ATHINÀ VUGHIUKA: MITO E PARABOLA NEI ROMANZI DI NIKOS KAZANTZAKIS
Ricordiamo innanzi tutto il significato dei termini «mito» e «parabola». Il mito è un breve racconto allegorico i cui protagonisti sono di solito personaggi fantastici, animali, piante e oggetti inanimati, che però si comportano come esseri umani (come nei miti di Esopo, di Fedro, di Lafontaine). Lo scopo del mito è quello di trasmettere l'insegnamento - secondo la saggezza popolare - contenuto nella morale della favola. I miti sono sempre stati usati come mezzo d'insegnamento naturale non solo dal popolo, ma anche dai poeti, dai filosofi, dai capi religiosi e politici. Un genere affine al mito è la parabola, una narrazione allegorica di carattere realistico, che sebbene esposta con semplicità e naturalezza, cela di solito un insegnamento di alto valore etico e religioso (le parabole del Vangelo sono l'esempio più noto). Questi generi letterari tradizionali, e comunque minori, assumono aspetti diversi nelle mani di Kazantzakis. Innanzitutto egli ne amplia la categoria inserendovi, come abbiamo detto, brevi storie - aneddoti, sogni, leggende e tradizioni - dopo che hanno subito una appropriata trasformazione strutturale che permetta loro di svolgere un determinato ruolo. Ne viene ampliato anche l'uso, dato che vengono inseriti in un procedimento poetico, nel senso più ampio del termine, così che da semplici mezzi didattici sono trasformati in elementi poetici, come vedremo più avanti. Infine, il loro contenuto subisce una trasformazione radicale: questi brevi racconti non hanno più a che fare con la saggezza popolare o con l'insegnamento etico o religioso, ma sono diventati dei pensieri filosofici trasformati da Kazantzakis. E queste brevi storie non sono soltanto assai numerose, ma anche di varia provenienza. Alcune le ha inventate Kazantzakis stesso, altre ancora - la maggior parte di esse - egli le ha trovate già pronte sulla sua strada. I suoi infiniti viaggi e la sua eccezionale cultura gli permisero di raccogliere una grande varietà di storie rare e strane di ogni provenienza. Nei suoi romanzi abbiamo incontrato miti, leggende e aneddoti della Grecia antica e della Grecia moderna, ma anche arabi, indiani, cinesi, giapponesi, mongoli, africani, russi, georgiani, e francesi.
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Abbiamo incontrato storie e parabole dal Vecchio, dal Nuovo Testamento e dai Vangeli apocrifi, dalle vite dei santi e dall'insegnamento hassidico. Ci siamo imbattuti perfino in leggende cristiane, buddiste e islamiche... Tutte queste storie, inserite a intervalli irregolari nel testo più ampio dei romanzi, sono sempre iscritte in un discorso filosofico che percorre da un capo all'altro il romanzo kazantzakisiano e sono al servizio di una idea, perché servono a esprimere e a illustrare un pensiero astratto2. È chiaro che questo determina anche la loro forma e la loro struttura (questo vale per tutti i miti e le parabole in genere, e non solo per quelli usati da Kazantzakis). Così esse sono espresse in forma narrativa perché il racconto è piacevole e attrae l'attenzione del lettore a totale vantaggio del significato. A corroborare il significato contribuisce anche la loro brevità, la semplicità della scrittura, così come la linearità e la concisione del racconto: nessuna descrizione eccessiva, nessuna divagazione, nessun elemento decorativo, nessun gioco con il tempo del racconto ne indeboliscono la tensione semantica, e l'attenzione del lettore non viene distolta. La maniera in cui questi brevi testi vengono inseriti nel testo maggiore è semplice, classica: uno dei personaggi del romanzo, o anche il narratore stesso, comincia a narrare un mito o una parabola, aggiungendo spesso, alla fine, la propria interpretazione del significato più profondo. Tuttavia, questi testi così inseriti nel corpo del romanzo, sono sempre chiaramente distinguibili dal resto del romanzo. Costituiscono una soluzione della continuità, un rottura dello spaziotempo, del sistema dei personaggi, della trama... I romanzi di Kazantzakis hanno un carattere fondamentalmente realistico, cioè
ubbidiscono a una estetica/senso della credibilità e della rappresentazione della
realtà. Ma in essi non troviamo mai il realismo di ogni giorno, del luogo comune. Al
contrario, potremmo caratterizzarli come i romanzi di qualcuno che aspira a grandi cose.
Perché l'eroe kazantzakisiano non è l'uomo di ogni giorno. Si occupa dei problemi più
alti dell'esistenza umana, impone a se stesso gli scopi più alti, vive una avventura
esistenziale e la vive fino in fondo. Manoliòs, il pastore innocente che diventa un
Cristo contemporaneo ne L'ultima tentazione, Capitan Michele, l'eroe della
rivoluzione cretese nel romanzo omonimo, Cristo ne L'ultima tentazione, i delicati
eroi in Giardino roccioso, offrono la loro vita per salvare se stessi e tutti. San
Francesco d'Assisi ne Il poverello di Dio, passa attraverso tutti gli stadi
dell'ascesi e della santità. Zorbàs, sebbene uomo analfabeta dell'azione, raggiunge
consapevolmente invidiabili vette di libertà e di umanità. E infine la Gru in Toda-Roba,
così come lo stesso scrittore in Rapporto a el Greco, la sua biografia romanzata,
agiscono senza eccezione nella sfera di qualcuno che aspira a grandi cose. Intorno agli
eroi si organizza un sistema di personaggi ben gerarchizzati: in cima pochi eletti
compagni i quali, sebbene condividano le problematiche dell'eroe, non
possono giungere alle stesse vette cui giunge lui; più indietro, i semplici uomini del
popolo. |
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Tutti questi personaggi vivono e si muovono in un mondo molto al di fuori di quello consueto, in un ambito spaziotemporale che emana il fascino di ciò che è definitivamente passato, inconsueto e persino esotico. In Toda-Roba, troviamo la Russia dei primi tempi rivoluzionari trasformata in un campo di mutamenti cosmogonici che avrebbero cambiato la faccia della terra. In Giardino roccioso, lo sguardo di Kazantzakis crea dalla Cina e dal Giappone degli anni '30 un mondo esotico e delicato, tutto poesia e gentilezza. Nei suoi altri romanzi il quadro dell'azione è costituito da società arcaiche e rurali, dove il tempo sembra essersi fermato. La Creta del XIX secolo in Capitan Michele e degli inizi del XX in Alexis Zorbàs. L'Asia Minore dei villaggi greci sperduti nella sua immensità, prima del grande sradicamento, in Cristo di nuovo in croce. La Palestina al tempo di Gesù ne L'ultima tentazione. L'Umbria medioevale, con la famosa città di Assisi, ne Il poverello di Dio. E poi una infinità di luoghi in Rapporto a el Greco: Creta, la Grecia continentale, l'Italia, il Monte Athos, il Monte Sinai, la Palestina, Parigi, Vienna e Berlino degli inizi del secolo, Mosca, Buhara e il Caucaso degli anni '20; luoghi quasi mitici ricreati dal ricordo dello strano viaggiatore Kazantzakis. È un modo antico in cui vi è ancora posto per le profezie, per le visioni, per i sogni, per i proclami. Figure ieratiche - messia, santi, sacerdoti, profeti, poeti, creatori, ma anche semplici uomini del popolo «ispirati da Dio» - appaiono sulla scena e proclamano la loro verità, e per sostenerla narrano miti, parabole, aneddoti, rivelano i loro sogni e le loro visioni. Da questo punto di vista, la rottura provocata dallo strano mondo delle brevi storie nel testo del romanzo non è né tanto impressionante né tanto profondo come potrebbe essere, ad esempio, se in un romanzo ambientato nell'epoca contemporanea, un funzionario di banca in una grande città cominciasse a predicare il suo messaggio di verità ai suoi colleghi, usando, per convincerli, miti, parabole, sogni... Eppure la frattura esiste. Ogni piccola narrazione apre all'interno del testo maggiore un altro mondo. Appaiono improvvisamente un'altra storia, un altro luogo (spesso indefinito, mitico), un altro tempo (la maggior parte delle volte il tempo atemporale delle favole), altri personaggi, o se talvolta sono gli stessi di quelli che si trovano nel testo maggiore (come negli aneddoti di Zorbàs), appaiono in un altro luogo e in un altro tempo, in un'altra circostanza della loro vita. Qualche volata il mondo nuovo, specialmente negli aneddoti e nelle parabole, è o sembra reale, ma spesso è fantastico, magico, nel quale animali e piante parlano, uomini mitici vivono davanti ai nostri occhi, e Dio diventa una realtà tangibile. Per un solo istante, il tempo della durata del breve racconto, e quando il piccolo testo termina ci troviamo di nuovo nello spaziotempo centrale del romanzo. Tuttavia, nonostante la soluzione della continuità esiste sempre tra i due testi un legame profondo e stabile collocato tra il loro nesso semantico. |
Nel testo maggiore esiste un pensiero astratto che viene a illustrare e a rendere concreto il testo breve. In altre parole, il testo breve funziona come mezzo di espressione illustrativa e contribuisce anch'esso - insieme ad altri mezzi similari, metafore, similitudini, allegorie, simboli ecc., con i quali Kazantzakis costruisce il complesso mosaico della sua opera - a rendere comprensibile l'idea astratta, il pensiero astratto. Si tratta di una funzione poetica - nel senso più ampio - per eccellenza. Il tema della espressione illustrativa aveva occupato Kazantzakis da molto tempo. Ecco cosa scrive in un suo diario in data 1 gennaio 1915: «Devo vincere due nemici: ciò che è vistoso, spasmodicamente lirico, e ciò che è astratto. Ogni idea deve diventare una immagine plastica». Ha formulato questa idea in maniera estremamente lirica in Ascetica, il più lirico-filosofico dei suoi saggi: «Non potrai mai fissare con le parole ciò che vivi nell'estasi. Per dargli carne, per fissarlo, combatti con miti, con similitudini, con allegorie, con parole comuni e rare, con grida e con rime!3» Nel periodo in cui creava il suo poema epico Odissea scrive a Elena Samìu, che più tardi sarebbe diventata la sua seconda moglie: «Devo riuscire a trasformare in immagine semplice, pura, l'idea astratta, ecco il mio grande desiderio. L'Odissea deve essere piena di immagini»4. E a Pandelìs Prevelakis: «Devo alleggerire ogni parola e ogni espressione del contenuto "intellettuale"; solo emozione, essenza musicale. Assoluta semplicità, con immagini semplici, pure, visionarie.»5 Annuncia, come vediamo, l'immagine semplice. Ma l'immagine che vuole esprimere un alto pensiero filosofico come quello di Kazantzakis è semplice solo in superficie. E solo il duplice significato che ha - quello letterale e quello metaforico - lo rende complicato, le conferisce una dimensione profonda, dal momento che fa cercare al lettore il significato reale dietro quello apparente. Ricercheremo questa complessità esaminando il meccanismo che collega l'idea astratta all'espressione illustrativa. Il tema è più generale, ma noi ci limiteremo alle storie brevi di cui ci occupiamo. Il rapporto semantico di cui abbiamo parlato tra testo maggiore e minore, si basa su un
rapporto analogico che collega l'idea letterale contenuta nella storia breve nel suo
insieme con il suo senso metaforico, che non è altro se non il pensiero astratto che
vuole illustrare. Nel mito, ad esempio, del mandorlo che fiorisce in pieno inverno perché
si sente improvvisamente nel cuore «una calda brezza primaverile», abbiamo una analogia
tra la fioritura e l'élan vital di Bergson. Lo stesso possiamo dire del mito del
topo al quale spuntano le ali e diventa pipistrello, e in genere di tutti i miti che
riguardano lo spuntare delle ali e il volo verso l'alto. Risulta chiaro da questi esempi
che l'espressione illustrativa così creata è tutt'altro che semplice. Ha un significato
nascosto che è difficile da trovare. Bisogna necessariamente trovare una qualche
interpretazione. Ma anche il tentativo di interpretare è difficile, non solo perché il
lettore non è sempre in possesso delle specifiche conoscenze richieste, ma anche perché
il pensiero astratto non appare mai nel testo maggiore con il termine filosofico
stabilito. Kazantzakis usa ogni volta la sua propria lingua per esprimere le sue idee filosofiche. |
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Prendiamo di nuovo l'esempio dell'élan vital di Bergson. Mai Kazantzakis lo cita così, ma gli dà una forma concreta chiamandolo Grande Soffio, o Grande Grido («Spira nel cielo e sulla terra e dentro il nostro cuore e dentro il cuore di ogni cosa vivente un soffio gigantesco che chiamiamo Dio. Un grande Grido.»6), o Dio che lotta, o Rosa dei Venti... Spesso le storie brevi possiedono significati molteplici o ambigui. Talvolta il narratore aggiunge la sua interpretazione alla fine, ma anch'essa è difficile a comprendersi. Tutte queste difficoltà semantiche creano una tensione che fa muovere il pensiero del lettore e lo spinge a voler trovare una spiegazione. E se ci riesce, oltre alla gioia estetica che ne ricava facendo ciò, prova anche la soddisfazione per aver risolto l'enigma, di aver imparato qualcosa di nuovo.
Indubbiamente Kazantzakis è uno scrittore pensatore e tutta la sua opera nasce innanzi tutto dalle sue idee che costituiscono anche il costante substrato di tutta la sua creazione letteraria. Ma come dice Prevelakis, «Kazantzakis non fu l'inventore delle proprie idee. Le raccolse da illustri maestri del suo tempo e da iniziatori del passato.»7 In realtà il pensiero di Kazantzakis è fondamentalmente un miscuglio di bergsonismo, nitzscheismo, pragmatismo, vitalismo, buddismo e di una particolare forma di cristianesimo. Quindi il suo credo filosofico non è una sua invenzione. La sua originalità sta prima di tutto nel fatto che egli diede una sua interpretazione, spesso ampliandolo, del pensiero dei suoi maestri. Seconda di poi riuscì a costruire una sintesi personale da tutte queste idee eterogenee. E infine, trascrisse i termini tecnici del pensiero metodico filosofico in lingua poetica, in espressione concreta. Fu così in grado di creare una visione del mondo e dell'esistenza umana transustanziandola profondamente in linguaggio poetico. Cominciamo dalla visione del mondo: al suo epicentro si trova il
trionfo della vita, la quale viene elevata alla massima potenza e simultaneamente al
massimo valore, e soprattutto viene divinizzata, cosa che credo non venga sottolineata
abbastanza dagli studiosi. Influenzato dalla teoria metafisica dello slancio vitale - l'élan
vital - del filosofo francese Henri Bergson, questa «ininterrotta creazione, slancio
verso l'alto, impeto vitale, gigantesco tentativo di elevare la materia», come scrive lo
stesso Kazantzakis in un suo saggio del 1912 su Bergson, vede la vita come tentativo di
aprire nuove strade distruggendo e transustanziando la materia. Sospinta dallo slancio
vitale, la vita si sviluppa con forme sempre più alte e complesse, seguendo un infinito
cammino ascendente attraverso l'eternità. |
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La dinamica di questo eterno divenire, Kazantzakis l'ha espressa con una serie di immagini di metamorfosi sparse in tutta la sua opera. Nel microcosmo dei miti troviamo il trionfo della vita nelle ali che spuntano improvvisamente e che provocano il balzo verso l'alto, l'ascesa. Ecco cosa narra San Francesco, il «poverello di Dio», a frate Leone: «Ascolta dunque: all'inizio il pipistrello era un topo sotto le fondamenta di una chiesa; una notte uscì dalla tana, salì sull'altare e mangiò un pezzetto di ostia; e mentre lo mangiava, cominciarono a spuntargli ali sulle spalle. E così diventò fratello pipistrello»8. E non mancano nemmeno le immagini del respiro e della fioritura. Ascoltiamo di nuovo la voce di San Francesco: «Quando, nel bel mezzo dell'inverno, il mandorlo si ricoprì di fiori, tutti gli alberi all'intorno si misero a gridare forte: "che presuntuoso, dicevano, che sfrontatezza! crede che così porterà la primavera!" E il mandorlo si vergognò, i suoi fiori arrossirono. "Perdonatemi, fratelli miei, disse, giuro che non volevo; ma improvvisamente ho sentito un caldo venticello primaverile nel mio cuore.»9 Ascoltiamo anche la voce di Angelo Sikelianòs da Rapporto a el Greco: «Dissi al mandorlo: "Fratello, parlami di Dio". E il mandorlo fiorì.»10 Kazantzakis non glorifica soltanto la magnificenza della vita, ma anche la magnificenza dell'uomo e della sua potenza. La sua opera è assolutamente antropocentrica. Certamente le possibilità dell'uomo su questa terra non sono infinite, egli non è che una minuscola parte dell'Universo. Vive prigioniero della sua impossibilità di superare il mondo dei fenomeni, di capire che cosa si cela dietro di essi: «Chi erano i due antichi pittori che disputavano su chi dipingesse più fedelmente il mondo visibile? "Ora ti dimostrerò che sono io il migliore" disse uno mostrando all'altro un sipario che aveva dipinto. "Tira il sipario" fece l'avversario, "e vediamo l'immagine." "È questo sipario l'immagine" rispose il pittore ridendo. Durante tutto questo mio viaggio nell'Egeo ho compreso che il sipario è davvero l'immagine. Guai a colui che lacera il sipario per vedere l'immagine; vedrà soltanto il caos.»11 Non può nemmeno superare la certezza della morte, questo assoluto e inesorabile ostacolo che nessuna azione o volontà umana può allontanare. Ma nonostante tutte le debolezze dell'uomo, Kazantzakis crede fermamente nella sua
grandezza. Non cessa di sottolineare che l'uomo è la più alta forma di vita apparsa
sinora sulla terra. È l'unico essere logico i cui tentativi di introspezione per
conoscere se stesso sono analoghi a quelli che compie per conoscere la terra e l'universo.
Kazantzakis insiste particolarmente sul tentativo compiuto dall'uomo per la conferma di se
stesso e la propria indipendenza: non ha bisogno di potestà celesti, ce la può fare da
solo, con il coraggio. Ascoltiamo di nuovo San Francesco che ci racconta il mito molto
nitzscheiano di quando Dio cacciò Adamo ed Eva dal Paradiso: «Quando l'Arcangelo cacciò
Adamo ed Eva dal Paradiso, sedevano tutti e due su una zolla di terra e non parlavano; il
sole tramontava, la notte saliva piena di minacce dalla terra, scendeva piena di minacce
dal cielo, soffiava un vento pungente. |
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Eva si strinse al petto del suo uomo per
riscaldarsi».12 Questa stessa idea è espressa in maniera ancora più lirica dallo scrittore
nella descrizione di un sogno: «E allora, una notte, feci un sogno: "Ero, dice,
sulla spiaggia e guardavo: il mare era nerissimo, terrificante, e ribolliva; e sopra di
lui il cielo, nerissimo anche lui, minaccioso, scendeva sempre più basso, ancora un po' e
avrebbe toccato il mare. Non spirava un alito di vento, c'era un terrificante silenzio di
morte, soffocavo, non riuscivo a respirare. E all'improvviso, nella stretta fenditura che
rimaneva libera tra cielo e mare, brillò una vela bianca tutta illuminata; era una
barchetta piccina piccina che splendeva di luce propria, e in quella soffocante bonaccia
la sua vela si gonfiò tutta e procedeva veloce, con violenza, in mezzo alle due
oscurità. Stesi le mani verso di lei: "Il mio cuore!" gridai, e mi svegliai.»13 Ma oltre al diritto alla esistenza autonoma, l'uomo ha anche la suprema responsabilità di coordinare la propria attività con l'eterno tentativo della vita di transustanziare la materia. Deve contribuire anch'egli con la propria lotta affinché l'inerzia si trasformi in vita. Per riuscirci, l'uomo deve vegliare continuamente, essere sempre in movimento, essere sempre occupato nella lotta. Un bell'aneddoto in Giardino roccioso illustra questo pensiero: «In quei momenti di panico, alcune parole dell'abate Munier mi furono d'aiuto. Un giorno, a Parigi, questo "risvegliatore di anime addormentate" mi raccontava: "Ieri sono andato a trovare Bergson che era malato, aveva le gambe gonfie. Lui, il grande maestro del pensiero danzante!... Maestro, gli dissi, potrebbe darmi con una sola parola l'essenza della sua filosofia? Bergson rifletté un attimo; quindi, con la sua voce carezzevole, svelò la parola magica: - Mobilitazione!».14 Così l'uomo diventa solidale con tutto l'Universo e aiuta la vita a procedere verso nuove forme che supereranno persino l'uomo stesso. Ma un dovere così grave, un traguardo così elevato esige dure prove. La lotta dell'eroe kazantzakisiano è una vera ascesi. Deve essere sempre disponibile, in una incessante tensione dell'anima. E il suo ideale è di superare anche le proprie possibilità per giungere, come dice emblematicamente lo scrittore, «là dove non può». «Tu stesso, frate Leone, non mi hai detto un giorno di essere andato da uno asceta famoso, che conduceva vita ascetica in cima a un albero: "Dammi un consiglio, padre santo!" gli gridasti. E lui, dalla cima dell'albero, ti rispose: "Arriva dove puoi!" - Dammi un altro consiglio, padre santo! gli gridasti di nuovo. - Arriva dove non puoi!" ti rispose.».15 Ma nonostante tutto il suo ascetismo l'eroe kazantzakisiano non si separa mai dalla
gioia dei sensi. Vi è nell'opera di Kazantzakis una vera glorificazione dei cinque sensi,
la vista, l'udito, il tatto, l'odorato, il gusto. Anche santa Teresa percepisce la gioia
dei sensi così: «Guardavo quell'ardente ebrea con ammirazione. [...] Mi ricordava una
donna straordinaria, anche lei tutta corpo, tutta anima, santa Teresa. |
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Un giorno le
consorelle del monastero la videro divorare con avidità una pernice arrosto; le ingenue
suore si scandalizzarono, e santa Teresa si mise a ridere. "Una pernice è una
pernice" disse "la preghiera è la preghiera.»16 Rimane la inesorabile realtà della morte. Per completare la sua ascesi, l'uomo eroico dispone soltanto del tempo del suo corpo. La morte viene a interrompere le opere umane. Tuttavia, se l'uomo non può vincere la morte, può vincere la paura della morte. E ancora di più, può far sì che la morte diventi ragione di vita e di azione. Ecco cosa dice su questo Zorbàs: «Un giorno passavo da un paesino. Un buon vecchio di novant'anni coltivava un mandorlo. Ehi nonnino, gli faccio, coltivi un mandorlo? E lui, così ricurvo com'era, si voltò e mi fa: Io, ragazzo mio, mi comporto come se fossi immortale! - E io, gli risposi, mi comporto come se dovessi morire in ogni momento.»19 La morte può essere vinta anche con la gioia dell'arte dell'atto di creare: «Un uomo scendeva remando su un grande fiume. Da molti anni, giorno e notte, remava ed esaminava l'orizzonte. D'improvviso la corrente si fece terribile, l'uomo alzò la testa e tese l'orecchio: il fiume diventava una cascata, non c'era via di scampo. Allora l'uomo incrociò i remi, incrociò le mani e cominciò a cantare.»20 Per Kazantzakis l'atto creativo è una delle vette più alte cui può giungere
l'esistenza umana. L'atto creativo è strettamente collegato con l'ascetismo dell'eroe o,
piuttosto, è un ascetismo o, come dice Bergson, un «ostinato tentativo», che è
«ugualmente prezioso o persino più prezioso dell'opera a cui tende perché, grazie a
tale tentativo, si attinge da noi stessi più di quanto si possa dare, e ci si eleva al di
sopra di noi stessi.» Questa idea è illustrata assai bene dal mito del rosaio: «Un
giorno le ortiche chiesero al rosaio: "Signor rosaio, svela anche a noi il segreto.
Come fai a fare le rose? E il rosaio rispose: "È molto semplice il mio segreto,
ortiche, sorelle mie; tutto l'inverno lavoro pazientemente, con fiducia, con amore la
terra, e penso a una sola cosa, alla rosa. |
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Mi battono le piogge, i venti mi scuotono,
la neve mi opprime, ma io penso a una sola cosa, alla rosa. È questo il mio segreto,
ortiche, sorelle mie. »21 Per mezzo dell'ascetismo e dell'atto creativo, l'eroe kazantzakisiano raggiunge il massimo conseguimento, la libertà. La ricerca della libertà, la lotta per la libertà è l'immenso tema che ritorna continuamente in Kazantzakis ed è certo impossibile parlarne qui in maniera esauriente. Diremo solo che la libertà è una conquista complessa e che esige sacrifici come quello che fa il colombo in una parabola dal romanzo Cristo di nuovo in croce: «Una volta [...] due cacciatori andarono su un monte e misero le reti; le stesero, e la mattina del giorno seguente ritornarono là e cosa videro... le reti erano piene di colombi. I disgraziati cercavano in tutti i modi di fuggire, ma le maglie della rete erano molto strette, ed era impossibile che passassero. Si ammucchiarono tutti insieme tremanti e aspettarono. "Questi infami sono pelle e ossa, disse un cacciatore, come faremo a venderli al mercato? - Nutriamoli bene per qualche giorno, per farli ingrassare" disse l'altro. Gli gettarono mangime abbondante, gli misero anche l'acqua, i colombi si precipitarono a mangiare e a bere; uno solo non volle mangiare, rimase digiuno; gli altri giorni, nuovo mangime; i colombi cominciarono a ingrassare ogni giorno di più, e solo uno dimagriva per cercare di passare attraverso la rete. Sinché un giorno vennero i cacciatori per prendere i colombi e portarli al mercato; il colombo che era rimasto a digiuno era dimagrito tanto che con uno strattone passò attraverso la rete e si librò libero in aria...»22 Con la parabola del colombo, così vivida nella sua semplicità,
termina il nostro viaggio nel microcosmo dei miti e delle parabole kazantzakisiani.
Nonostante la sua brevità, crediamo che questo viaggio abbia mostrato chiaramente quanto
semplice - a livello di scrittura - e nel contempo quanto complesso - sul piano
concettuale - sia il meccanismo che collega questi brevi testi al testo del romanzo e al
suo sostrato filosofico. Una tecnica arcaica che appartiene alla tradizione popolare orale
viene adattata così, senza perdere la apparente ingenuità, ai bisogni di un pensiero
moderno e complesso, poeticamente trasformato. |
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ATHINÀ VUGHIUKA Da DIAVAZO, n° 377, settembre 1997, pp. 79-85. (trad. dal neogreco di Mauro Giachetti) |