Capitolo V
Così andavano le cose a Roma presso il
papa, che pel primo con la benevolenza, col personale interessamento e con la
liberalità raccolse un numero considerevole di letterati nella sua Curia. E qui
cade nuovamente in acconcio un confronto col gruppo dei letterati fiorentini,
che al principio del secolo era alla testa del moto umanistico. In esso vedemmo
persone di tempra così originale, che, anche prescindendo dai loro meriti come
antiquari e come scrittori, potevano considerarsi come i precursori di un tempo
nuovo e di una nuova cultura. A Roma s'arrolavano individui man mano che
capitavano. Gli amici e i protetti della casa medicea avevano una tendenza
comune, un solo indirizzo li teneva uniti, per quanto anche vi fossero
divergenze fra gli individui; essi formavano, senza dichiararlo, una grande
associazione in nome della scienza. Fra quelli invece che si disputavano il
favore del papa, ognuno pensa soltanto a sé e al proprio vantaggio, e una
sordida invidia, figlia dell'avidità, è la causa delle loro discordie. Si adula
la persona di un mortale non indegno, ma di sensi poco elevati; da lui ognuno
riceve il lavoro e la ricompensa. Non v'è comunità d'idee, fuorché una il
servizio di corte. Il favore del papa liberale è il solo movente di ogni
rivalità. Ciò che alletta i suoi traduttori non è la gloria, ma il danaro, non
l'onor della penna, ma la pallida invidia. È poi singolare questo fatto che il
papa stesso, o non lascia trascrivere affatto le opere a lui dedicate e da lui
pagate, o vi acconsente di mala voglia; non vuol dividere con nessuno gli averi
e la gloria.
Proporzionato al movente è il risultato.
Quanta vitalità d'impulso nel gruppo fiorentino! Esso è conscio della sua
missione di risuscitare e di trarre per sempre dall'oblio il passato: esso
indaga e raccoglie con giovanile ardore; le scoperte fatte sono stimolo a nuove
ricerche; esso manda esploratori in regioni lontano e concentra poi nella sua
Firenze gli sparsi tesori dell'antichità. Questa sta dinanzi come una massa
opaca con un filo di luce misteriosa. Esplorarla, illustrarla, scoprirne
l'intima essenza, ecco la meta, ecco la vita che palpita nelle corrispondenze
epistolari di quelli che quel gruppo compongono.
La Roma letteraria di Niccolò V non è che
una artificiale e pallida imitazione della vita letteraria di Firenze, ma non
una c reazione originale; essa non ha più la missione di richiamare in vita, ma
di elaborare e conservare ciò che si è risuscitato. Pel momento poteva illudere
la moltitudine di dotti, che il breve
pontificato di Niccolò attirò a Roma, e il numero stragrande dei loro lavori.
Ma chi aveva occhi per vedere e mente per giudicare, andava più cauto nel suo
giudizio. Già ancora a' suoi tempi il Valla, pur lodando il papa, ne riepilogò
gli intenti in queste parole: tu hai chiamato tutti noi, padroni delle due
lingue, per sottometterti, quant'era da noi, tutta la Grecia; ciò non altro
vuol dire la traduzione dei libri greci in latino. E nello stesso ordine di
idee Pio II, pochi anni dopo che la Curia letteraria del suo predecessore si
era sciolta, scriveva: «Niccolò favorì e protesse i begli ingegni a tal segno,
che difficilmente si troverebbe un'epoca, nella quale gli studi di umanità, di
eloquenza e delle altre belle arti abbiano fiorito più che sotto di lui. Questo
è certo per lo meno, che a lui dagli uomini più dotti furono dedicati tanti
libri, quanti non ebbe nessuno de' suoi predecessori, né verun imperatore». E
dopo un mezzo secolo, quando quella generazione s'era tutta spenta e quando
s'era dileguato in fumo tutto l'incenso tributato a quel papa, ecco che un
critico acuto scrive di questo periodo di Niccolò V: «Molti sotto di lui fecero
traduzioni, alleati dalla prospettiva di un lauto guadagno».
E così fu infatti. In sostanza la celebre
corte letteraria di Niccolò V non era che un gran laboratorio di traduzioni. Ma
non per questo se ne deve far poco conto. La cognizione della lingua greca
n'ebbe grande incremento, e lo studio dell'antichità ne risentì vantaggio,
allargandosi e diffondendosi ogni dì più.
Il movente da cui parte la traduzione e il
merito che sta in essa, sono due cose di natura diversa. Essa mira innanzi
tutto a venire in ajuto all'ignoranza delle lingue, presupponendo un lettore,
che senta il bisogno di conoscere le produzioni letterarie di un altro popolo o
di un altro tempo. Solo in seconda linea e dietro il presentimento di una certa
affinità può sorgere il pensiero, che l'indole di una lingua tenda ad
avvicinarsi a quella di un'altra, a rispecchiarsi e quasi ad immedesimarsi in
essa. In questo caso si tratterà naturalmente di traduzioni nella lingua
volgare, destinate a persone colte del ceto laico o a principi ed alti
personaggi, nei quali lo scrittore desidera di far nascere l'amore alle scienze
e alle lettere. Allora la traduzione dal greco in latino, cioè da una lingua
morta in un'altra pur morta, non ha ragione d'essere se non esistano lettori
dotti che, possedendo perfettamente il latino, abbiano pure la coscienza che la
letteratura latina ebbe una volta il suo fondamento nella letteratura greca e
che quindi non si può intenderla appieno, se non si conosca anche questa.
Tale è pure la via che tenne la cultura
umanistica in Italia. Anch'essa cominciò con traduzioni in volgare, le quali
oggidì per la massima parte non sogliono citarsi se non in quanto riguardino
autori, che appartengono ai promotori dell'Umanismo od in quanto i traduttori
stessi sieno umanisti. La sorprendente esiguità del numero si spiega da questo,
che in Italia l'uomo colto in generale passò per tutte le scuole di latino; e
perfino nelle corti principesche il latino era familiare ogni dì più. Brunetto
Latini fu il primo, per quanto si sa, a darne l'esempio; egli tradusse le
Orazioni di Cicerone per Marcello, Dejotaro e Ligario, una parte della
Rettorica ad Erennio e parecchie altre cose. Ma a chi fossero destinati questi
lavori non si sa; certo però a taluni mercatanti fiorentini. Di Livio pure si
vuole che esistessero antiche traduzioni. Secco Polentone afferma, che il
Boccaccio abbia tradotto le tre decadi allora conosciute; si ritiene probabile,
che almeno la traduzione della quarta, che fu dedicata ad Ostasio da Polenta
signore di Ravenna, sia opera sua. Del rifacimento italiano del commento, che
Gregorio Magno scrisse sul libro di Giobbe, attribuito a Zanobi da Strada, qui
si fa menzione pel nome dell'autore; se il libro fu ristampato più volte, lo
deve soltanto alla lodata purezza del linguaggio. Anche alcune opere del
Petrarca furono a più riprese tradotte. Ed egli stesso si degnò una volta di
dar veste latina ad una novella del Boccaccio; non volle però mai profanare
nessun classico col voltarlo in lingua volgare. Ben presto questa non parve
degna di venire a contatto coll'erudizione. Tutt'al più un umanista di secondo
ordine, come Pier Candido Decembrio, cercò di raccomandarsi al suo mecenate, il
duca Filippo di Milano, col dedicargli tradotte in volgare le Storie di Curzio
e la Vita di Giulio Cesare di Svetonio. L'orgoglioso Filelfo credé così
degradante e stupido l'incarico datogli dal duca stesso di commentargli il
Canzoniere del Petrarca, che, pure obbedendo, non tralasciò di manifestargliene
il suo disgusto.
CONTINUA
Georg
Voigt, Il risorgimento dell'antichità
classica ovvero il primo secolo dell'umanismo, Firenze 1890, vol. II, trad. di D. Valbusa, vol. II, pp. 152-155