LA PERSONA DEL VERBO INCARNATO E L'ICONAL'argomentazione iconoclastica e la risposta di san Teodoro Studita
|
|
Nella definizione del
II Concilio di Nicea viene sottolineato che l'icona, come la Sacra Scrittura, è una
testimonianza e una prova della Incarnazione vera e non illusoria di Dio Verbo.5 Qui si situa giustamente il punto cruciale dei dibattiti fra ortodossi e iconoclasti. Tutto l'insegnamento di Teodoro Studita nelle sue tre Refutazioni6 e nei suoi Sette Capitoli contro gli iconoclasti7, si muove intorno a questo punto cristologico centrale. L'icona secondo Teodoro Studita non è solo un oggetto sacro e non rappresenta semplicemente un'arte religiosa che illustra la Scrittura, ma soprattutto afferma e prova la verità della Incarnazione. Negare l'icona significa negare la verità della Incarnazione. Egli utilizza perfino un linguaggio molto più duro di quello della definizione del Concilio Ecumenico. Sostiene che tutti coloro che rifiutano la possibilità di rappresentare il Cristo si distaccano da Dio e si allontanano dal cuore di Cristo. Essi adottano il punto di vista dei manichei e dei valentiniani, sostenendo che la manifestazione del Verbo non era reale, ma apparente e "in immaginazione"8. D'altra parte egli considera l'insegnamento degli iconoclasti simile (systoichon) a quello degli acefali (un gruppo monofisita) o a quello di Apollinare che, facendo leva sulla tricotomia neoplatonica, negava l'integrità della natura umana di Cristo9. In un altro passaggio assimila l'insegnamento iconoclastico a quello di Montano, che affermava che il Verbo di Dio non ha veramente assunto in lui una natura umana, ma qualcosa di simile (omoioma) alla natura umana, cioè una forma (schema) di carme10. Bisognerà dire fin dal principio che Teodoro riporta fedelmente i principi del II Concilio Ecumenico. Il suo fine non è quello di promuovere una riflessione teologica personale, la sua preoccupazione principale è quella di restare fedele alla tradizione della Chiesa. Insiste fortemente sul fatto che la "semplicità della fede", quale la si vive nella Chiesa, "è molto più forte delle dimostrazioni della ragione11. Il suo tentativo di mantenersi nei principi di san Giovanni Damasceno, quali furono adottati e formulati dal Concilio è caratteristico. Si potrebbe dire persino senza alcuna riserva che in quello che concerne il carattere cristologico dell'icona vi è una tradizione comune. Questa fu esposta in maniera sistematica da san Giovanni Damasceno, adottata e formulata con precisione dal VII Concilio Ecumenico e in seguito ripresa da Teodoro Studita. Se l'insegnamento di san Giovanni Damasceno costituisce il fondamento teologico sul quale appoggia il Concilio, quello di Teodoro Studita costituisce il commentario del Concilio stesso. Esso è quello che ci permette di meglio concepire lo spirito e la teologia del II Concilio di Nicea. |
|
È ben noto, per
quanto riguarda la venerazione delle icone, che gli iconoclasti sollevavano inizialmente
due obiezioni. Essi sostenevano la proibizione delle immagini dell'Antico Testamento e
consideravano come una idolatria la venerazione delle icone. Questi due argomenti
prevalevano soprattutto all'inizio della iconomachia. Già dopo l'inizio ufficiale
dell'iconoclasmo nel 725 da parte dell'imperatore Leone III, Costantino di Naoclea
sottolineava al patriarca Germano che la sua opposizione alla venerazione delle icone si fondava sulla proibizione dell'Antico Testamento12. L'imperatore Leone stesso dichiarava che le icone "prendono il posto degli idoli" e che di conseguenza "coloro che le venerano sono degli idolatri"13. San Teodoro trova questi argomenti privi di particolare peso teologico, e per questa ragione insiste per rifiutarli. A titolo indicativo notiamo che egli considerava l'argomento che riguarda l'idolatria non solo come empio (dysebes), ma anche assurdo (anoeton)14. In ogni caso la risposta che egli dà a questi due punti di vista iconoclastici è classica nella sua sobrietà. Al tentativo degli iconoclasti di identificare icona e idolo15, egli risponde che non soltanto essi non si identificano, ma che sono tanto differenti l'uno dall'altro quanto la luce e le tenebre. L'idolo costituisce un inganno; è in effetti un errore poiché in fondo si tratta di una falsa rappresentazione, di una sostituzione "della gloria del Dio incorruttibile per mezzo di una rappresentazione, semplice immagine di uomini corruttibili, di uccelli, di quadrupedi e di rettili (Romani, 1, 23)". L'immagine contrariamente all'idolo che è caratteristico del politeismo, fa riferimento e si appoggia sul mistero dell'economia divina. Così ciò che essa rappresenta è l'infallibile (to aplanes) e la verità (he aletheia)16. Per quanto riguarda il divieto dell'Antico Testamento17, l'atteggiamento di san Teodoro è chiaro. Di nuovo la sua risposta non esce dal contesto cristologico. L'icona è una realtà fondata sulla kenosi della seconda persona della Santa Trinità. È proprio l'abbassamento di Dio Verbo che giustifica l'esistenza dell'icona. Nell'Antico Testamento, cioè prima della grazia, prima dell'incarnazione (enika Theos oupo sarki pephaneroto) la rappresentazione di Dio era impossibile18, semplicemente perché Dio è per essenza incomprensibile (aperileptos), indescrivibile (aperigraptos), infinito (apeiros), indefinito (aoristos) e senza forma (aschematistos) e si può parlare di lui solo in modo apofatico e negativo19. |
|
D'altro lato il
divieto aveva un carattere pedagogico e di protezione: cercava di mantenere il popolo nel
monoteismo, di proteggerlo dagli idoli, dai pagani e dal "baratro del
politeismo".Nel Nuovo Testamento, sempre secondo Teodoro Studita, viene stabilito un
nuovo ordine di cose: Dio che è senza aspetto (aneidos) ha assunto un aspetto (eidos),
cioè è divenuto "simile a noi in tutto fuorché nel peccato". Incarnazione
significa esattamente che ciò che è al di sopra di ogni forma (aschematistos) ha
preso forma. "Colui che non può essere limitato da una quantità è divenuto
quantificabile"20, pur restando quello che era, cioè il Verbo eterno di
Dio, pienamente Dio nella sua divinità, consustanziale al Padre. Così Dio che, nella sua
essenza invisibile, è assolutamente indescrivibile21, è divenuto
"descrivibile". Colui che per sua natura non è mai l'oggetto di descrizione,
che è al di sopra di ogni aspetto e forma "si è unito alla natura umana divenendo
come noi". San Teodoro parla dell'amore divino che, trascendendo i limiti umani (akra
agathotes) è la causa della condiscendenza di Dio. Così nella Persona del Verbo
incarnato si è realizzata "l'unione di ciò che non si unisce (ton amikton mixis
kai ton akraton krasis), cioè quella del descrivibile con l'indescrivibile,
dell'infinito col finito, dell'indefinito col definito, di ciò che non ha forma e di ciò
che ha forma." Questa unione unica che si effettua nella ipostasi del Verbo di Dio
costituisce per Teodoro il paradosso della divina economia. Ed è proprio questo paradosso
che permette all'invisibile di divenire visibile, al Cristo di essere rappresentato,
"di accettare una descrizione naturale del suo corpo, lui che nella sua divinità è
indescrivibile"22. Una tale teologia urtava contro i tre seguenti argomenti proposti da coloro che si opponevano alla venerazione delle icone. La loro questione iniziale era: che cosa rappresenta l'icona del Cristo? Se si dice che l'icona rappresenta Cristo, si accetta che Cristo è descrivibile, ciò significa allora considerare Cristo come un uomo ordinario (psilon anthropon); in questo caso si cade in una forma di arianesimo. D'altra parte, se si dice che l'icona di Cristo rappresenta la divinità e l'umanità nello stesso tempo, cioè le due nature insieme, si cade nel monofisismo mescolando la natura divina e la natura umana. Questo punto di vista è ancora più inaccettabile, poiché presuppone che la natura divina sia descrivibile. Infine, se si dice che nella icona del Cristo è rappresentata la sola natura umana, si cade nel nestorianesimo. Dividendo le due nature del Verbo incarnato, che sono unite senza mescolanza e senza divisione in una Ipostasi, si assimila la natura umana a una persona distinta (eis idioupostaton fysin). Questi tre argomenti degli iconoclasti sono stati espressi in un modo o nell'altro dall'imperatore |
|
Costantino V così
come nei Concili iconoclastici di Hieria nel 754 e di Santa Sofia nell'81523.
Studiando le fonti iconoclastiche quali ci sono pervenute, si comprende che gli avversari
delle icone avevano serie difficoltà a comprendere in modo ortodosso che nella persona del Cristo "abita corporalmente tutta la pienezza della divinità" (Colossesi, 2, 9). Essi sostenevano che l'essenza di Dio è indescrivibile e riempie tutto. Ora, se si accetta che nel Cristo la divinità è descritta corporalmente, si riconosce che la divinità non è indescrivibile24. Per non giungere a questa conclusione, essi presentano una cristologia in cui non mancano i vuoti e le contraddizioni, che tende a ignorare il fatto che il Verbo di Dio ha assunto una natura umana completa e perfetta. Si potrebbe dire senza riserve, anche se gli iconoclasti professano a giusto titolo a favore della natura umana di Cristo (non erano ariani) che il loro insegnamento riguardante la sua natura umana devia dalla fede ortodossa. È ben noto che gli iconoclasti non presentano una cristologia chiarissima, solida e precisa dal punto di vista dogmatico. Si potrebbe perfino dire che la loro teologia si era sempre adattata alle circostanze, avendo come solo fine quello di dimostrare che è inutile dipingere e venerare le icone di Cristo. È significativo che il patriarca Niceforo di Costantinopoli consideri l'argomentazione cristologica degli iconoclasti come "chiacchiere bizzarre e non riflettute" (allokotous kai alogistous phlyarias). Inoltre riferendosi al loro insegnamento concernente "l'indescrivibilità" della Persona divina del Cristo, sottolinea che non si tratta di altro che di una "maschera elegante" (kompson prosopeion)25. Questa presentazione svela giustamente la confusione che regnava fra gli iconoclasti e la loro debolezza, la loro esitazione ad accettare la cristologia ortodossa quale l'avevano formulata i Padri e i Concili Ecumenici. Sotto questo aspetto, gli argomenti qui prodotti dagli iconoclasti contro la venerazione delle immagini, anche se in apparenza logici, erano dal punto di vista dogmatico degni di riprovazione. È assai probabile che questo fatto non sia sfuggito agli iconoclasti, almeno a coloro che avevano conoscenze teologiche più approfondite. È il solo modo di spiegare che in punti cruciali delle dispute non era raro che essi evitassero di rispondere oppure, quando rispondevano, passassero sotto silenzio alcuni aspetti del problema26. Si potrebbe dare qualche esempio per spiegare quello che abbiamo affermato. È noto che per ciò che riguarda la perfezione della natura umana di Cristo, Costantino V utilizzava con molta circospezione il termine natura (physis). Così quando parla della Persona del Cristo e della unione senza confusione e senza divisione della divinità e della umanità nella sua Ipostasi, egli si riferisce in modo generale e astratto a due "nature"27. Particolarmente quando si riferisce alla umanità del Cristo, egli non la chiama mai "natura umana" (anthropinen |
|
physin),
mentre designa la divinità diverse volte come "natura divina" (theian physin)28.
In quello che riguarda l'umanità di Cristo, Costantino utilizza i termini
"corpo" (soma), "carne" (sarx), "uomo" (anthropos)
e "umanità" (anthropotes)29. È interessante notare che gli altri iconoclasti si allineano alla sua terminologia. Presso quasi tutti gli iconoclasti l'espressione "natura umana" è bandita. Così nel Concilio di Hieria, che esprime per eccellenza il pensiero iconoclasta, per riferirsi alla umanità di Cristo si è utilizzato il termine "carne" (sarx)30, "corpo" (soma)31, "uomo" (anthropos)32, che impiega anche Costantino, e in più i termini "proslemma" (ciò che è ricevuto)33, "o hemon phyrama" (la nostra pasta)34, e altre espressioni simili. Questa riserva degli iconoclasti di fronte all'espressione "natura umana" si ritrova studiando le opere di san Teodoro Studita. Nei riferimenti agli iconoclasti da lui presentati, parlando della natura umana del Cristo si utilizzano il termine "carne"35, "carne assunta" (proslephtheisa sarx)36 e "uomo"37. In un solo caso, all'interno di un riferimento agli iconoclasti, viene utilizzata l'espressione "anthropeian physin" (natura umana), ma in un senso molto ampio e astratto. Questa natura umana è caratterizzata come "invisibile" (aoratos) e "senza forma" (aschematistos). Essi aggiungono che se si accetta che questa natura umana prende forma per la sua descrizione, allora si introduce una seconda persona nella Ipostasi di Cristo.38 Il fatto che gli iconoclasti evitino di nominare l'umanità del Cristo "natura umana" è indicativo della loro mentalità. Essi temevano che parlare esplicitamente di "natura umana" li spingesse ad acconsentire al fatto che questa natura umana è descrivibile e quindi può essere rappresentata. È precisamente per non essere obbligati ad ammettere la descrivibilità della natura umana del Cristo che essi utilizzarono un linguaggio oscuro, vago e impreciso, e non parlavano che in generale della umanità, della carne, del corpo ecc. La mancanza di chiarezza e le contraddizioni nella cristologia degli iconoclasti si ritrovano persino nell'impiego del termine "descrivibile" (perigraptos). Precisamente notiamo che Costantino V getta un velo di silenzio al proposito. Non qualifica la natura umana del Cristo come "indescrivibile" (aperigraptos), ma neppure la dice "descrivibile" (perigraptos)39. È anche noto che alcuni iconoclasti ammettevano che il Cristo avesse ricevuto una natura umana "indescrivibile"40; altri ancora |
|
affermavano che la
natura umana di Cristo era divenuta indescrivibile perché non vi era altro modo per
unirsi alla natura divina41. Altri infine accettavano la descrivibilità della
natura umana di Cristo, ma unicamente fino alla sua crocifissione. Dopo la sua
resurrezione non ammettevano più che il suo corpo fosse descrivibile. Come testimonianza
essi producevano il passaggio di 2 Corinzi 5, 16: "Noi abbiamo conosciuto il
Cristo secondo la carne, ora non è più così che lo conosciamo"42. Sarebbe interessante confrontare l'informazione fornita dal patriarca Niceforo con l'insegnamento dell'imperatore Costantino riguardante l'unione ipostatica delle due nature in Cristo. Costantino, quando si riferisce alla unione ipostatica di queste due nature, per non essere costretto a riconoscere la descrivibilità del Cristo, utilizzava i termini calcedoniani "senza divisione" (achoristos) e "senza confusione" (asynchytos), ma non il termine "senza cambiamento" (atreptos). In particolare, il termine "senza cambiamento" non era impiegato da Costantino che quando parlava della natura divina, ma non della natura umana del Cristo. La sola parola riguardante la natura umana del Cristo afferma che essa non è stata elevata allo statuto di natura divina.43. Accettava veramente che "le proprietà di ciascuna natura restavano salve"44 nella Persona del Cristo? Questa formulazione vaga e imprecisa ci fa dubitare. In ogni caso, malgrado la mancanza di chiarezza e le contraddizioni che si possono facilmente scoprire nella cristologia degli avversari delle icone, san Teodoro Studita esaminò i tre argomenti iconoclastici enumerati con serietà e tentò in modo discorsivo di provare che essi mancavano di un peso teologico reale. Nella sua esposizione le nozioni "descrivibile" e "indescrivibile" sono di una importanza capitale. Si potrebbe persino dire che tutta la cristologia di Teodoro, in rapporto alla venerazione delle icone, si fonda sulla giusta comprensione di queste due nozioni. Come già abbiamo visto, la sua presa di posizione teologica fondamentale è che il Cristo nella sua divinità era sempre glorificato nella sua indescrivibilità (dedoxasmenos te asylo anepigraphia), ma, per la sua suprema condiscendenza (hypsistos synkatabasis) e rimanendo ciò che era nella sua divinità (menon en te oikeia perioipe tes theotetos), egli ha assunto la materia, cioè la carne (hyle gegone oun sarx). Avendo egli assunto la materia, ci è permesso di descrivere il suo corpo utilizzando degli aggettivi che si rapportano alla realtà materiale45. San Teodoro non era certamente il primo a formulare l'idea che il Verbo incarnato di Dio è indescrivibile nella sua divinità e descrivibile nella sua umanità. |
|
È ben noto che san
Giovanni Damasceno considera queste due nozioni molto importanti per la comprensione e la
giustificazione della venerazione delle icone46. Si sa anche che il II Concilio
di Nicea ha utilizzato le opere teologiche del Damasceno. Tuttavia la prima elaborazione
delle nozioni "indescrivibile" e "descrivibile" è stata avviata dai
Padri cappadoci. San Giovanni Damasceno e san Teodoro Studita si muovono proprio nel
quadro teologico tracciato dai cappadoci. Si potrebbe notare brevemente che le posizioni
più significative dei Padri cappadoci, per mostrare che la elaborazione teologica dei
termini "indescrivibile" e "descrivibile" è soprattutto opera loro.
Il loro punto di vista fondamentale fu espresso dai due fratelli cappadoci, Basilio il
Grande e Gregorio di Nissa, dicendo che il Verbo, nella sua divinità, non è limitato a
un luogo. La descrizione è sempre in relazione col corpo, la dimensione, il luogo, la
forma e il colore. Come il Padre, il Figlio, in quanto Dio perfetto, è al di sopra delle
dimensioni, dei luoghi e di conseguenza non è descrivibile. Essendo Dio Padre infinito,
anche il Figlio è infinito47. È proprio l'incarnazione del Verbo
indescrivibile di Dio che gli permette di divenire visibile e descrivibile. "Chi di
noi ignora, dice Gregorio di Nissa, che Dio, che si è manifestato a noi nella carne, è,
quanto alla sua divinità "immateriale" (ahylos), "mai oggetto di
visione" (aphanes), "assolutamente semplice - senza composizione" (asynthetos),
"indefinito" (aoristos) e "indescrivibile" (aperigraptos).
Egli è onnipresente e riempie la creazione intera. Ma nella sua manifestazione egli è
apparso "in una forma umana descrivibile" (en anthropine perigraphe eorato),
perché è indispensabile a ogni corpo di essere contenuto nello spazio48. San
Gregorio di Nazianzo insiste con l'affermare che il Verbo incarnato era uomo e Dio, della
stirpe di Davide, ma anche creatore di Adamo. Egli aveva un corpo umano, ma nello stesso
tempo era al di sopra del corpo. In quanto figlio di una madre vergine egli era
descrivibile, ma era nello stesso tempo al di fuori di ogni misura49.
L'influenza del pensiero dei Padri cappadoci, soprattutto di quello di Gregorio di Nissa
nella teologia di san Teodoro Studita traspare nella risposta data al primo argomento
degli iconoclasti. Come abbiamo già notato, gli iconoclasti temevano che consentire la
rappresentazione Cristo li obbligasse a pensare che egli era un uomo ordinario. Nella sua
risposta san Teodoro utilizza i dati forniti da san Gregorio di Nissa. Per i due Padri,
l'Incarnazione significa che il Verbo eterno di Dio ha assunto una natura umana concreta e
individuale; per questa unione parziale egli si è unito alla natura umana e le ha
trasmesso la grazia. Per Gregorio di Nissa, come per san Teodoro, la natura umana
costituisce una realtà indivisibile e ogni persona umana possiede la totalità della
natura umana. |
|
Così il Cristo
come uomo era consustanziale a tutti noi, cioè possedeva la pienezza della natura
umana. Inoltre, come uomo concreto, aveva delle proprietà caratteristiche, specificamente
sue che lo distinguevano dagli altri uomini e per questo motivo era descrivibile e
rappresentabile50. San Teodoro Studita, come d'altronde i Padri cappadoci, insiste sulla nozione di Ipostasi, di Persona. È proprio su questo punto che egli entra in contrasto con gli iconoclasti. Gli avversari delle icone, come abbiamo già detto, rifiutavano la rappresentazione del Cristo per timore che questa significasse o la rappresentazione della natura divina e della natura umana in un solo momento, oppure la rappresentazione della natura umana del Cristo, separata da quella divina. Era loro difficile comprendere che nella icona di Cristo non si rappresenta né la divinità né la umanità, né la sola natura umana del Salvatore, ma la sua Ipostasi nella quale erano unite le due nature senza confusione né separazione. È qui, sulla realtà della Persona, che san Teodoro Studita fonda la sua teologia dell'icona. Il Cristo, ci spiega con notevole chiarezza, è descrivibile "kath'hypostasin" (nella sua Ipostasi) anche se nella sua divinità egli è assolutamente al di sopra di ogni descrizione51. Questa idea ci è nota a partire dalla definizione del VII Concilio Ecumenico dove è esplicitamente dichiarato che "colui che venera l'icona venera l'Ipostasi di colui che ella rappresenta"52. San Teodoro spiega che "nella rappresentazione di chiunque è l'Ipostasi che è rappresentata e non la natura". Si domanda "come sia possibile rappresentare la natura senza che essa non sia considerata come compresa in una Ipostasi"53. Parlando in generale della rappresentazione dell'uomo, nota lo Studita, non si pretende che sia possibile dipingerlo in quanto "animale razionale, mortale e recettivo di fronte alla ragione e alla scienza", ma piuttosto in quanto persona propria coi tratti particolari che la caratterizzano54. Così per il Cristo, non lo si rappresenta in quanto Dio prima di aver assunto la natura umana come tale, ma in quanto Verbo di Dio che ha assunto una natura umana individuale e concreta. Come ogni persona umana, il Cristo aveva un modo unico e irripetibile di possedere la natura umana nella sua pienezza. Così dicendo che Dio il Verbo ha assunto una natura umana concreta e individuale, si intende che in quello che concerne i suoi tratti umani particolari egli si differenzia dalle altre persone umane. È proprio questa differenziazione che prova che il Cristo è descrivibile nella sua Ipostasi55. |
|
In questa
prospettiva, venerare l'icona del Cristo è comunicare con la sua persona. San Teodoro si
riferisce molto chiaramente alla relazione stretta che esiste tra l'icona e il suo
prototipo. Troviamo qui, in senso tradizionale, l'idea già sviluppata da Giovanni
Damasceno e dai Padri del II Concilio di Nicea, che afferma che l'immagine del Cristo, in
quanto rappresentazione della persona, è legata al suo prototipo. San Teodoro Studita
nella Seconda Refutazione riporta parola per parola l'esempio del re e della sua
immagine menzionando già da sant'Atanasio nel suo Terzo Discorso contro gli ariani56
e da san Basilio nella sua omelia Contro i sabelliani, Ario e gli anomei57.
Certamente Atanasio e Basilio hanno usato questo esempio riferendosi alla divinità del
Figlio, immagine perfetta del Padre, mentre all'epoca delle dispute contro gli iconoclasti
l'esempio del re e del suo ritratto serviva come paragone per accentuare la relazione fra
icona e prototipo. Come il "ritratto del re è il re", spiega san Giovanni
Damasceno, "l'icona del Cristo è il Cristo, e l'icona di un santo è un santo. E il
potere non è separato in due, né la gloria divisa, ma la gloria resa all'icona diventa
gloria di colui che l'icona rappresenta".58 San Teodoro Studita utilizza
questa formulazione di san Giovanni Damasceno e nello stesso tempo tenta di darle dei
fondamenti più teologici. Secondo lui, fra il Cristo e la sua icona vi è qualcosa di
identico e di comune e qualcosa di differente nello stesso tempo. "Il prototipo e
l'icona sono uno per quello che riguarda la somiglianza ipostatica, ma sono due in ciò
che concerne la natura"59. La dottrina trinitaria gli serve come esempio
per mostrare che nella teologia ortodossa è possibile per due cose di essere nello stesso
tempo identiche e differenti. Così la persona del Padre e la persona del Figlio sono
consustanziali, cioè identiche, secondo la natura, anche se ciascuna di esse si distingue
dall'altra per i suoi caratteri propri60. Nella rappresentazione di Cristo, al
contrario, esiste identità di persona (tautotes tes Hypostaseos) ma differenza di
natura61. Nell'icona allora non si dovrà ricercare il prototipo nella sua essenza (to prototypon ou kat'ousian en te eikoni), perché se vi fosse l'icona sarebbe prototipo e il prototipo icona62. Detto altrimenti, l'icona non è identica a ciò che essa rappresenta, ma essa è associata al prototipo rappresentandolo. Venerare l'icona non significa allora venerare la sua essenza, ma venerare "il marchio del prototipo che è rimasto in essa" (ho en aute episphragistheis charakter tou prototipou)63. Allora anche se la materia dell'icona non fosse venerabile, essa è venerabile a causa della persona che rappresenta. Ciò è stato ripetuto, in un modo o in un altro, da tutti coloro che hanno difeso le icone nel lungo periodo iconoclastico e si riassume nella celebre frase di san Basilio il Grande: "L'onore reso all'icona va al suo prototipo"64. |
|
Costantino Scouteris (Trad. P. Galignani)
|