SPIRIDIONE P. NICOLAIDI
IL MESSAGGIO DELL'ICONA BIZANTINA
Uno dei primi Concili d'Oriente afferma: "Quanto il Vangelo dice con la parola, l'icona lo annuncia con i colori e lo rende presente".
Ma cos'è veramente l'icona per il fedele ortodosso e per l'umanità cristiana? Vediamone qualche breve cenno illustrativo.
Col vocabolo "icona" (che in greco significa "immagine") siamo usi indicare un particolare genere di dipinto sacro, eseguito su tavola lignea secondo i dettami di una tradizione e tecnica risalenti ai primi secoli del cristianesimo.
La patria dell'icona è l'Oriente bizantino che ha saputo creare e custodire sino ai nostri giorni queste sacre opere di umana devozione e di profondo contenuto spirituale.
I luoghi di culto del cristianesimo orientale hanno nell'icona il loro ornamento principale e nelle dimore private essa è oggetto di venerazione per l'intera famiglia che la possiede e gelosamente conserva, talvolta da più generazioni.
E nel dilagare dell'avanzata islamica e nei successivi secoli di oppressione della fede di Cristo, l'icona spesso costituisce l'unico legame con la fede; attorno ad essa si ritrovano, in segreta adunanza, vecchi e giovani, ricchi e poveri, tutti accomunati nel fervore della preghiera.
L'icona sfida così il tempo e le persecuzioni, recando sino a noi quel vivo messaggio che narra di una fede mantenuta intatta attraverso ardui e oscuri secoli.
In primo luogo l'icona è simbolo di fede e di speranza incrollabile coronata dal trionfo finale del cristianesimo; sotto tale aspetto, che astrae da quelli che possono essere gli artistici pregi, essa va quindi fondamentalmente considerata,
Né di minore importanza risulta la funzione dell'icona nel tempio cristiano-orientale ove essa, verso la fine del secolo ottavo, origina quel processo evolutivo che darà vita all'"iconostasi". È questo il caratteristico diaframma ornato di icone che separa il "santuario" dal rimanente corpo del tempio e sul quale si aprono tre porte in corrispondenza dell'altare centrale e, rispettivamente, dei due minori laterali.
L'iconostasi tiene luogo del cancello o balaustra che anticamente separava l'officiante dai fedeli - tale elemento è tuttora conservato nella Chiesa di Occidente - e prende a formarsi quando il VII Concilio Ecumenico, ponendo fine alla lotta iconoclastica, riammette le sacre immagini alla venerazione dei fedeli. Ritornano così trionfalmente nel tempo le icone e vengono esse appese alla cancellata divisoria la quale, ben presto satura nella sua capienza, cerca nuovo spazio proiettandosi verso l'alto. Nasce così quella "parete divisoria adorna di icone" che, con migliorie successive nel tempo, raggiunge la sua odierna caratteristica fisionomica.
La tradizione fa risalire l'origine delle icone al primo ritratto della Vergine dipinto da san Luca, anticamente conservato in un tempio di Costantinopoli posto sulla via "dei Condottieri" (Tòn Odigòn) e, pertanto, indicata col nome di "Odighìtria" dalla citata ubicazione del santuario. Innumeri copie, successivamente eseguite, hanno ripetuto nel tempo con la massima fedeltà possibile questo prototipo, cui nel seguito si sono unite anche altre sacre raffigurazioni, facendo così della icona un venerato oggetto di culto.
Ma l'esplicazione di alcuni tra i basilari principi che governano questo affascinante mondo della pittura religiosa bizantina, diviene opportuna per una sia pur superficiale comprensione dello stesso.
In primo luogo va chiarito che le icone rispecchiano la visione di un mondo trasfigurato nel quale si intravede una realtà non appartenente al nostro ambiente terreno. Nelle icone l'arte trova il suo svolgimento in un universo non identificabile con quello della tradizione spaziale dell'Occidente.
La divinità è "presente" nell'icona con la sua grazia celeste e l'arte bizantina ne ripete nel tempo i prototipi che, a loro volta, trasferiscono alla copia che li riproduce, qualcosa della loro originale, miracolosa potenza. Né l'atteggiamento delle figure o la loro disposizione muta rispetto all'insieme rappresentato. Infatti, attraverso rigidissime norme, dettate dai teologi orientali, si stabiliscono le caratteristiche di tali fattori, sicché lo stesso soggetto rimane pressoché immutato nel tempo, pur attraverso le successive sue riproduzioni. Anche la forma deve, a sua volta, soddisfare norme specifiche dovendo l'icona raffigurare il soggetto proiettato nella vita eterna.
Ne consegue quindi una basilare diversità di interpretazione delle Sacre Scritture da parte dell'artista chiamato alla creazione del dipinto. Nell'Occidente egli esegue l'opera sacra primieramente guidato dai canoni di una sua personale e libera concezione del soggetto, mentre nell'arte religiosa bizantina egli si distacca dalla "terrena realtà" per accostarsi a una più pura e spirituale concezione dello stesso. Si ha così una voluta negligenza nella resa prospettica e volumetrica, il che - unitamente all'aurea e suggestiva ricchezza dell'insieme - contribuisce a efficacemente creare quell'opportuno distacco della rappresentazione dalla quotidiana realtà del nostro mondo. Attraverso un raffinato linguaggio simbolico l'icona avvicina i fedeli ai più sublimi misteri della religione cristiana. Vediamo così l'azzurro colore del manto di Gesù Cristo simboleggiarne la divinità regale, mentre il rosso della tunica ne raffigura la terrena umanità. Nel rosso velo della Vergine, viceversa vediamo rappresentata la di lei umanità in contrapposizione all'azzurra tunica della sua divinità. Osserviamo inoltre le tre stelle poste sulla fronte e una su ciascuna spalla: stanno a simboleggiare la verginità anteriormente, durante e dopo il parto.
La tecnica è anch'essa vincolata a precise norme e impone una accurata e scrupolosa scelta nelle forme, colori e materiali. Il legno deve, ad esempio, possedere gli opportuni requisiti di compattezza e resistenza all'usura del tempo, mentre i colori si ottengono solo con particolari miscugli di scelte sostanze.
Solitamente, e sino ad epoca a noi piuttosto vicina, le icone non vengono datate o firmate dall'artista. Quasi sempre si tratta d'un monaco che si prepara all'impegnativo compito con giornate di meditazione e digiuno per ricevere, alla fine di tale preparatorio periodo, l'opportuna consacrazione con l'"àghion miron" da parte del priore del suo monastero. Così, purificato e consacrato, egli fa voto solenne di non altro dipingere che immagini sacre nel corso della sua restante esistenza terrena, affidando così alle icone uscite dal suo pennello quel sacro e spirituale messaggio che noi oggi riceviamo immutato nel tempo.
Da Simposio Cristiano
ed. dell'Istituto di Studi Teologici Ortodossi
San Gregorio Palamas, Milano 1994, pp. 133-135