l'intenzione
di separarne gli spicchi e rinfrescarsi la bocca con il loro succo profumato.
Il mio amico (che ora è vescovo) non prendeva le cautele necessarie
contro la tentazione. Per questo una fanciullina piccina così, con
le gambe paffutelle e che portava sempre le ghette bianche che le arrivavano
fino al ginocchio, gli si presentava simile a un candelabro a sette bracci
che, introdotto da una mano in un buio bagno pompeiano, illuminava d'un tratto
affreschi con voluttuose scene di nudità. A volte mi lasciava solo
e si stendeva supino sul declivio, fingendo di guardare attentamente i lentischi
tutti profumati di resina, proprio quando le gambine con le ghette venivano
a passeggiare sul declivio danzando la danza della carne, spensierate, con
quelle bianche sottovesti infantili tutte ricamate. E gli piaceva anche lanciare
dolci occhiate a una balia esuberante che ogni giorno, verso il crepuscolo,
faceva la sua passeggiata con il passo di Semiramide nei giardini pensili
per prendere il fresco, senza immaginare che le ciliegie appese a quelle pareti
d'alabastro avrebbero punto il desiderio del monaco.
Un caldo pomeriggio in cui delle foschie purpuree si rifrangevano sul bosco,
Charàlambos volle provare, di sua propria mano, se il cuore femminile
fosse accordato in modo da emettere note sentimentali. Cominciò a seguire
la balia, trovò un pretesto, le parlò del peccato originale
e gliene spiegò i particolari con un linguaggio talmente realistico
che la poveretta si mise a mugghiare come un mammut, si voltò masticando
uno scongiuro, gli s'avventò addosso e gli diede tanti di quei pizzicotti
che per molto tempo gli coprirono il corpo di chiazze nere, come fossero le
stigmate del suo peccato.
Le sere d'estate, dopo cena, uscivamo tutti sulla terrazza, camminavamo silenziosi
oppure sedevamo malinconici sui muretti. Dall'oscurità misteriosa il
cielo scendeva languido sotto forma di pioggia d'oro per dormire con Danae-Terra,
bramoso di fecondarne il ventre e produrre frutti profumati. Voci indistinte
e mormorii semisoffocati s'udivano nell'atmosfera estenuata.
Le lucciole trascinavano senza sosta il loro splendore nel buio della notte,
piccoli lumini viventi inondati dal profumo delle vaniglie e dei giacinti.
In direzione di Pringipo brillava il freddo riflesso azzurrino che l'illuminazione
elettrica stendeva sulle ville, sugli alberghi e sui bar, mentre in fondo
all'orizzonte, ficcate come chiodi d'oro per tenerne l'orlo unito con l'estremità
del mare, si vedevano altre piccole luci solitarie di sciabiche a pesca d'aragoste.
Molte volte uscivo da me stesso. Lasciavo il mio corpo seduto immobile al
suo posto, e volavo come spirito fino al paese, entravo nelle ville, varcavo
porte chiuse e assistevo a visioni peccaminose: corpi supini sopra bassi letti
di cedro, corone nuziali avvizzite e coppe rovesciate da cui il sangue della
vite si riversava sul pavimento. Convegni segreti, orge narrate in codici
di soffice pergamena coperti di ragnatele e ornati con lettere miniate in
cui s'annidavano pavoni dalle ali dorate.
Anche i monaci sono uomini. E mi sarebbe difficile dimenticare Efthìmios,
un monaco biondo originario di Mitilene, con gli occhi celesti come gli amuleti.
appesi al collo dei muli. Lui non si manifestò mai. Ma un meriggio
d'estate, tra i pini, mentre le pine incensavano l'aria con balsamici effluvi
di resina e la brezza, come un bagno tiepido, faceva schiudere tutti i pori
perché i semi della passione penetrassero in ogni esistenza e vi facessero
germogliare il desiderio, Efthìmios fu inondato di vita a tal punto
che la parte più recondita della sua esistenza eresse una protesta
con l'intento di mandare in frantumi il cielo con un'accesa sassaiola.
Ci trovavamo su un pendio, distesi su pianticelle di origano e di menta, sotto
le quali s'aggirava un intero mondo di piccoli insetti rossi con nere punte
di spillo sul rivestimento, piccoli cuoricini pieni di ferite segrete.
Un grosso calabrone nero ronzò per un po' intorno alle nostre teste,
poi se n'andò inferocito.
– Io sento, mi disse con la voce roca il monaco, sento la voce del Creatore
uscire impetuosa dalle pietre, dalla luce, dall'erba e da dentro di me come
un annuncio di libertà e di gioia. Maledetti coloro che hanno sempre
la negazione sulle labbra, coloro che creano anime con l'egoismo demoniaco
di guardare con disprezzo tutte le buone cose che Egli ci ha donato. E maledetti
anche coloro che si ritirano dal mondo, come i colpevoli che si nascondono
indossando la nera camicia di qualche ignota galera. Io amo, io cerco, io
ho la malattia della vita e soffro per il dolore della vita.
CONTINUA
© traduzione dal neogreco di Mauro Giachetti