MARIA LAMBADARIDOU-POTHOU

«TROVERETE LE MIE OSSA SOTTO LA PIOGGIA...»

 

Salgo sulla Collina di Karyès e sento la mia mondanità essermi di peso. D'un tratto diventa concreta. Una mondanità amareggiata dalla stupidità e dalla notte della paura. Salgo sui pendii gremiti di olivi dorati della Collina di Karyès, in cima alla quale c'è il fulgido monastero e un timore reverenziale mi pervade. Il timore reverenziale del Mistero che fu rivelato precisamente in questo punto del mondo. E cerco di immaginare quelle notti solitarie, le notti dell'oblio del mondo quando qui, in questo luogo segnato, si aggirava un monaco ancora sconosciuto, altissimo, con un incensiere in mano. E ripenso al salmo di Davide: «Signore, chi s'accampa sul tuo monte santo?» E ripenso anche a quelle notti d'inverno, tenebrosissime, con il vento che fischia tra gli alberi e a quel monaco che vaga nel deserto, un'anima nuda e splendente, che nessuno ancora sapeva cosa stesse cercando. DAQUI
Una volta mi hanno chiesto se credessi ai miracoli. E la mia mente se n'andò là. A quei momenti radiosi che vissi salendo su quell'umile Collina. Se miracolo è una scintilla di comprensione dell'Incomprensibile. O una partecipazione personale al soprannaturale. Una partecipazione fugace, aerea, e tuttavia più reale di tutte le realtà della nostra vita. Se credo ai miracoli... E nel mio pensiero si libra la parola del santo errante: «Troverete le mie ossa sotto la pioggia...» Ed è così che le trovarono. Il girovagare del «Monaco con l'incensiere» si protrasse per decine di anni. Se qualcuno saliva sulla Collina di Karyès vedeva il Monaco ora con indosso la nera tonaca monastica, ora con paramenti sacri bizantini tutti ricamati d'oro, aggirarsi muto, guardare gli uomini per un po' e sparire.
Nessuno, nessuno sapeva chi fosse quell'anima che si aggirava sempre nello stesso posto e con lo stesso simbolo peculiare della santità: l'incensiere. Eppure, ogni martedì di Pasqua, per antica consuetudine, gli uomini salivano lassù, sulla Collina, celebravano una cerimonia tra le rovine di un antico tempio che era lì fin dai tempi della turcocrazia, risuonavano salmodie oltremondane, d'un tratto il tempio in rovina veniva inondato da uno strano splendore abbagliante, e allora quegli uomini diventavano testimoni di inspiegabili fenomeni soprannaturali.
Eppure nessuno sapeva perché essi salissero fino lassù a celebrare quella cerimonia. Il tempo aveva ricoperto gli eventi con un greve oblio. Con un silenzio di tomba. Unico segno il «Monaco con l'incensiere». Il fantasma dell'altro mondo che usciva dalla tomba, attraversava i muri terreni del silenzio recava agli uomini un messaggio sconosciuto, anche allora, e misterico. Finché non arrivò il momento della Rivelazione.
Alcuni chiesero il permesso di costruire una chiesetta lassù, sulla Collina dei fenomeni soprannaturali. E la zappa urtò una lastra di pietra verticale, profonda, che portava a una tomba. Più tardi venne anche il sogno: «Troverete le mie ossa sotto la pioggia», disse l'umile testimone, un diacono che da cinquecento anni si aggirava insieme al santo errante. E le ossa furon trovate un giorno – un giorno di giugno – in cui la pioggia che, cadde a dirotto, travolse pietre, cespugli e apri fessure nell'Incomprensibile. Le ossa. Le lavarono col vino, le misero in un sacco e aspettarono di sapere a chi appartenessero. Ma furono sopraffatti dal terrore quando si accorsero che quelle ossa erano vive, e che dal loro interno uscivano dei gemiti, bagliori, rumori strani. E gli uomini furon presi dal terrore. Il Mistero inviava loro i propri segnali, ma senza ancora rivelarglisi.
Sinchè non giunse l'esatto momento della Rivelazione, stabilito da volontà ignote. Davanti agli uomini della zona cominciò a mostrasi, del tutto vivo, il «Monaco con l'incensiere» con l'umile diacono che gli stava accanto, le cui ossa erano state trovate «sotto la pioggia». E, o nella realtà oppure in sogno, il Monaco si mise a narrar loro la sua storia, brani della sua storia, che si avveravano uno dopo l'altro. «Io sono, diceva loro, il Monaco che vedete aggirarsi da tanti anni sulla Collina di Karyès. Ero abate nel monastero che sorgeva qui, e subii il martirio insieme ad altri monaci. Fummo sgozzati dai turchi la notte del nove aprile 1463, giorno di Pasqua. Mi chiamo Rafaìl. E le ossa che avete trovato sono mie.». Cinqucento anni di silenzio. Cinquecento anni di preparazione ignota, forse, per il momento della Rivelazione. Perché il miracolo potesse penetrare nel mondo della corruttibilità e dell'arroganza. Perché un raggio di Luce vivificatrice potesse penetrare nelle coscienze pervase dall'oblio.
Salgo sulla collina di Karyès e mi sento una nullità. Un granello di intelligenza insignificante che vive il dramma dell'esistenza. Un dramma che si consuma in regioni ignote dello Spirito, ai confini con l'aldilà. Una nullità effimera. Con una scintilla spirituale incorrotta non ancora espressa dentro di me. E che davanti a questo Mistero ammette che qui, in questo luogo tormentato fu rivelato anche per me. Perché potessi sentire il timore reverenziale. Il timore cosmico. Quello che conduce l'anima alla verità e le permette di riconoscere se stessa. Questo luogo è santo, dicevano, perché molte anime vi ricevettero il martirio. È un luogo santo e vivo. Perché il martire non muore. La sua anima veglia nella solitudine del mondo.

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Da EFTHYNI, n° 397, gennaio 2005, pp.13-15.
Maria Lambadaridou-Pothou è nata a Mìrina, nell'isola di Lemnos. Ha studiato Scienze politiche ad Atene e Estetica del teatro a Parigi. Poetessa, ha scritto anche romanzi e opere per il teatro.