Ora, se noi immaginiamo riuniti in una sola corte gli italiani
già nominati, un Valla, un Perotti, un Poggio, un Decembrio e i greci di cui
tenemmo parola ed altri ancora, circondati ciascuno da discepoli e da seguaci,
e quasi tutti nella stessa condizione, vale a dire come curiali e letterati di
corte, aventi tutti una identica occupazione, quella di tradurre dal greco,
tutti coll'occhio rivolto ai danari e ai favori del papa, – qual meraviglia che
fra essi regnassero la gelosia, l'invidia, la calunnia reciproca? Le contese
erano continue, dei latini e dei greci gli uni contro gli altri, e perfino dei
greci e dei latini fra loro stessi. Come Firenze al tempo del Niccoli, così ora
Roma, ma in proporzioni più larghe, divenne il «teatro della cronaca scandalosa
dei letterati», come se papa Niccolò con gli «spiriti magni» avesse anche messo
insieme tutta la feccia del mondo letterario.
Queste contese letterarie avevano un'importanza grandissima
quando accadevano tra uomini del valore del Poggio e del Valla. Essi si
conoscevano da lungo tempo; ma non s'erano mai avvicinati l'un l'altro. Il
Poggio, più vecchio di ben 27 anni, si era risentito ancora al tempo di papa
Martino V, quando il giovane Valla, appena uscito dalla scuola, osò mettere in
dubbio l'arte rettorica, sulla quale si fondava tutta la scuola umanistica sino
dai tempi del Petrarca, pretendendo invece di innalzare sul trono
dell'eloquenza Quintiliano. In tutto ciò egli non vedeva che una arrogante
saccenteria. In seguito il Valla s'era permesso di sprezzare l'epitaffio, che
Antonio Loschi aveva composto pel monumento sepolcrale di Bartolommeo di
Montepulciano, dicendo che era una cosa ancor più misera dei versi dell'estinto.
Ora il Poggio ed il Loschi erano intimi amici. Essi seppero fare in modo presso
il papa, che il Valla, il quale aspirava ad un segretario vacante, non
l'ottenne: così almeno ne pensava il Valla. Ciò gli troncò la carriera, che
egli sperava di fare in patria e lo costrinse a cercar fortuna altrove. È
facile immaginare come egli, da quel momento in poi, lasciasse libero corso
alla propria lingua riguardo al Poggio, al Loschi ed al Cenci; i suoi discorsi
poi venivano alla loro volta riportati a costoro, i quali gongolarono di gioia
quando seppero che il «nuovo Apollo» si era gravemente compromesso col suo
libro «del Piacere», mentre ad essi sembrava che le dottrine epicuree fossero
già spacciate da lungo tempo.
Ora, quando il Valla, attratto dallo splendore di Niccolò V,
tornò nuovamente a Roma nel 1447, era già divenuto un dotto ed uno scrittore di
primo ordine, che superava di gran lunga il Poggio nell'estensione delle
cognizioni, nell'acume delle investigazioni e nella profondità degli studi
linguistici, e per converso gli stava forse molto al di sotto nella fluidità
naturale dello stile e nel brio. In ogni modo era un rivale formidabile, molto
più che le sue mire tendevano evidentemente a divenire collega del Poggio anche
nel segretariato. Oltre a ciò i nemici napoletani del Valla, il Beccadelli ed
il Fazio, ebbero cura di tener vivo l'odio del Poggio, riferendogli le
contumelie e le calunnie che il Valla andava spargendo in Napoli a carico di
lui e della sua traduzione della Ciropedia. Un'occasione per impegnare la
battaglia fu facilmente trovata. Il Poggio aveva pubblicato un volume delle sue
lettere. Ora accadde che gli capitò fra le mani un esemplare di esse, che
apparteneva ad un giovane catalano discepolo del Valla e che portava nei margini
alcune note critiche, nelle quali si notavano errori scolastici e barbarismi
d'ogni specie. Ora, sebbene non si potesse affermare che il critico fosse il
Valla stesso, era certo però che il discepolo era stato aizzato dal maestro. Il
Poggio si scagliò tosto violentemente su colui, che a torto riguardava come il
suo vero avversario, e al numero già considerevole delle sue invettive ne
aggiunse una nuova contro il Valla. Questi rispose nel suo «Antidoto», ma il
Poggio scrisse una seconda, una terza, una quarta ed una quinta invettiva, alle
quali il Valla non restò debitore di risposta. La controversia grammaticale
divenne al tutto cosa accessoria; l'affare principale divennero gli odiosi
attacchi personali, che non mancarono da ambedue le parti. Questo era il vero
campo del Poggio. Se nella lotta il vincitore doveva essere colui che inventava
le più infami calunnie a carico dell'avversario, certo è che la vittoria doveva
esser sua. Con molta maestria egli raccolse molti fatterelli scandalosi, che
gli erano stati riportati sotto forme già adulterate, e li convertì abilmente
in delitti, e quando furono esauriti, non mancò di inventarne. Come già contro
il Filelfo, non vi è specie di ribalderia che egli non rinfacci al suo
avversario, attribuendogli truffe e ladronecci, falsificazioni ed eresie,
crapule e lascivie d'ogni sorte, col condimento di piccanti storielle o
triviali contumelie, delle quali non pare mai sazio. Ed appunto di questa sua
abilità di esporre l'avversario con vituperi di aneddoti scandalosi, egli
andava principalmente superbo. Ma anche il Valla non si limitò soltanto alla
propria difesa, rimproverò al Poggio la sua ignoranza del latino e delle regole
stilistiche, citandone innumerevoli esempi e trattandolo in tutto come un
vecchio ormai rimbambito. In sostanza era uno spettacolo veramente disgustoso
il vedere due uomini di tanta fama letteraria alle prese fra loro, per odio e
per invidia reciproca, come due persone del volgo, gettando nel fango il
proprio onore per vituperare quello dell'altro.
Quanto più a lungo durò la lotta, tanto maggiore si veniva
facendo il numero dei letterati che vi presero parte. Niccolò Perotti, che
allora appena ventiquattrenne insegnava a Bologna sotto l'egida del Bessarione,
ma che per la sua allocuzione a Federico III era stato già incoronato poeta ed
aveva tradotto alcuni libri di Polibio, si sentì tentato di farsi in alcune
lettere campione del Valla. Il Bessarione suo mecenate, benché non fosse
precisamente nemico del Poggio, pareva compiacersi grandemente delle accuse
mossegli dal Valla e del ridicolo di cui l'aveva coperto. Anche Niccolò Volpe,
già maestro del Perotti, sembrava aver incoraggiato quest'ultimo, perché
considerava il Valla come il più dotto e il più esperto fra i latinisti. Il
Poggio che ne fu informato da Bologna e che anche in ciò credeva di vedere la
mano del Valla, minacciò ed ammonì ripetutamente per lettera il giovane
campione. A lui pareva cosa inaudita che il Volpe, il vecchio grammatico, a lui
fino allora del tutto ignoto, e per l'appunto questo poeta novellino, questo
ben chiomato cantore, questo infame giovinastro, questo stupido cicisbeo,
questo poeta senza poesia, questo greculo, questo maestrucolo imberbe, questo
secondo Valla per stoltezza e insipienza osassero misurarsi con lui. Le
lettere, nelle quali il Poggio
gratificava il giovane professore con tali titoli, furono portate a lui e gli
misero in corpo la voglia di entrare in campo anche da parte sua con una
formale invettiva contro il vecchio segretario di Stato. Egli pure rimproverò
l'imbecillità della sua vecchiaia, alla quale però contraddiceva la
confessione, che in onta a ciò egli andava innanzi a tutti nelle arti della
maldicenza e della buffoneria. Del resto egli lo attaccò con ironia abbastanza
felice, anzi seppe temperare l'indecenza de' suoi attacchi contro l'illustre
vegliardo col lasciar trasparire un certo rispetto verso di lui e col darsi
l'aria di non voler essere altro che il difensore del Valla.
Sino a quel momento il Poggio aveva usato un certo riserbo verso
il suo giovane avversario, in quanto lo aveva assalito soltanto in vita
privata, ma non pubblicamente. Egli non voleva al tutto guastarsi col
Bessarione, del quale il Perotti era l'occhio destro. Ma ora si ridestò in lui
il suo antico spirito battagliero, e non volendo rimanere sotto il peso delle
accuse lanciategli, si scagliò sul Perotti con una invettiva così violenta e
triviale da disgradare quelle contro il Filelfo ed il Valla. Pareva che si
dovesse venire a una guerra da coltello. Il Poggio venne a sapere, che il suo
avversario aveva prezzolato contro di lui, sull'esempio del Filelfo, alcuni
assassini; la Signoria di Firenze fece su ciò delle rimostranze presso quella
di Bologna e presso il legato Bessarione. Allora quest'ultimo si assunse di
ottenere la riconciliazione. Egli assicurò il Poggio che le dicerie degli
assassini prezzolati non avevano alcun fondamento di verità, e al tempo stesso
indusse il suo protetto a chiedere umilmente perdono ed amicizia. Siccome
questi promise di ammendare i suoi falli passati con altrettanto amore per
l'avvenire, anche il Poggio promise di amarlo in seguito come un figlio.
L'autorità del cardinale mecenate troncò questa contesa per sempre.
La lotta contro il Valla perdette bensì la sua acutezza e il
carattere di una personale rivalità sino da quando il Poggio lasciò la Curia e
si trapiantò a Firenze, ma composta del tutto non fu mai e ambedue gli avversari
portarono il loro odio reciproco nella tomba. A noi fa meraviglia che il papa
non abbia ridotto al silenzio i contendenti. Ma pare che egli considerasse le
invettive come un esercizio geniale di eloquenza e di rettorica. Il Valla poté
perfino dedicargli i libri del suo «Antidoto»; ma Niccolò aveva accolto con
benevolenza anche le satire del Filelfo, nelle quali v'erano pure tante
contumelie contro gli antichi suoi amici fiorentini. Fu appunto in quel tempo
che egfli donò al Valla di propria mano 500 scudi per la sua traduzione di
Tucidide, e col Poggio fu sempre benigno, anche quando questi aveva chiesto il,
suo congedo. Un altro paciere si fece innanzi, che nessuno si sarebbe
aspettato. Fu il Filelfo, al quale allora stava a cuore di riconciliarsi co'
suoi antichi nemici di Firenze.
Da GEORG VOIGT Il risorgimento
dell'antichità classica ovvero il primo secolo dell'umanesimo, vol. II, Firenze
1890, pp. 143-151, trad. di D. Valbusa
[CONTINUA]