KONSTANDINOS BURAS, Eros trimàrgikos (Eros ardente), Atene, Plethron maggio 1997, pp. 502.
Da quest'ultima raccolta di Buras - nato a Kalamata, nel Peloponneso, nel 1962, ingegnere e cultore di teatro - emerge un paesaggio greco assai complesso, ravvisabile, del resto, anche nelle antologie precedenti (Sole purpureo di Eros e Thanatos, 1987; Eros acerbo, 1988; La valle degli amori morti, 1990; Eros girasole, 1993; Il poeta di Abdeljebbar, 1995; Eros di Agave, 1996). Il tono di queste liriche è perlopiù epigrammatico, anche quando lo stile si fa narrativo ed è reminiscente di quello mitologico di Ritsos. Nella poesia di Buras, erotica ma anche riflessiva, il paesaggio assume spesso il ruolo del corpo umano, mentre al corpo umano è affidato il compito di rivelare un paesaggio archetipico e mistico che vorrebbe far superare all'uomo i propri limiti permettendogli di divenire compartecipe della natura e del dolore universale. "La farfalla nell'acqua verde / il riccio di mare sulla cima del pino / l'infanzia che attende / la vecchiaia per scoprire / l'innocenza / Il paesaggio ci corrompe / e svilisce / la fatica delle membra / appena tagliate / dalla palma dell'eternità / E il polline dei figli di Icaro / spolverato sulle rupi marine / penetra nei pori del respiro / e ci fa impazzire."
Talvolta le sculture, prevalentemente kouroi arcaici, incompiuti, sembrano essere più vivi degli infelici personaggi umani che popolano questa poesia. "Un gabbiano lacera l'unità dell'azzurro / sopra il palazzo di Cnossos / e il principe dei gigli sorride distratto / da una sua copia in bassorilievo. / Sulle colonne gli amanti traccian segni convenuti. / Strano. Oggi non mi pare sacrilegio." Sono assai ricorrenti, temi greci per eccellenza, il mare e il viaggio. Spesso, semplici oggetti della vita quotidiana, quali specchi e letti intravisti nella penombra di camere disadorne, creano uno scenario di chiaroscuri, sul quale la perdita e l'assenza costituiscono una minaccia continua. Nella raccolta dell'87 aveva scritto: "I campi desolati del ricordo / Thanatos percorre a cavallo / per raggiungere / la camera ove trovò rifugio Eros / - parvenza di acerbo efebo - / incerto tra lo specchio / e il vecchio letto di ferro." Molte liriche sono monologhi drammatici, ad esempio Il monologo di Angelica. La archaiomàtheia di Buras, unita a concetti nuovi, appare evidente in questa Favola dalla Antologia Palatina:
Bramo i tuoi due occhi che stillano miele
rido ma non so spegnere il fuoco che mi consuma
Desidero nella vampa del meriggio baciare
delicate rose.
E nella lirica intitolata Saffo: "Ape ape / dolcissimo miele / perché mi abbandoni? / Né il miele né l'ape avrai da me." E in un'altra intitolata Ibico, Buras, servendosi della tecnica della parafrasi e attenendosi al testo antico, si insinua in questioni antiche per dire la sua a distanza di millenni: "Eurialo, delle dolci / Cariti / vanto / e delle fanciulle dalle belle chiome / cruccio / Cipri e Peitò, la dea dagli occhi miti / di fiori ti colmaron la figura // Eppure Ibico fu ucciso / - dai banditi - / sulla via per Corinto". Non è certo un caso che la parola Eros appaia come elemento unificatore nei titoli delle raccolte di Buras. L'atmosfera ellenistica kavafisiana nella quale un dio, assunte le sembianze di un bellissimo efebo nei cui occhi risplende la luce dell'incorruttibilità, si perde fra le ombre e le luci della sera, a Seleucia sul Tigri, per recarsi nel quartiere che solo a notte vive d'ogni sorta d'ebbrezza, la ritroviamo, trasposta in chiave moderna, nei primi versi della lirica San Sebastiano (da Il sole purpureo di Eros e Thanatos): "Lo vidi nella fantasmagoria della notte / incoronato dalla luci al neon / dirigersi verso il quartiere / dove si gusta la voluttà / seguendo ombre e angoli / e strade non calcate dai mortali". Una confessione autobiografica di Seferis (Leggenda, XVIII) ha certamente ispirato a Buras: "ho sbagliato - lo so - a lasciare / scorrere così tanta acqua nel fiume / del tempo senza mettermi in testa / neppure un amore". La raccolta dell'88 comprende un vero e proprio testo teatrale, un dramma onirico intitolato Choròs toù Panòs, Danza di Pan. Buras, con la consueta abilità, si rivolge di nuovo alla mitologia greca per attingervi personaggi ed episodi ai quali conferisce, per mezzo di flash improvvisi, una valenza di eccezionale contemporaneità. Qui, tra l'altro, appare in maniera più evidente che altrove lo stratagemma burasiano di attingere versi sparsi nelle raccolte precedenti e inserirli in opere successive, dando vita a un gioco di anticipazione e di reiterazione che conferisce alla sua opera un peculiare senso di organicità.
Nella maggior parte delle liriche di Buras prevale, come in quelle di Sandro Penna, l'amore efebico, e al punto che, data la prevalenza della tematica erotica, potremmo affermare che l'intera sua opera poetica è costituita da variazioni su questo tema. Non per mancanza di afflato, tuttavia, bensì per fedeltà alla propria creazione, che da quel pathos trae alimento: come Ibico, Buras sembra sentire l'eros come marasma intimo. Anche la raccolta Eros di Agave comprende un dramma onirico, Apan, ambientato al Monte Athos; ma la sacralità della Repubblica monastica athonita viene continuamente turbata da personaggi i cui nomi (Narciso, Prometeo, Artzuana, Longomanos e Gherasimos) costituiscono da soli una dissacrazione. Buras considera Il poeta di Abdeljebbar il proprio "cantico dei cantici" scritto, come egli stesso dice, "in maniera quasi automatica, come se qualcuno melo avesse dettato da un altro pianeta". Si tratta di una composizione cadenzata, dal tono concitato, ditirambico, caratterizzata da metri brevi, generalmente assonanzati o ritmati, che conserva tutto il carattere orgiastico, ma anche drammatico, proprio della lirica corale greca. Questo modo di far poesia permette a Buras di muoversi con grande disinvoltura tra la vita e l'arte, facendo sì che la sua opera poetica appaia come un unico lungo monologo. Leggendo dunque le liriche di questo giovane poeta si ha spesso la sensazione che Saffo, Ibico, Kavafis, Seferis, il nostro Penna e altri grandi della Poesia rivivano armonicamente incarnati nella sua persona, che proprio grazie a questo "miracolo" riesce a esprimersi con voce lirica totalmente originale.
Mauro Giachetti