GEORG VOIGT
LA
LINGUA E LA LETTERATURA GRECA
NEI SECOLI XIV E XV
Loro sopravvivenza
nell'Impero bizantino.
Indifferenza
dell'Occidente per esse. Singole traduzioni. Il Petrarca e il Boccaccio come
promotori degli studi greci. Barlaamo. Leonzio Pilato. Emanuele Crisolora. I
suoi discepoli primi grecisti italiani. Guarino da Verona. Giacomo da
Scarperia. L'Aurispa.
Il Filelfo. Il Poggio e
il Valla come grecisti. Le scuole nell'Impero bizantino.
Il Concilio di Ferrara e
di Firenze. Il Platonismo. Giorgio Gemisto Pletone.
Contese intorno a
Platone e ad Aristotele. Marsilio Ficino. Disprezzo pei greci. Il Bessarione.
Sua operosità in Bologna. Suoi scritti. La sua biblioteca. La sua corte
letteraria. Niccolò Perotti. I greci alla corte del papa Niccolò. Sua fine.
Teodoro di Gaza e le sue traduzioni. Costantino Lascaris.
Ora, se dalla schiera numerosa di dotti
italiani, che si raccolsero alla corte di Niccolò V noi non abbiamo trascelto
che i nomi più illustri, ciò si renderà ancor più necessario parlando dei
greci, che quivi trovarono un asilo. Ma prima dobbiamo rifarci alquanto
indietro. Fino ad ora non abbiamo avuto occasione di toccare della letteratura
ellenica se no incidentalmente, mostrando come essa pure si risvegliò dal suo
lungo letargo e tornò a illuminare il mondo del suo splendore. L'influenza, che
il mondo greco novamente scoperto esercitò sull'occidente durante il primo
secolo del Rinascimento, vale a dire dal tempo del Petrarca a quello di Niccolò
V, fu invero assai scarsa. Lo spirito ellenico non agì sul latino - umanistico
se non debolmente e di lontano, e in questo rispetto ogni passo nella via del
progresso fu lento e faticoso. Come mai accade che questa assimilazione, che
era stata avviata con tanto zelo dal Petrarca e dal Salutato, si compì così lentamente?
Forseché agli uomini chiamati ad effettuarla mancarono le forze a ciò, o s'era
per avventura spento del tutto ogni vigore intellettuale nel mondo
greco-bizantino? O l'occidente s'era oramai reso troppo straniero allo spirito
dell'antica Grecia, per riavvicinarsi ad esso tutto ad un tratto, o l'Umanismo
degli italiani con la sua cultura eminentemente rettorica e stilistica non era
strumento adatto a quella fusione? Sembra infatti che allo spirito delle
popolazioni latine, compenetratosi già da secoli in quello della chiesa, fosse
venuta a mancare del tutto quella specie di «recettività», che pure è
necessaria per accettare non tanto una lingua straniera, quanto tutta una nuova
cultura intellettuale. Se così fosse, l'entusiasmo specialmente di quelli, che
pur solo istintivamente avevano allungato lo sguardo nel campo greco, avrebbe
portato assai più rapidamente i suoi frutti.
Fino ad oggi non è mai stato studiato sino
a qual punto e in qual grado di apprezzamento l'antica letteratura ellenica
abbia continuato a sussistere ancora in maestosa rovina, quando passò
all'occidente. Sino dal secolo sesto non pare che nelle popolazioni romaiche
sia andato perduto maggior numero delle loro opere, di quello che presso le
popolazioni latine delle opere degli antichi romani. Fra i greci la lingua
dell'antica Ellade non fu mai straniera e fu sempre intesa. La stabilità della
corte e della sua residenza, non meno che la non interrotta frequenza delle
scuole tornarono assai vantaggiose all'antica letteratura. Per lo meno essa
continuò a tenersi in vita allo stesso modo, che i poeti, i filosofi e gli
storici romani continuarono a vivere in occidente presso gli ecclesiastici, i
monaci, i maestri di scuola e qualche singolo letterato. Certamente vi
prevaleva la teologia, ma ridotta a tale stato d'immobilità da non potersi
nemmeno paragonare con la libertà di cui godevano gli spiriti in occidente,
grazie alla Scolastica e ad ogni specie di tendenze mistiche, che pur servivano
ad infonderle un po' di vita e di calore.
Dalle dottrine neoplatoniche dell'oriente
nessun frutto era da aspettarsi. Perfino i migliori intelletti le avevano in
conto di fantasticherie, che ormai non avevano più alcun legame coll'antichità.
Al gusto corrotto d'allora s'accomodavano meglio senza alcun dubbio gli oracoli
sibillino e l'Ermete Trimegisto, che non Omero e Platone. Ma al tempo stesso,
poco prima dell'epoca degli umanisti d'Italia, si continuava in Grecia a
copiare e a leggere Euripide, Senofonte, Strabone, Plutarco e Arriano, e l'Impero
bizantino era in grado di dare all'occidente un Crisolora, un Giorgio da
Trebisonda, un Teodoro Gaza, un Bessarione e un Costantino Lascaris, uomini
tutti di non dubbia cultura e capaci d'intendere ed apprezzare il moto
umanistico.
Ora si domanda: era il terreno, che la
letteratura ellenica trovò in occidente, preparato a riceverla? A ciò si può
sicuramente rispondere, che essa non fu mai quivi completamente straniera e che
in particolare la lingua greca vi ebbe speciali cultori in tutte le epoche del
cosiddetto Medio-Evo. Ma ciò non basta per produrre una rivoluzione
intellettuale di tanta efficacia da far sì, che sul tronco della cultura latina
s'innesti e pulluli un nuovo rampollo. Roma, dove una volta lo spirito ellenico
signoreggiò per secoli tutte le menti ed era la cultura del mondo elegante, lo
ripudiò assolutamente dopo lo scisma religioso. In Italia v'erano ancora qua e
là ecclesiastici che intendevano il greco e «grammatici» che lo insegnavano. Al
tempo in cui Paolo Diacono imparò, probabilmente a Pavia, questa lingua,
v'erano pure altri in Italia, che ne imitarono l'esempio. Ma col regno dei
Longobardi pare che questo ramo dello scibile vi si sia spento del tutto. Anche
nel primo Rinascimento, che si manifestò sotto Carlo Magno ed ebbe fine col
regno di Carlo il Calvo, l'ellenismo ebbe una parte abbastanza importante.
Specialmente nelle scuole irlandesi, presso Sedulio Scoto e Giovanni Scoto, si
trova insegnata la lingua greca, fosse pure come semplice e certo non troppo
frequente ornamento. Taluni scrittori per lo meno si danno un'apparenza di
cultura greca, riportando qua e là parole greche e facendo pompa di espressioni
greche nelle opere d'arte e nell'intestazione dei libri. I rapporti diplomatici
e sociali con Bisanzio agevolarono anche i contatti intellettuali, e questi
venivano crescendo per la venuta di qualche greco in occidente. Per tal modo
non può recar meraviglia se Vitichindo narra di un monaco di Corbia, che fu in
grado di leggere qualche cosa in greco alla presenza del re Corrado, o se ad
Ermanno Contratto di Reichenau si dà lode di aver saputo, fra le altre, anche
la lingua greca. Tuttavia non v'è indizio che tali cognizioni abbiano dato
alcun frutto. Esse servivano per facilitare all'occorrenza le comunicazioni, ma
non come chiave a scoprire i tesori della greca letteratura.
Con le Crociate crebbero i rapporti
commerciali colle regioni levantine, ma non n'ebbero alcun incremento, a quanto
pare, le relazioni letterarie. Anche i corifei del sapere non sentirono più
alcun bisogno di allargare la loro cultura da questo lato. Ne Abelardo, né
Giovai di Salisbury non seppero una parola di greco, e altrettanto dicasi di
Gerberto, che li precedette. Essi non hanno nemmeno manifestato il desiderio di
conoscere questa sorgente del sapere. Il primo, che si ode almeno lamentarsi
che l'ignoranza del greco sia nociva anche agli studi latini, è Riccardo de
Bury, contemporaneo del Petrarca. Egli mise insieme per uso de' suoi discepoli
una grammatica greca ed anche una ebraica, quantunque fosse persuaso che di
tali lingue non si poteva impadronirsi se non con l'aiuto di un maestro. Ma
nessun desiderio appare in lui dei classici dell'antica Grecia; egli affermava
soltanto che senza la lingua greca non si potevano intendere a dovere gli antichi
scrittori ecclesiastici.
Che in Sicilia e nella Calabria la lingua
greca si sia mantenuta viva, probabilmente senza interruzione, è un fatto
notorio di cui si riscontrano le prove al tempo dei re Normanni e degli Svevi.
Manfredi fece tradurre in latino l'Etica di Aristotele da un siciliano,
Bartolommeo da Messina. Nei monasteri dei Basiliani, che furono fondati come
altrettanti asili pei greci e che si tennero in continua corrispondenza con
Costantinopoli, si mantennero abbastanza in fiore anche gli studi ellenici,
come ne fanno fede i tesori letterari da essi posseduti. Ma essi rimasero
troppo isolati, perché potessero esercitare un'influenza anche sull'occidente.
Per questo sciogliersi d'ogni vincolo tra
i greci e i latini si spiega altresì come la letteratura delle traduzioni si
mostri così incredibilmente povera. Perfino di Aristotele, che fu il primo ad
essere introdotto in occidente e vi aperse una nuova via alla scienza, non si
avevano da lungo tempo che i trattati di logica tradotti da Boezio, e quanto
agli altri, si accontentavano di voltarli in latino sulle traduzioni arabe.
Anche quando Aristotele fu chiamato «il filosofo» per antonomasia, non sorse se
non qua e là e ad intervalli il pensiero di restituirlo alla scienza sotto una
forma più genuina e conforme al testo greco. Dei dialoghi di Platone non si
conosceva che il Timeo nella traduzione incompleta di Calcidio. Che se pure
esistevano traduzioni latine di taluni altri dialoghi, erano però rarissime e
in piccolissimo numero di esemplari. Eppure quante volte i Padri della chiesa
non si richiamavano a Platone! Del resto tutta la letteratura profana degli
Elleni giaceva come morta e dimenticata pei latini. Bensì vi fu una volta alla
metà del 14° secolo un Minore osservante italiano, Angelo da Cingoli, che «ricevette in dono speciale da Dio la
lingua greca» e che si rese utile con traduzioni non già di classici, ma di
un'opera del Grisostomo, di un'altra del così detto Giovanni Climaco, abate del
Sinai, e di un dialogo del beato Macario.
Questo monaco, a quanto pare, era coetaneo
del Petrarca. Ora dal sin qui detto si può vedere da quali tenebre questi seppe
rievocare la letteratura ellenica, dopoché ebbe pronunciato per essa la parola
della redenzione. Bastò che s'incontrasse nel primo uomo che gli venne innanzi
fornito di una certa cultura greca, il calabrese Barlaamo, perché in lui
divampasse il desiderio d'impadronirsi della lingua e della letteratura alla
quale attinsero in sì larga copia Cicerone e Virgilio. Tutti sanno come egli
non andò oltre ai primi elementi e come il suo ardore si spense in presenza del
sacrificio cui doveva sottoporsi di prendersi a guida un maestro. Ma la
scintilla prometèa avea dato i suoi primi lampi in lui, e da lui, crescendo in
fiamma, s'era comunicata a centinaia a migliaia de' suoi seguaci. Sino da
quando egli poté avere un testo greco di Omero, sino da quando comparve Pilato
a Firenze e lo tradusse, il genio dell'Ellade trovò una nuova patria in Italia.
Vero è che in sulle prime essa fu assai povera cosa. Fa veramente stupire
quanto poco il Boccaccio abbia appreso in più anni di convivenza da Pilato.
Egli non fu mai in grado di leggere u autore greco. A stento riusciva a
decifrare un verso di Omero o a spiegare etimologicamente una parola greca. Ma
pure fu sollecito di appropriarsi qualche cosa di sapere greco, promosse la
traduzione dei canti omerici, e da lui venne la spinta a chiamare il primo
maestro di greco nello Studio fiorentino, trapiantando quivi quel pensiero
fecondo che poi diede i suoi frutti per opera del suo giovane amico il Salutato
e per la venuta del Crisolora.
Quando il Petrarca, al colmo
dell'entusiasmo per veder tradotti da Pilato i canti omerici, indirizzò nel
1360 la sua lettera ad Omero, cercò di designare in essa tutti gli italiani che
potevano dirsi amici del poeta greco. A Firenze egli ne trova tre o quattro, a
Bologna uno, a Verona due, a Sulmona uno, a Mantova uno, a Roma nessuno. Se
egli intenda semplici ammiratori del poeta o conoscitori della lingua greca,
non appare ben chiaro dal suo modo di esprimersi al solito mistico e nebuloso.
Ma noi inclineremmo ad accettare la seconda supposizione, perché non fa
menzione alcuna di Milano, dove egli stesso allora dimorava. Ora s'è cercato
d'indovinare chi fossero questi individui e si posero innanzi i nomi del
Boccaccio, del Nelli, del Salutato, di Francesco Bruni, di fra' Tedaldo de
Casa, di Pietro da Muglio, di Zanobi da Strada, di Guglielmo da Pastrengo, di
Rinaldo da Villafranca, e di Marco Barbato. Prescindendo dal Boccaccio, che
però non potrà ascriversi fra i conoscitori del greco, e forse da Tedaldo, il
quale tuttavia non era che uno scrivano, di nessuno dei nominati si può provare
che conoscesse anche soltanto le lettere dell'alfabeto greco. Converrà dunque
intendere uomini di secondo ordine, che casualmente intendevano il greco, come
quel frate Angelo cui Dio stesso l'infuse, o qualche oscuro grammatico, come
questo o quel greco o calabrese, che la sorte trabalzò nel mondo latino.
Ciò che principalmente rese difficile
ancora ai tempi del Petrarca e del Boccaccio ed anche più tardi un
ravvicinamento tra greci e latini, era la disparità delle credenze. Nelle
relazioni commerciali e nella vita pratica può darsi che essa fosse meno
sensibile, ma queste relazioni non ravvicinavano le menti, molto più che per
esse si faceva uso di una «lingua franca». Per far affari in levante non v'era
alcuno che imparasse il greco. Ma le menti più volte erano divise dallo Scisma
durato più secoli, del dogmatismo ostinato e dal fanatismo religioso da parte
dei greci, dall'orgoglio e dall'odio contro gli eretici da parte dei latini
spinto sino al punto da degenerare in odio di razza. Perfino il Petrarca che
del resto delle eresie si curava ben poco e pel quale l'antica Ellade era come
una stella polare, non mostra troppe simpatie pei greci del suo tempo, anzi ci
fa stupire per l'odio accanito che manifesta contro essi. Specialmente nella
lettera al doge e al consiglio di Genova, nella quale egli nel 1352 si
congratula colla Repubblica della vittoria riportata sui Veneziani e parla de fallacibus atque inertibus graeculis,
che vi rimasero morti (epist. rer. famil.
XIV, 5): infame illud imperium sedemque
illam errorum vestris manibus eversum iri cupio. In realtà i primi apostoli
della dottrina greca coi quali egli venne a contatto, non erano certamente tali
da poter annodare con essi amichevoli relazioni.
Abbiamo già fatto menzione di quel
Barlaamo dal quale il Petrarca cominciò ad apprendere il greco. Greco di
nascita egli non era, anzi era oriundo di Seminara, non lungi da Reggio
Calabria e si chiamava in origine Bernardo, non avendo mutato il nome che
quando entrò nell'ordine di San Basilio. Ma poscia era andato assai presto in
oriente, non tanto per imparare il greco e poter leggere Aristotele nel testo
originale, quanto per mettere in evidenza, divorato com'era dall'ambizione, la
sua dottrina e farsi scala e salire alle maggiori dignità ecclesiastiche. Egli
si recò nell'Etolia e poi a Salonicco, allora sede principale degli studi, e da
ultimo a Costantinopoli, dove nel 1331 divenne abate di un monastero. Quivi
iniziò una contesa durata molti anni coi monaci del monte Athos intorno alla
grande questione di tutti i teologi greci sulla luce del Tabor, se fosse divina
o mandata da Dio, e si tirò addosso tanto odio che dovette abbandonare
Costantinopoli e tornare a Salonicco. Sino dal 1333 poi egli ebbe parte nelle
trattative che furono condotte per la riunione della chiesa greca colla latina,
e appunto in tale missione il Petrarca lo imparò a conoscere ad Avignone nel
1339 e si adoperò affinché Barlaamo venisse nominato vescovo di Gerace.
Barlaamo passava innanzi tutto per
teologo. Non è facile determinare le sue conversioni e il loro tempo,
specialmente perché i suoi scritti polemici non sono stati stampati che in
parte. Sembra però che egli dapprima appartenesse alla confessione latina e che
abbia anche scritto in difesa di questa contro le dottrine greche, che poi in
Grecia abbia abbracciato queste ultime e scritto contro i latini, per poscia
tornare, dopoché si trovò a contatto coi papi, a difendere con tutto l'ardore
di un neofita la dottrina ortodossa di Roma intorno al primato della chiesa
romana e alla processione dello Spirito Santo dal Padre e dal Figliolo. Ma
oltre a ciò egli ha scritto anche parecchi libri di filosofia morale, di
aritmetica, di geometria e di musica. Per tal modo egli era un vero dotto alla
maniera orientale e le sue opere scritte in lingua latina o tradotte erano
lette non poco, come appare dai manoscritti che si sono conservati.
Che un tal uomo e una tale dottrina
ispirassero poca simpatia al Petrarca si capisce assai facilmente. Egli non si
cura di far menzione veruna de' suoi scritti, e con indifferenza assoluta nota
la circostanza che a questo mezzo greco non riusciva affatto di potersi
appropriare qualche cosa dell'eloquenza latina e della rettorica. Dovette però
confessare che egli pure fece ben pochi progressi nella lingua greca, tanto
pochi che nelle sue opere non si scorge ombra di profitto delle lezioni di
Barlaamo. Egli adunque non si cercò più alcun maestro dopo che questi lasciò
Avignone e andò ad assumere il suo vescovato in Calabria. Non v'ha dubbio che
egli avrebbe potuto apprendere a fondo la lingua da lui.. Ma si può dubitare
con ragione che il famoso monaco fosse l'uomo più adatto per introdurlo nello
studio della letteratura classica. Comunque sia, il Boccaccio apprese da lui
qualche cosa, sia che l'abbia veduto a Napoli, o si sia valso delle notizie che
Barlaamo comunicò all'accurato compilatore Paolo da Perugia. Più che per mezzo
de' suoi scritti questo basiliano lasciò una traccia per questa influenza che
esercitò sul Petrarca e sul Boccaccio.
Ciò vale anche
per Leonzio Pilato il quale oltre a ciò non era nemmeno un dotto come Barlaamo.
Il Petrarca ritiene che anche questi fosse calabrese di nascita, e non senza
ragione. Ma siccome in Italia egli voleva passare per greco, sosteneva di
essere nato a Salonicco dove, al pari di Barlaamo, ch'egli chiamava suo
maestro, pare che abbia frequentato l'università. È possibile che egli
intendesse perfettamente la lingua greca degli uomini dotti, ma linguista e
versato nello studio dei classici non fu certamente, e nella lingua latina si
esprimeva appena come un monaco del tutto ignorante. I disegni di unione delle
due chiese sembravano averlo allettato, come qualche altro, che sperava di fare
la sua fortuna, a prendere la via dell'Italia per recarsi ad Avignone. Il
Boccaccio lo indusse a venire a Firenze e lo tenne per quasi tre anni come ospite
in casa sua, per quanto anche le sue maniere ruvide e scortesi, la sua chioma
sempre scomposta e la sua sudicia barba fossero tutt'altro che adatte a
conciliargli la simpatia. Il Boccaccio s'adoperò a tutt'uomo affinché Pilato
fosse assunto ad insegnare ufficialmente la lingua greca nello Studio. Ora si
sa che egli spiegava pubblicamente Omero, ma non si saprebbero nominare i
discepoli che andavano ad ascoltarlo, se non fossero i tre che il Petrarca dice
«amici di Omero» in Firenze. Intanto il Boccacio era, come egli dice con
orgoglio non solito in lui, il primo fra gl'italiani che privatamente si fece
spiegare dal suo ospite l'Iliade, quantunque, non ostante il lungo tempo che vi
spese e lo zelo con cui vi si applicò, abbia imparato tanto poco da non credersi.
Egli soleva scrivere accuratamente tutte le notizie che uscivano dalla bocca
del maestro greco. Di che valore fossero e con quale impudenza questo ignorante
soddisfacesse alla curiosità del discepolo, appare da tante sciocchezze
registrate nella Mitologia dal Boccaccio sull'autorità di Pilato. Quando, per
esempio, il discepolo chiese donde venisse il nome di Achille, il saggio greco
gli rispose: da a-cilo", per cui Achille significava uno
cresciuto senza cibo.
Ciò che dà la sua importanza a Pilato, non
è la sua operosità come maestro, ma il desiderio d'apprendere dei due amici,
che lo attirarono a Firenze. Nel suo zelo disinteressato e ammirabile il
Boccaccio mise tosto a profitto la presenza del «graeculus» per condurre ad
effetto la traduzione di Omero. Su ciò il Petrarca ha il merito di aver dato il
primo impulso all'impresa. Già ancora sino da quando egli ricevette da Sigero
l'Omero greco, aveva fatto palese a tutto il mondo il suo entusiasmo pel poeta
che non intendeva. Egli aveva già dapprima imparato a conoscere anche pilato e
s'era fatto tradurre da lui in prosa il principio dell'Iliade. Ma come ospite
in casa sua non avrebbe mai accolto quel sudicio e lunatico bizantino, – quale
egli lo riteneva. Lo disgustava già altamente il vedere che Pilato non
progrediva nello studio del latino e non mostrava d'interessarsi punto per la
letteratura dei romani e che appena gli scherzi di Terenzio gli chiamavano
sulle labbra uno stupido sorriso. Questo Leone, dice egli scherzando sulla
parola, è proprio sotto ogni riguardo una gran bestia. Ma ad aiutare da
lontano l'impresa letteraria del
Boccaccio, egli era pur sempre disposto per poi sottomano attribuirsene tutto
il merito. La traduzione, messa insieme verso per verso e parola per parola,
come se fosse preparata pei discepoli alla guisa del lavoro di Livio Andronico,
non dava per vero nessuna giusta idea del poeta, ma bensì una tal quale
cognizione del contenuto del poema; il peggio si era che Pilato stesso qua e
colà non intendeva affatto Omero e non conosceva il latino se non in minimo
grado. Quando finalmente dopo alcuni anni l'opera fu finita e fu pronta una
copia destinata al Petrarca, due dotti italiani almeno erano in grado di
aggiungere dal contenuto dei canti omerici qualche cosa al tesoro della loro
dottrina e farne partecipe il mondo latino. Maggiore diffusione non pare che
l'infelice traduzione abbia mai avuto. Lo zelo dei due amici di trapiantare per
tal modo Omero in Italia, si sembra più importante che il lavoro del
traduttore.
Scorsi circa tre anni, Pilato non durò più
a lungo a Firenze e per la via di Venezia andò a Bisanzio, carico di
commissioni del Petrarca di comperargli Sofocle, Euripide ed altri classici
greci. Del resto lo lasciarono partire senza rimpianti. Nella Grecia, pensava
il Petrarca, quest'uomo che in Italia fa il greco, si vanterà di essere
italiano. E infatti si seppe che egli, che in Italia s'era pure beffato
dell'occidente e dei latini, a Costantinopoli inveì contro quella città e
vantava l'Italia come un paradiso. Ma lo sdegno del Petrarca si spense quando
seppe l'improvvisa fine dell'avventuriero: mentre egli tornava in Italia da
Costantinopoli, il fulmine lo incenerì sopra la nave che era già in vista del
golfo Adriatico. Sino a questo tempo gli studi greci non progredivano che
lentamente, ed erano ben lontani da quello slancio col quale l'eloquenza latina
aveva preso il volo nella penisola italiana. Se l'ammirazione che gli antichi
romani tributarono in sì larga misura ai greci non fosse stata uno stimolo
sempre nuovo, i dotti esemplari che si videro comparire per la prima volta, non
erano certamente tali da poter trionfare dell'antico pregiudizio che si aveva
contro questi scismatici. Succedeva ciò che era accaduto nell'antica Roma: si
dispregiavano questi «graeculi», – dispregiativo di cui si serviva volentieri
anche il Petrarca – ma si veneravano pur sempre i loro grandi antenati. Il
frutto che la comparsa di Barlaamo e di Pilato aveva portato in occidente, non
poteva ancora essere gustato, ma per mezzo del Petrarca e del Boccaccio era
stata gettata nell'avvenire una semente capace di germogliare.
Soltanto una generazione dopo Pilato comparve novamente un maestro greco
in Italia. Emanuele Crisolora. Ma quanto più molle e fecondo non era divenuto
in questo frattempo il terreno che questi trovò! Certamente egli era anche un
uomo molto diverso da quei teologi calabresi. Era in realtà un bizantino,
maestro stimato e festeggiato anche a Bisanzio, una delle ultime colonne
dell'antica cultura greca quale s'era mantenuta nelle scuole dei retori, e in
realtà molto versato in ciò che si desiderava da lui in Italia, ed oltre a ciò
tale che non solo, in caso di bisogno, sapeva parlare latino, ma che aveva
anche una particolare predilezione per la letteratura e l'eloquenza dei latini.
Perciò accorsero tosto a lui i migliori ingegni e si fecero suoi discepoli il
Guarino, Roberto de' Rossi, il Bruni, il Cenci ed altri. Egli pure abbracciò la
confessione latina, ma la sua operosità per la patria oppressa e il suo
imperatore gli assicurò la stima, la sua vita intemerata e la sua dignità
filosofica gli conciliarono perfino la venerazione de' suoi discepoli ed amici,
che durò anche oltre la tomba. In realtà egli era, più che un maestro di greco,
un vero umanista.
Intorno al tempo del concilio di
Pisa comparve alla curia di Bologna un inviato greco, per nome Giovanni: egli
si andava pavoneggiando qua e là nel lusso delle vesti e non era che lo
zimbello dei curiali. Quando Leonardo Bruni s'informò se avesse portato dei
libri greci, gli fu risposto che li aveva lasciati in patria come merce troppo
pesante. D'altra parte faceva quivi parlare di sé il giovane Guarino da Verona
che forse serviva a quell'inviato di interprete e che a Bisanzio s'era
procurato molte cognizioni linguistiche e molti libri. Tali erano presso a poco
le relazioni fra i greci indigeni e i latini che insegnavano il greco. Né
questi si accontentarono più di aspettare che un greco fuggiasco venisse in
Italia e vi ponesse la sua cattedra: essi cercarono la sapienza greca nella sua
fonte originaria, in Bisanzio.
Il primo che per solo amor della scienza solcò il mare, il primo
pellegrino nel paese classico dove risonava la lingua ellenica, fu per
l'appunto il Guarino, uomo già innanzi negli anni, in origine umile maestro di
scuola, che guadagnava appena di che vivere. Siccome egli aveva udito dir tante
cose della scuola che Emanuele Crisolora teneva a Bisanzio, accettò di gran
cuore l'offerta fattagli dal mercante veneziano Paolo Zeno, di portarlo con sé
a Costantinopoli, dove infatti fu accettato come domestico (famulus) nella casa
del desiderato maestro, e dopo la partenza di quest'ultimo si pose sotto la
disciplina di Giovanni Crisolora, non indegno successore dello zio, e per
cinque anni tornò quivi a rivivere la vita dello studente. Egli non ci fa
sapere in mezzo a quali disagi e privazioni abbia quivi trascinato la vita, ma
non pertanto lascia abbastanza intravvedere la povertà con la quale ebbe a
lottare nella sua gioventù. E tuttavia riuscì a mettere insieme e portare in
patria una collezione non indifferente di libri! Nomineremo qui anche quel
Giacomo da Scarperia, che con subita risoluzione decise di accompagnare il
vecchio Cidonio a Costantinopoli per apprendere il greco alla sua scuola, come
pure l'Aurispa che si condusse quivi appunto per convertire tutto il suo
patrimonio, e anche più, in libri greci e per portarli in molte casse in
Italia.
Francesco Filelfo passò circa sette anni a Costantinopoli, in parte come
studente, in parte dome interprete. Egli pure frequentò la scuola di Giovanni
Crisolora e dopo la morte di lui, quella del Crisococca, dove ebbe a
condiscepolo il Bessarione che doveva poi diventar tanto celebre. Ma ciò che
egli apprese da questi maestri, a suoi occhi era ben poca cosa, sebbene di suo
suocero parlasse con una certa stima e riconoscesse che questi lo avviò allo
studio della letteratura. Egli soleva dire che ciò che aveva appreso, lo aveva
appreso non dalle scuole, assai meschine, bensì dai libri mercè la propria
diligenza; della pura lingua attica poi si confessava debitore unicamente alla
propria moglie Teodora, poiché soltanto nelle famiglie ragguardevoli, che
avevano ben pochi contatti col popolo, si manteneva nella sua purezza la lingua
scritta. Da ciò si vede che anche il Filelfo a Costantinopoli e dai bizantini
aveva appreso bensì la lingua viva, ma non la dottrina e che egli pure
considerava Emanuele Crisolora per una rara eccezione. Non a' suoi maestri
greci si sentiva egli debitore, ma legato d'affetto al Guarino, che il meglio
delle sue cognizioni se lo era acquistato da sé.
Lo zelo e l'entusiasmo degli umanisti d'Italia insieme con la loro
preparazione grammaticale assai più fondata, fecero sì che assai presto si poté
far senza delle scuole di Costantinopoli. Il Poggio a Firenze non aveva fatto
grandi progressi nella lingua greca. Ma il desiderio di saperne di più, che gli
era rimasto nel cuore, giovò assai più di quanto avrebbero potuto fare
gl'insegnamenti del Crisolora. A Londra, dove nessuno al mondo poteva aiutarlo,
riprese quello studio; egli non sapeva rassegnarsi a dover studiare Aristotele
in una lingua straniera, e pose ogni sforzo a leggerlo nel testo originale,
sebbene sapesse di non poter andare molto innanzi. Tornato a Roma, non disdegnò
di fare la lunga via sino alla casa del Rinucci, per farsi spiegare da lui il
Gorgia. Il Valla apprese il greco dall'Aurispa e dal Rinucci, dei quali l'uno
non era miglior maestro dell'altro. Vero è però che anche il Valla non divenne
un ellenista di polso. Ma quando egli racconta che al leggere per la prima
volta l'Odissea più volte si sciolse in lagrime e si sentì soffocare la voce,
un tale sentimento fa stupire i sapienti di Bisanzio, dove l'antico poeta
s'intendeva e s'apprezzava assai meno.
Sul vero stato delle scuole nel cadente Impero orientale non si hanno, è
vero, notizie troppo esatte e precise. Può darsi altresì che il giudizio di
uomini come il Filelfo sia troppo severo, poiché ad essi non istava a cuore se
non ciò che quivi desideravano di apprendere. Ma ad ogni modo è fuor d'ogni
dubbio che, assai scarso perfino a Costantinopoli era il numero di quei maestri
che possedessero una cultura classica e che l'insegnamento del greco vi si
faceva in modo del tutto manchevole. Quando Perleone, discepolo del Filelfo,
desiderò perfezionarsi in esso, il maestro non gli seppe raccomandare altri
fuorché il solo Argiropulo, il quale pure più tardi venne in occidente, sebbene
per avvicinarlo convenisse vincere la ripugnanza che ispirava la sua persona.
In tutte le altre scuole pubbliche, a giudizio del Filelfo, non si insegnavano
che vecchie quisquilie; di grammatica, di quantità sillabiche e di accenti non
vi si udiva una parola: il dialetto di Omero vi era ignoto a tutti.
All'Argiropulo il Filelfo affidò anche il proprio figlio Gianmario. Al di fuori
di Bisanzio, dove soltanto sussisteva la purezza della lingua, era opinione
generale che in nessun luogo si potessero coltivare gli studi classici. Quando
un altro discepolo del Filelfo, Sassuolo da Prato, tanto prediletto da
Vittorino, voleva visitare la Morea perché aveva udito tanto parlare del
vecchio filosofo Gemisto Pletone, il Filelfo si affrettò a sconsigliarnelo,
allegando che quivi la lingua era guasta del tutto e i costumi affatto barbari.
Ciò spiega perché i greci, dotti soltanto a metà, quando accorsero a schiere in
occidente, la maggior parte per campare la vita in qualità di scrivani, fossero
fatti segno al disprezzo generale e alla firma apposta ai libri da essi
trascritti aggiungessero lunghe querimonie sulla loro sorte.
Il concilio che fu aperto nel 1438 a Ferrara e poi continuò a Firenze,
pose anche lungamente e non senza importanti conseguenze a contatto il mondo
letterario italiano col bizantino. Allora soltanto s'imparò a conoscere in
occidente la corte di Bisanzio e la dottrina teologica di que' greci. Fra essi
non v'era che un uomo solo di primo ordine, il filosofo platonico Giorgio
Gemisto Pletone: poiché il Bessarione non venne accompagnato da gran fama, e la
guadagnò soltanto in Italia. Oltre a ciò possono esservi stati fra essi dei
valenti teologi, ma nel complesso questi venerandi greci non erano che fatti
segno ai sarcasmi e alle beffe della generazione degli umanisti. Non si andava
più in là del loro aspetto esteriore, quale ci vien descritto dal giovane Lapo
di Castiglionchio: gli uni con una barba che scendeva loro sul petto, e coi
capelli folti, scomposti e arruffati, gli altri con la barba corta, col capo
mezzo raso e con le sopracciglia dipinte. I più, dice Lapo, avevano un aspetto
così singolare che anche l'uomo il più triste al vederli non poteva trattenere
le risa.
Il concilio si tenne appunto al tempo in cui l'Umanismo si sentiva al
colmo della sua forza in Italia. Parecchi de' suoi migliori rappresentanti
furono chiamati immediatamente al servizio del concilio per redigere atti e per
far traduzioni, o per servire d'interpreti nei rapporti personali e nelle
dispute dei prelati. Greci propriamente detti, che fossero atti ad un tale
ufficio, non v'erano, ma v'era invece un numero sufficiente di umanisti
italiani, padroni di ambedue le lingue. Quando il concilio fu trasferito a
Firenze e l'imperatore si trattenne per otto interi mesi con la sua corte e con
gran numero di arcivescovi e di vescovi, l'operosità degli umanisti era nel
punto culminante. Assai volentieri tanto per l'imperatore Giovani Paleologo,
quanto il papa Eugenio IV avrebbero assunto come interprete nelle trattative
per l'unione il Filelfo. Ma egli non osava allora muoversi da Siena per paura
di cader vittima delle insidie dei Medici e degli altri suoi nemici: in Firenze
poi era assolutamente impossibile che egli si lasciasse vedere. In vece sua si
mise a profitto l'opera volonterosa e intelligente del Guarino e dell'Aurispa,
che oramai erano stabilmente accasati in Ferrara e che poi seguirono i padri
del concilio a Firenze: il primo di costoro dice, e gli si può credere, che
dall'arrivo dei greci in Italia egli non ebbe più un'ora tranquilla.
L'interprete ufficiale nominato per le trattative da papa Eugenio, era Niccolò
Sagundino, del Negroponte, uomo più pratico negli affari che dotto. Invece il
Traversari, generale de' Camaldolesi, era l'anima delle discussioni teologiche.
Egli aveva sempre riguardato la riconciliazione dei greci scismatici con Roma
come un compito glorioso del papato e suo proprio. Per ciò era stato spedito a
Venezia per ricever quivi l'imperatore e il patriarca, e tanto a Firenze quanto
a Ferrara la sua operosità fu instancabile. Bensì, non ostante il suo amore per
gli antichi padri della chiesa greca, fu sul punto di darsi per vinto di fronte
all'ostinazione caparbia di quei bizantini che prolungavano all'nfinito le
trattative. Ma tuttavia visse tanto da vedere la conclusione del concilio, ed
egli stesso appunto il 5 luglio del 1439 stese l'atto dell'unione in ambedue le
lingue; alcuni mesi dopo la morte lo rapì.
Noi non ci occupiamo di sapere quali motivi abbiano influito sulle
decisioni prese rispetto alle questioni del Filioque,
del primato romano e del pane senza lievito nell'eucarestia. I bizantini
s'arresero da ultimo alle promesse d'aiuto al loro Impero stretto d'ogni parte,
alla speranza di dignità e di onori pei singoli, al danaro e al comando del
loro imperatore. Tuttavia l'unione alla quale si sacrificava l'antica fede non
si effettuò. Più attraente e più feconda nelle sue conseguenze fu la gara che
si svolse contemporaneamente tra i dotti greci e i latini. Siccome i greci si
vantavano specialmente della loro filosofia, Aristotele e Platone divennero le
bandiere dei due partiti.
Che Platone non sia stato conosciuto e inteso in occidente se non assai
tardi, non è cosa che possa mettersi in dubbio. Ma è affatto erroneo il credere
che il merito di averlo fatto conoscere spetti a quei greci che fuggivano in
Italia dinanzi ai turchi dall'assediata Costantinopoli. Quei greci non hanno
quasi mai conosciuto essi stessi Platone, anzi con ciò che davano ad intendere
come platonismo furono essi stessi d'ostacolo alla conoscenza del vero Platone.
Anche per questo rispetto quelli che cercarono e trovarono la via più giusta
furono gli umanisti latini. E primo di tutti il Petrarca, il quale per un
sentimento istintivo e senza conoscerne bene le dottrine, proclamò al mondo la
sublimità di Platone, per iscalzare la venerazione generale che prevaleva per Aristotele.
Egli era giunto a farsi possessore di circa 16 scritti di Platone, ma questi
libri greci non parlavano che al suo desiderio e al suo entusiasmo, non al suo
intelletto. Il Boccaccio concepì il disegno di promuovere una traduzione latina
di quegli scritti che però non fu recata ad effetto. Ma appunto ciò basta a
rilevare la fecondità del pensiero. Leonardo Bruni, discepolo del Crisolora,
tradusse poi una serie di dialoghi platonici nel suo chiaro ed elegante latino.
Il più celebre fra i dotti greci che vennero a Ferrara e a Firenze al
seguito dell'imperatore, era Giorgio Gemisto Pletone, bizantino di nascita, ma
dimorante a Misitra nella Laconia. Se egli abbia assunto soltanto quando fu in
occidente i nomi di Gemisto e di Pletone, forse perché la sapienza dei tempi
trovava in lui il suo compimento e per la somiglianza esterna con quella di
Platone, non si potrebbe dire con sicurezza. Egli era un bel vecchio di 83 anni
venerabile nell'aspetto, ma pieno di fuoco giovanile quando gli accadeva di discorrere
delle sue idee platoniche. I suoi compatriotti lo chiamavano addirittura il
filosofo. Ma sembra ch'egli lasciasse una profonda impressione anche negli
italiani quando sedeva alla tavola del cardinale Cesarini o si trovava nel
gruppo degli amici di Cosimo de' Medici e si discutevano problemi di filosofia.
Quantunque interamente contrario alla chiesa greca, non appoggiò il pensiero
dell'unione e disprezzava apertamente se non Aristotele stesso, come lo
accusavano, certo però la Scolastica degli occidentali, che si appoggiava su
questo. Infatti egli era il capo del misticismo greco che ebbe origine dal
neo-platonismo e che sotto la bandiera di Platone si faceva incontro ai latini
avvolto dell'aureola di una dottrina misteriosa ed arcana.
Già un decennio prima e anche più, Pletone aveva ideato nelle sue «tesi»
niente meno che la fondazione di una nuova religione filosofica e un
riordinamento sociale e s'era raccolto intorno un piccolo gruppo di «eletti»
fra i quali v'era anche il suo discepolo Bessarione. Il libro predicava una
teologia mistica che egli a forza di sottigliezze aveva inventato sulla base
del neo-platonismo, e che si contrapponeva al cristianesimo con l'orgoglio di
una dottrina superiore, mentre la vita politica e sociale doveva essere trasformata
sul tipo dell'antica Laconia, quale si riscontra nella vita di Licurgo di
Plutarco. Come sue guide fra i legislatori e i filosofi egli cita Zoroastro
innanzi tutti, indi Eumolpo che diede i misteri eleusini agli ateniesi, Minosse
di Creta e Licurgo, Ifito e Numa, i bramini dell'India e i magi della Media. A
questi maestri s'aggiungono Pitagora, Platone, Parmenide, Timeo, Plutarco,
Porfirio e Giamblico. Ma la fonte più vera del suo sapere e dalla quale attinse
largamente e le cose più importanti, è piuttosto Proclo; egli però non lo
nomina mai, come gliene fa rimprovero il suo avversario ecclesiastico Gennadio.
Da questo deriva il politeismo filosofico che avvolge in simboli allegorici le
divinità pagane da Giove sino ad Ecate e presenta la teurgia e demonologia
neoplatonica in un caos di oscure immagini. Ciò non ostante anche questa nuova
religione non deve mancare di una rappresentazione sensibile, di un culto bene
ordinato e di liturgie, come più tardi anche Toland, ad onta del contrasto
colla chiesa, nel suo «Pantheisticon» tornò pure al rituale della chiesa. Qui
principalmente a Pletone pareva di essere originale, e tuttavia da queste tesi
trapela dovunque il culto della chiesa greca. Il pensiero di introdurre
novamente il calendario attico è una semplice utopia. Anche in esso dovevano esservi giorni profani con servizio divino
e giorni festivi con pompose solennità. Per questi egli propose una serie di
lunghi e noiosi discorsi in prosa e di aridi inni alle singole divinità in
esametri, con frequente alzar di mani e piegar di ginocchi.
Che Pletone abbia cercato di diffondere la sua nuova religione anche in
Italia, non pare e non è credibile. Senza dubbio egli era persuaso che i latini
fossero troppo rozzi e troppo barbari perché trovassero fra essi dei seguaci.
Tuttavia pare che sia riuscito a circondare la propria persona di un'aureola di
mistica profondità. Siccome la lingua di Pletone in occidente era nota soltanto
a pochi ed anche imperfettamente, e siccome del neo-platonismo in generale nessuno
sapeva nulla, così era facile il restare ingannati e il credere che questi
greci con la loro terminologia incomprensibile e col loro sapere mezzo pagano
non fossero seguaci della scuola accademica. Del vero Platone ne sapeva senza
dubbio assai più Leonardo Bruni che non essi tutti e in particolare Pletone il
quale, a quanto sembra, era meno
familiare con le sue opere che non con quelle di Zoroastro o di Pitagora. Ma se
anche i greci «platonizzando› si davano un'aria simile a quella dei sacerdoti
egiziani, non per questo riuscirono mai ad acquistar grande credito. Pletone
solo, al quale i molti anni davano quasi l'autorità di un patriarca, chiuso che
fu il concilio e dopo essersi recato ad un convegno col Filelfo a Bologna, si
portò con sé novamente la sua fama nel Peloponneso, dove nell'anno 1450 morì in
età avanzatissima.
È appunto in causa delle lotte con questi greci, Aristotele riguadagnò
anche presso gli umanisti d'Italia quell'autorità che il Petrarca al suo tempo
aveva cominciato a scalzare. Appunto perché i greci si spacciavano per
platonici, i latini si difendevano in Aristotele il loro campione. Ancora a
Ferrara l'orgoglio filosofico dei greci sofferse una famosa sconfitta, almeno a
giudizio di un italiano. Si sa già come vanno le dispute. Ugo Benzi da Siena,
celebre medico, ma al tempo stesso anche abilissimo dialettico, invitò i più
colti fra i greci ad un allegro banchetto, al quale assistevano anche alcuni umanisti italiani e il marchese
Niccolò d'Este. Tolte le mense, l'accorto ospite fece cadere il discorso su
quelle proposizioni nelle quali Platone e Aristotele sembravano dissentire
maggiormente fra loro: poscia egli si dichiarò pronto a difendere qualunque
delle due parti che i greci avessero assalito, fosse pure l'accademia o la scuola
peripatetica. Quelli accettarono la
gara. Per parecchie ore di seguito fu disputato calorosamente. Ma quando
finalmente il Benzi con buone ragioni e con molta eloquenza ridusse al silenzio
l'un dopo l'altro i filosofi greci, fu oggimai palese, dice il nostro relatore
italiano, il fatto che «i latini, dai quali i greci erano già da lungo tempo
stati vinti nelle arti della guerra e nella gloria delle armi, nel nostro
secolo li superarono anche nelle scienze in tutti i rami dello scibile».
Probabilmente il Benzi né intendeva il greco, né sapeva della filosofia
di Platone più di quanto avesse potuto apprendere dagli scritti di Cicerone o
dai Padri della chiesa. Era per l'appunto una lotta dialettica. A Firenze
invece non mancavano uomini i quali erano realmente in grado di leggere e di
intendere Platone, specialmente il Bruni ed il Marsuppini; e quivi i greci
scaddero ancor più nella stima del pubblico. Imperocché, che anche a Firenze vi
fossero abbastanza dispute nelle quali Aristotele e Platone venivano posti a
confronto, appare dal fatto che quivi Pletone scrisse il suo trattato sulle
differenze tra i die filosofi. Esso diede il primo impulso ad una moltitudine
di contese che in modo del tutto singolare si accesero soltanto fra i greci,
senza quasi partecipazione alcuna dei latini.
Ma non per questo la dottrina del vecchio Platone passò del tutto
inosservata in occidente: una scintilla di essa era passata in un'anima capace
di riceverla. A Firenze Cosimo de' Medici, da dilettante bensì, ma tale da aver
sensi di ammirazione per tutto ciò che avesse apparenza di grande e di sublime,
aveva spesso udito disputare il «secondo Platone» sui «misteri platonici». A
lui sembrava che l'occidente non fosse ancora maturo, per poter penetrare negli
arcani di questa sapienza recondita. Per ciò immaginò «un specie di accademia»,
nella quale questa potesse venir coltivata, e a profeta dell'avvenire destinò
il figlio del proprio medico, che allora contava appena sei anni, Marsilio
Ficino. Mentre da un lato faceva educare con ogni cura quest'ultimo, dall'altro
s'adoperava per raccogliere tutte le opere di Platone e di Plotino. Solo quando
l'allievo raggiunse l'età di 30 anni, egli lo incaricò nel 1463 di tradurre e
commentare dapprima l'Ermete Trismegisto e poscia alcuni scritti di Platone.
Plotino intendeva di riservarlo per gli anni più maturi del suo filosofo, ma
egli non sopravvisse tanto. Tuttavia poté ancora nella sua villa di Careggi
udire alcune dissertazioni dl Ficino gli scritti di Platone. Questi poscia cadde
egli pure nella via seguita dai greci, essendosi persuaso che il divino Plotino
sia stato il primo a scoprire la teologia dl divino Platone e gli «arcani degli
antichi», che le loro dottrine
concordassero con quelle cose della chiesa cristiana, e che Platone, secondo il
principio dei pitagorici, fosse tornato a rivivere in Plotino, o che entrambi
fossero stati ispirati dallo stesso
genio. Così egli divenne in occidente il fondatore di quella scuola
mistico-filosofica, che più tardi ebbe il suo capo in Pico della Mirandola.
Ma questa non era che una specialità, che prevalse soltanto assai più
tardi e in modo del tutto effimero e transitorio. Anche fra' suoi compatriotti
Platone era ammirato, ma non aveva seguaci. Fra i greci, che emigrarono in
Italia, non vi era nessun suo proselite. La sua fama non aiutava a conseguire
onori. Al contrario essi vennero scadendo ogni dì più, a misura che fra gli
italiani andava estendendosi la cognizione della loro lingua e letteratura.
Quando essi cominciarono ad affluire in torme sempre crescenti per la massima
parte in condizione di poveri mendicanti, la venerazione che dapprincipio
ispiravano quei discendenti degli eroi cantati da Omero e dagli antichi
ateniesi, cambiò d'un tratto e si convertì in disprezzo. Dispiaceva in essi
quell'albagia bizantina di cui non avevano mai saputo spogliarsi, anche vivendo
d'elemosine, e non piaceva nemmeno il loro carattere bisbetico e lunatico che
forse era mantenuto in essi dal vedersi costretti a rinunciare alle usate agiatezze
e a girovagare insegnando ai grandi e adulandoli; si diceva invece che
avrebbero fatto meglio, e ne avrebbero avuto motivo, ad accettar i costumi
della loro nova paria, radendosi le lunghe barbe e smettendo la stupida loro
boria. Oltre a ciò, mostravano una grande inettitudine nello studio del latino
e della lingua volgare italiana. Nel primo non riuscivano se non pochi e dopo
lunghi anni di studio, e appena tre o quattro erano in grado di esprimersi
correntemente e con eleganza. Per tal modo figuravano come menti tarde e pigre
di fronte ai latini, che apprendevano con facilità ed ardore la loro lingua e
si gettavano sui tesori della greca letteratura. Il vecchio sangue corrotto dei
bizantini male si conciliava con quello fluido e vigoroso degli italiani.
Ancora al tempo di papa Eugenio scemò di molto la propensione a soccorrere
questi greci emigrati, per lo più buoni a nulla, che affluivano specialmente a
Firenze.
Sotto papa Niccolò risorse ancora una volta per gli emigrati greci un
periodo di breve prosperità. Quelli che sapevano scrivere appena passabilmente,
venivano adoperati a copiar libri. Il capo e il protettore di tutti i greci,
che erano in Italia, divenne il cardinale Bessarione. Degli anni della sua
gioventù, che egli passò in Grecia, poco si sa. Nato nel 1403 a Trebisonda e
discendente da una famiglia, nella quale si tirava innanzi la vita col lavoro
manuale, egli fu assai per tempo destinato alla carriera ecclesiastica e
mandato a studiare a Costantinopoli. Doxiteo, arcivescovo di Dorion nella
Messenia, fece sì che nel 1423 egli venisse accolto nell'ordine di San Basilio
e lo mandò perché maggiormente si istruisse all'arcivescovo di Selimbria, che
il Bessarione – questo era il nome che egli come monaco basiliano aveva assunto
– ricordò per tutta la vita con sensi di venerazione per la grande sua dottrina
e prudenza. Di quale specie fosse questa prudenza, lo si riconosce dal fatto,
che il prelato, per promovere gli ordini maggiori il giovane monaco, lo esortò
a mettersi sotto la disciplina del «nuovo Platone». Ora fu detto bensì che
Pletone lo avesse istruito principalmente nella matematica, ma non si saprebbe
addurre veruna prova che il Bessarione in seguito si sia più accostato a questa
scienza. Bensì è molto probabile che egli sia stato iniziato dal teosofo di
Misitra nei misteri del neo-platonismo e sia stato accolto nel gruppo degli
«eletti». Imperocché anche come cardinale della chiesa romana, quando seppe la
morte del «saggio Gemisto», ne fece le sue condoglianze ai figli nello stile delle
«tesi», dicendo che il loro «padre e maestro comune era allora nella parte più
pura del cielo, per danzare la mistica danza bacchica ( [Iakco") con gli dei dell'Olimpo.
Sembra che gli iniziati nella dottrina arcana sapessero anche aiutarsi
vicendevolmente nella carriera che intraprendevano. Il giovane basiliano fu
adoperato in una missione politica, quando si trattava di avviare una
riconciliazione tra i due imperatori di Trebisonda e di Bisanzio. Poscia egli
fu nominato – oujk oi|d’
o{ti, dice egli stesso –
arcivescovo di Nicea, ed anche in occidente si continuò sino alla sua morte a
chiamarlo il cardinale di Nicea, benché egli non abbia mai veduto quella sua
sede e perfino papa Pio II non sapesse dire se la popolazione fosse assai
scarsa in essa o mancasse del tutto. La pomposa dignità prelatizia non voleva
dunque dire gran che. Bensì il Bessarione ebbe cura anche più tardi di fronte
a' suoi compatriotti di far prevalere l'opinione, che egli nella sua patria
fosse sempre tenuto come un portento. Ancor giovinetto, diceva egli, e prima
che gli spuntasse il primo pelo, il suo nome era noto a tutto coloro che
intendevano la lingua greca: giunto appena all'età di 24 anni, era stato dai
maggiorenti della sua nazione anteposto a tutti i suoi coetanei ed anche a
gente più provetta di lui. Con ciò voleva provare ai greci, che egli nel
convertirsi alla chiesa latina e nell'accettare la porpora cardinalizia non
aveva fatto che un sacrificio personale. «Io potrei dire con tutta ragione che
ciò ch'io aveva presso di voi, era assai più; perché quivi io era calcolato fra
i primi, mentre qui non ho che un posto fra gli ultimi.» Ciò che in Grecia lo
sollevava tanto alto sopra la moltitudine, non era se non la presunzione della
setta neoplatonica; ma non si conosce un solo de' suoi scritti, che sia frutto
di quegli anni. La lingua e la letteratura latina gli erano allora del tutto
ignote, o pressoché ignote. Egli era un filosofo-teologo e un teologo-filosofo,
come tutti gli scienziati greci, e pronto a disputare sulle dottrine
differenziali, quando appunto comparve al Concilio col seguito dell'imperatore
e del patriarca.
Siccome i greci vennero per chiedere aiuto, era naturale che fossero
disposti di accettare alle migliori condizioni possibili le dottrine della a
latina. Ciò non ostante si cominciò con lunghe e dotte scaramucce, sia che il
clero greco non fosse così docile ad arrendersi, come l'imperatore, sia che si
volessero salvare le apparenze. Finalmente il Bessarione, dopo aver con ardore
conteso il terreno ai latini, precedette tutti i suoi compatriotti col buon
esempio: egli fu il primo a dichiararsi persuaso della processione dello
Spirito Santo anche dal Figlio, e in presenza di tutto il Concilio fece una
solenne professione di fede e levò a cielo, con poca edificazione dei greci, lo
zelo religioso, che animava la a latina. Allora altresì egli si scagliò con
violenza contro l'antico suo commilitone, l'arcivescovo Marco di Efeso,
chiamandolo pazzo e dominato da spiriti immondi. Subito dopo, in premio della
sua conversione, egli ebbe dal papa una pensione di 600 scudi.. Ma quando,
chiuso il concilio, parve conveniente che anche i nuovi correligionari fossero
rappresentati nel Sacro Collegio, per consiglio dei cardinali Cesarini e
Capranica, furono elevati alla dignità cardinalizia il nostro Bessarione e
l'insignificante arcivescovo di Kiew.
L'unico frutto rimasto della conciliazione conclusa a Firenze, fu la
nomina di questi due cardinali chiamati dalla loro stessa posizione a
sollecitare presso la Curia l'aiuto promesso agli oppressi bizantini. Isidoro
di Kiew corse molte volte pericolo di acquistarsi la palma del martirio per la
sciabola di qualche turco, però giunse ogni volta, fuggendo a tempo, a
sottrarvisi, sino a che da ultimo, fiaccato dagli anni, si rassegnò a vivere
rinchiuso nella sua nullità. Anche il Bessarione, al pari di lui, restò
l'instancabile difensore della causa greca e lavorò con la fantasia a crear
grandi crociate e stragi solenni di turchi. Ma anche quando sotto Calisto III e
Pio II parve per un momento che si volesse dar mano sul serio a quelle imprese,
tutti i suoi disegni finirono in nulla, e parvero perfino ridicoli. Allora egli
si venne ogni dì più persuadendo, che la sua missione doveva restringersi al
solo campo letterario.
Mentre i suoi compatriotti, i «graeculi esurientes», che si erano
rifugiati in gran numero in Italia prima e dopo la conquista di Bisanzio, si
dibattevano in lotta penosa coi bisogni della vita, il Bessarione era tanto
fortunato non solo da non dover temer nemmeno da lontano lo spettro della
miseria, ma anche da poter alleviare i patimenti degli altri. Egli si circondò
di un gruppo di dotti greci e latini, che come devoti clienti lo accompagnavano
quando egli al mattino dal suo palazzo posto al Quirinale si recava al
Vaticano, o disputavano alla sua tavola su argomenti teologici. Nella
conversazione egli apprese più facilmente degli altri ad esprimersi con
facilità, se anche con non molta eleganza, nella lingua latina. I greci poi gli
erano affezionati pei benefici di cui li colmava, e perché era il loro
ordinario intercessore presso la sede apostolica. Egli si spogliò anche di
quella taciturna ipocondria, che soleva rimproverarsi ai bizantini, lasciò il
fasto vanitoso dei greci per dar luogo a costumi più umani e civili e ad una
ambizione, che si trovava più sopportabile. Il lusingare quest'ultima non
riusciva difficile ai letterati, molto più che le loro adulazioni erano
largamente ricompensate. Una celebrità speciale avevano i banchetti, nei quali
egli riuniva i suoi dotti amici. In complesso, egli era d'indole buona e
socievole, e quanto più invecchiava tanto più nei circoli letterari cresceva la
venerazione pel cardinale greco dalla lunga barba grigia e dalle grandi e folte
sopracciglia.
Al tempo di Eugenio IV la corte letteraria del Bessarione era
proporzionata alle sue rendite. Con Niccolò V egli non ebbe verun più stretto
legame, anzi sembra che, per la somiglianza dei loro intenti, regnasse fra loro
una tal quale gelosia. Quando Bologna, fra le città dello stato pontificio
sempre la più proclive alla ribellione, in forza di un trattato si arrese di
nuovo ad accettare la presenza di un legato del papa, Niccolò nominò il
cardinale greco a reggere quella provincia e lo allontanò in tal modo assai onorevolmente
da Roma. Cinque anni tenne il Bessarione quel posto, senza però osare
d'immischiarsi negli affari pubblici, che rimasero nelle mani dei Bentivogli.
La città era abbastanza calma e il legato poté rivolgere le sue cure all'antica
università, che in mezzo alle lotte civili era completamente scaduta. Egli
promosse la restaurazione dell'edificio e delle facoltà e si adoperò perché si
chiamassero valenti insegnanti e fossero meglio retribuiti. A Bologna troviamo
anche alcuni umanisti al seguito del legato ed una piccola corte letteraria,
che del resto veniva di gran lunga oscurata da quella assai più splendida del
papa. Tuttavia non fu mai dimenticato, che il Bessarione dopo la morte di
Niccolò V fu sul punto di diveir papa. Per tutta una notte egli fu il candidato
di un considerevole partito nel conclave, vale a dire, di quei cardinali,
che desideravano di eleggere un papa di
non grande ambizione, e senza colore politico, ma il mattino dopo prevalse il
pensiero, che non conveniva eleggere un neofito dalla barba alla greca, e fu
data la preferenza al vecchio Borgia,
che assunse il nome di Calisto III. Sotto costui e sotto Pio II il Bessarione
prese una parte attiva ai tentativi di una crociata, che avrebbe restituito la
libertà la sua patria. Dopo la morte di Pio, invecchiando e tormentato dai
calcoli, si die' tutto a' suoi libri, a' suoi studi e alla dotta conversazione
dei greci e dei latini, ch'egli s'era raccolti intorno in bel numero quasi come
in un centro di attività letteraria. In età molto avanzata egli accettò ancora
una importante, ma vana missione in Francia, e al ritorno morì il 19 novembre
1472 a Ravenna.
Gli scritti teologici del Bessarione si riferiscono quasi tutti alla
questione ecclesiastica ed al Filioque,
e sono al tempo stesso una continua e poco amena apologia della sua adesione
alla a latina. Quando dieci anni dopo la conquista di Costantinopoli ebbe il
titolo di patriarca di quella diocesi ed emanò la lettera pastorale già
menzionata a tutte le comunità greche, per chiamarle nel seno della a latina,
ricordò a' suoi compatriotti que' suoi scritti e la sua stessa persona. Egli
parla delle notti che vegliò insonne per meditare e studiare sulla processione
dello Spirito Santo, e dice come finalmente non poté più chiudere gli occhi
alla verità. Si ripromette che i greci, superbi di essergli compatriotti,
riveriranno la sua verga pastorale e lasceranno le loro antiche credenze. Così
tutta la sua teologia si riduce sempre a questo unico dogma, che gli si rivelò
a Firenze e fu l'origine della sua fortuna. Ma egli compose anche sermoni,
leggende sacre e simili. Dello scritto che pubblicò, nella disputa ch'ebbe coi
filosofi, in difesa di Platone, avremo occasione di parlare anche più tardi. Ma
per l'amore che nutriva pur sempre per l'idolo della sua gioventù, egli
credette di dover anche, come cardinale della a romana, dimostrare la
venerazione che aveva per Aristotele. Parleremo altresì delle sue traduzioni
dal greco, che gli procurarono una gran fama. Gli fu poi sempre ascritto a gran
merito il fatto dell'essersi pienamente impadronito della lingua latina, che
prima gli era del tutto ignota, sebbene non avesse mai potuto raggiungere
quella facilità e magniloquenza, che era di moda. Egli stesso affermava che ai
greci sarebbe stato al tutto impossibile di usare il latino con quella grazia,
che era propria dei latini di nascita, e a conferma di ciò additava i propri
scritti. Ma gli torna pur sempre ad onore, d'essersi anche in questo campo
assunta quella parte di mediatore, alla quale lo chiamavano la sua nascita e la
sua posizione.
Un altro merito, che anche oggidì gli si ascrive con riconoscenza da
qualche studioso, è quello di essere stato uno dei bibliomani del suo tempo.
Anche per questo rispetto era naturale che la sua specialità fosse la greca
letteratura. Egli stesso racconta come fin dalla fanciullezza e dalla gioventù
avesse una passione vivissima pei libri e come allora avesse dovuto per la
massima parte trascriverli di propria mano. Probabilmente a Firenze, dove
l'esempio del Niccoli e dei Medici continuava ad influire, nacque in lui la
passione delle collezioni, e dopo la caduta di Costantinopoli vi contribuì
anche un lodevole sentimento patriottico. Se la sua patria andava in rovina
sotto il dominio dei barbari, egli voleva almeno salvare dall'ultima
distruzione le produzioni intellettuali dell'antica Grecia e quindi con zelo
attivissimo fece ricerca delle opere più rare e più difficili ad aversi.
Peraltro non sembra ch'egli n'abbia fatto venire né dalla Grecia, né dalle isole;
pare che dopo la sua conversione i suoi rapporti coll'antica sua patria fossero
molto languidi. Ma invece il papa gli affidò nel 1446 il protettorato di tutti
i monasteri basiliani d'Italia, e pare che egli abbia cercato di trarre tutto
il maggior partito possibile da questa sua posizione. In particolare acquistò
un numero considerevole di libri greci
dal convento di san Niccolò di Casoli nella Puglia non lungi da Otranto, dove
l'abate Niceta gli era molto affezionato: fra questi vi erano alcune opere di
letteratura greca ancora sconosciute. Anche altrove pare che abbia cercato di
impadronirsi dei tesori librari dei conventi a lui soggetti, e come compratore
era anche noto ai camaldolesi di Norimberga.
Vespasiano loda il cardinale anche come patrono degli scrivani, che
lavoravano continuamente per lui a trascrivere esemplari latini, e specialmente
greci. Questi erano per la massima parte poveri sacerdoti greci, che lungi
dalla patria si guadagnavano in tal modo il sostentamento, e fra essi v'erano anche
uomini, che potevano senz'altro essere ascritti fra i letterati. Noi impariamo
a conoscerli dalle loro firme, alle quali s'aggiungono spesso le grida di
dolore degli esuli; il dotto aristotelico Giovanni Argiropulo, che certo era
nato per essere qualcosa di più di uno scrivano, il candiota Giovanni Rhosos, i
cui nome si trova appiè di tante opere classiche, Michele Apostolios, che poi
scrisse un'orazione funebre del suo benefattore, Demetrio Sguropulo, Giovanni
Plusiadenos, che copiò pel cardinale Erodoto, Tucidide e le opere storiche di
Senofonte, Cosma Monaco, Giorgio Zangaropulo, l'anonimo spartano che si segnava
«il perseguitato dalle erinni». Tutti questi libri nuovi dovevano essere
scritti sulla miglior pergamena, in caratteri normali, e bellamente miniati e
decorati dello stemma del cardinale, come usavano di fare i principi con le
loro biblioteche.
Il Bessarione calcola che il numero de' suoi libri, quali egli li lasciò
alla repubblica di Venezia, ascendesse, compresi i latini, a 900 volumi, e il
loro valore non fosse inferiore a 15,000 ducati. Di manoscritti greci la sua
raccolta era allora senza alcun dubbio la più ricca in occidente e dappertutto,
e la letteratura ecclesiastica e la prosa vi erano largamente rappresentate.
Che la poesia vi avesse una parte minore, non era che una conseguenza della sua
cultura esclusivamente filosofico-teologica: Esiodo e Pindaro sembrano essergli
stati ignoti del tutto; nella letteratura drammatica egli non possedeva che
quattro tragedie di Sofocle, mentre i Medici le possedevano già da tempo tutte
e sette per mezzo dell'Aurispa, e tre commedie di Aristofane. Così anch'egli
contribuì a confermare quel detto del Filelfo: non esservi fra i greci alcuno,
che si dilettasse di versi.
Fu una vera bizzarria quella del Bessarione, di voler lasciare quel suo
tesoro, che gli era costato tante cure e tante spese, alla Repubblica di
Venezia. Pare che abbia deliberatamente voluto lasciar da parte quelle città,
che erano i centri della letteratura latina e delle traduzioni. Con Firenze, il
luogo della sua conversione, ma dove i greci non godettero mai molta stima, non
pare che abbia mantenuto più veruna relazione; ed anche a Roma, luogo del suo
domicilio, ebbe a lottare con molte contrarietà. Invece egli riguardava Venezia
come la naturale intermediaria tra l'oriente greco e l'occidente, come una
seconda Costantinopoli. Quivi, dice egli, convengono uomini di tutte le
nazioni, quivi i greci sogliono mettere il piede a terra. Egli pure era quivi
per la prima volta approdato ed anche più tardi era stato accolto onorevolmente
e dichiarato cittadino della Repubblica. Fu specialmente Paolo Morosini quegli
che lo confermò in quella risoluzione. L'unica condizione che gli pose, fu che
si provvedesse ad un degno collocamento della biblioteca, che la si dichiarasse
come appartenente a San Marco e che fosse conservata per uso comune di tutti
gli studiosi. La Signoria accolse di buon grado il prezioso dono, e ancora
vivente il cardinale le giunsero da Roma le trenta casse che provvisoriamente
furono affidate ai procuratori di San Marco. Ma la Repubblica non mostrò
d'interessarsene ulteriormente gran fatto: e per la verità lo Stato, come tale,
non curò mai molto le cose letterarie. Ancora nel 1490 si lamentava che i libri
giacessero nascosti nelle casse e vi si guastassero. Solo assai più tardi fu
aperto ai dotti un degno asilo pei loro studi nella biblioteca di San Marco, di
cui i libri del cardinale greco costituirono il fondamento.
Siccome il Bessarione non si procacciò la cultura latina, alla quale
pose le basi in Padova nel 1440, se non a poco a poco, non poteva dispensarsi
dal tenere presso di sé come segretari alcuni valenti latinisti. Ma in sulle
prime noi non troviamo fra questi veruno che godesse di una gran fama letteraria:
i migliori affluivano, specialmente sotto Niccolò V, alla curia romana, che li
attraeva ben più che il servizio di un cardinale, che fra' suoi uguali aveva
voce di povero. Lauro Quirini, veneziano, che in levante s'era anche
impadronito perfettamente della lingua greca, fu per un certo tempo suo
familiare. Anche di Gasparo da Volterra, segretario del cardinale per la
corrispondenza, si sa espressamente, che era assai colto nel greco, ciò che
appunto sembrava indispensabile per l'ufficio a cui attendeva, e perché nella
casa del Bessarione si parlava più in greco che in latino. Nei tempi posteriori
il Platina, autore delle vite dei papi, e Domizio da Caldiero sembrano essere
stati i più notevoli fra i familiari latini del cardinale. Ma come dotto emerge
sopra tutti costoro un giovane che passò i migliori anni della sua gioventù
presso il Bessarione e che, all'ombra del suo favore, salì ad elevate dignità
ecclesiastiche e fu il suo prediletto fra i letterati, Niccolò Perotti.
Nato nell'anno 1420 da una famiglia illustre, ma decaduta, a
Sassoferrato – egli poteva gloriarsi di essere parente del grande giureconsulto
Bartolo, suo compatriotta – il Perotti andò debitore della sua prima istruzione
letteraria a Niccolò Volpe da Vicenza, che egli loda anche come poeta. Oltre a
ciò egli si professa discepolo anche di Vittorino da Feltre, alla cui scuola
però non deve essere stato che da fanciullo, perché Vittorino morì il 2
febbraio del 1446. È strano che fra i due maestri egli non nomini anche il
Guarino. Infatti da Vespasiano si sa che egli studiò per alcuni anni a Ferrara
sotto la guida di esso, e che, essendo giovane e povero, fu accolto in casa e
largamente provveduto di mezzi da un ricco inglese, Guglielmo Gray, il futuro
vescovo d'Ely, che desiderava egli pure di perfezionarsi sotto la direzione del
Guarino. Quando il Gray ebbe dal suo re l'incarico di andare a Roma come
procuratore della corona, prese con sé il giovane Perotti e riuscì a farlo
entrare al servizio del Bessarione, appunto perché desiderava di rendersi
padrone del tutto della lingua greca. La notizia che il Perotti sia entrato a
quel servizio all'età di vent'anni s'accorda benissimo con quanto egli stesso
scrive intorno alla sua vita giovanile.
Il Perotti passò poi a Bologna col Bessarione, che vi era stato nominato
legato. La sua condizione era o divenne ben presto quella di maggiordomo per le
mani del quale passavano tutti gli affari domestici del cardinale; ufficio di
tutta fiducia, quale una volta aveva tenuto per tanti anni il Parentucelli
presso il cardinale Albergati: al tempo stesso il Perotti, per ciò che
concerneva l'acquisto di libri, era pel suo mecenate ciò che il Tortello pel
papa. Pare che a Bologna egli abbia spiegato una straordinaria operosità. Come
studente, quale egli era pur sempre e per l'età sua e pel suo grado di cultura,
continuò a frequentare l'università e si diede alla teologia con tanto zelo da
emergere più tardi come autore di scritti teologici. E con ardore ancor
maggiore si dedicò giorno e notte allo studio del greco, avendone nella casa
del cardinale tutta l'opportunità. Ma al tempo stesso, sino ancora dal 1451,
egli insegnava già la rettorica e la poetica all'università. Quando nel gennaio
del 1452 il re Federico III passò per Bologna andando a ricevere la corona
imperiale e a celebrar le sue nozze, il giovane Perotti tenne alla sua presenza
e a nome della città un'elegante allocuzione che gli fruttò un diploma di
poeta, un brevetto di conte palatino e il titolo di consigliere imperiale. Ma
ciò che fece la sua fortuna fu la traduzione di Polibio commessagli dal papa.
Quando egli gl'inviò il primo libro di essa, fu altamente lodata la facilità e
l'eleganza dello stile e, nessuno osservò che questi pregi s'erano ottenuti a
scapito di Polibio che il giovane ellenista non aveva inteso se non raramente e
col quale egli aveva usato assai liberamente per presentarlo sotto una forma
piacevole ed attraente. Il papa gliene espresse la sua piena soddisfazione;
assicurandolo che aveva letto il libro con gran diletto sino alla fine, ed
eccitò il fortunato stilista a continuare nell'impresa incominciata. Anche i
libri seguenti ed, oltre a ciò, un'operetta aggiunta intorno alla Metrica
trovarono la più favorevole accoglienza. Il Perotti si sentì incoraggiato ad
altre traduzioni minori e le presentò al papa, come ad esempio il «Manuale» di
Epitteto e il breve scritto di Plutarco «Sulla fortuna dei romani». Egli fu
nominato segretario apostolico e il Bessarione seppe procurargli alcune piccole
prebende. Se abbia anche esercitato il suo ufficio di segretario e quando sia
venuto a Roma, non si sa con certezza: ma sembra che sino alla morte del papa
sia rimasto a Bologna presso il cardinale greco.
Sotto il papa Calisto il Perotti era ormai un ecclesiastico di molta
considerazione, veniva adoperato in ambascerie e aveva innanzi a sé la
prospettiva di un avvenire sempre più fortunato. Per le raccomandazioni del
Bessarione egli fu nominato nel 1458 da Pio II vescovo di Siponto, ma non si
mosse da Roma e dal fianco dei letterati suoi amici. Dal 1465 in poi lo
troviamo occupato di affari ecclesiastici nelle legazioni umbre di Spoleto e di
Perugia. Ma l'ozio letterario egli lo godeva nella villa Centipera presso la
sua nativa Sassoferrato: egli steso aveva avuto cura di edificarsela in
posizione amena e di circondarla di verzure e di acque. Quivi, in mezzo ai
libri dei classici, poneva da parte gli affari e viveva unicamente agli studi
filologici che con gli anni divenivano bensì alquanto più aridi, ma anche più
seri e profondi che non nella gioventù nella quale egli si era creduto oratore
e poeta. «Fuggicura» nominò egli l'asilo della sua Musa, e in questo Sans-souci
è morto il 13 dicembre del 1480, e quivi pure, non già nella cattedrale del suo
vescovato, ebbero riposo le sue ceneri.
Se le opere del Perotti fossero tutte riunite in una raccolta,
attesterebbero in lui uno scrittore non meno fecondo del Poggio e del Valla. Ma
molte cose rimasero inedite, ed altre furono pubblicate qua e là a riprese.
Negli anni suoi giovanili egli, come tanti altri discepoli di Vittorino e del
Guarino, si volse più agli studi stilistici e rettorici e curò l'eloquenza
nella quale sulle prime si procacciò una certa fama. Può darsi che abbia
scritto molto in poesia, ma queste sue produzioni andarono quasi tutte perdute
e dimenticate. Di ventotto orazioni non se ne conosce che una. Le numerose sue
lettere che egli raccolse ed ordinò in gruppi, paiono conservate in un solo
manoscritto, e da questo non s'è mai tratto nulla. I suoi trattati e gli
scritti polemici non ebbero che una assai scarsa diffusione. Delle sue
traduzioni non ebbe fama (e non troppo meritata) se non quella di Polibio e
nonostante la fluidità e la fiorita eleganza del latino, mostra che l'ardito
traduttore, benché in casa del Bessarione, non era un grecista del tutto sicuro
di sé. Egli scrive come chi ha appreso regolarmente l'arte dello stile, ma
questo, per mancanza di impronta originale, non lascia veruna impressione
speciale. Gli manca la vivacità naturale, l'efficacia ed il brio.
La sua carriera egli la cominciò in Bologna,
ma i frutti migliori del suo spirito maturarono soltanto più tardi, quando la
sua posizione gli permise di vivere tutto a' suoi studi senza preoccuparsi di
trarne alcun lucro o di piacere a' suoi mecenati. Benché incoronato dell'alloro
del poeta, egli era nato più per gli studi eruditi della filologia che per le
belle lettere. La sua «Metrica», che dedicò nel 1453 al papa, gli procurò il
plauso generale ed era molto ricercata anche dopo l'invenzione della stampa.
Egli fu il primo a dedurla dai latini e a ridurla a sistema. Ma una celebrità
ancora maggiore ebbe la sua grammatica per uso delle scuole, che compose a
Viterbo nel 1468 pel proprio nipote Pirro. Essa gli sopravvisse per molte
generazioni in parecchie edizioni, ed è stata lodata dallo stesso Erasmo, come
quella che, sollevandosi sopra i propri elementi, serviva anche d'introduzione
per lo studio dell'eloquenza e della rettorica. Finalmente verso la fine della
sua vita, negli ozi del suo Fuggicura, lavorò all'opera gigantesca che fu
pubblicata dopo la sua morte da suo nipote Pirro sotto il titolo di Cornucopiae, che è un commento a
Marziale e una emendazione del testo di quest'ultimo, e al tempo stesso per
l'abbondanza dei materiali, nella quale precorse di un secolo i filosofi
olandesi, una miniera di tesori della classica latinità. Questo era il vero
campo per l'attività di Perotti sebbene, essendo vescovo, non abbia potuto
nemmeno pubblicare i suoi studi su quel poeta soverchiamente licenzioso. Ma
d'altra parte è anche certo che né presso Niccolò V, né presso il Bessarione
egli non avrebbe potuto fare la propria fortuna con tale opera.
Dei greci che trovarono un asilo alla corte di Niccolò o nella Curia,
noi non nomineremo qui che i principali, ovvero, ciò che è lo stesso, quelli
che s'impadronirono talmente della lingua latina da poter scrivere ed insegnare
in essa. Se non vi riuscivano, o se si mostravano indifferenti per la nuova
scuola dell'eloquenza e della rettorica, il loro sapere filosofico e teologico
non li salvava dall'essere relegati nella classe dei semplici copisti. Gli
abili latinisti e traduttori invece avevano la preferenza, in quanto si
supponeva in essi, perché greci di nascita, una piena cognizione della lingua
greca e una perfetta intelligenza delle sue opere letterarie.
Spesse volte ci è accaduto di incontrarci in Giorgio Trapezunzio, perché
da anni egli apparteneva alla classe dei dotti girovaghi. Ma in seguito Roma
divenne la sua patria, se pure n'ebbe mai una sulla terra. Per quanto se ne può
sapere, egli era nato nel 1395 a Candia, ma soleva chiamarsi il Trapezunzio
perché la sua famiglia era originaria di Trebisonda, ed anche perché questa
città era una sede illustre di molta cultura. Che abbia fatto e dove sia stato
prima di venire in Italia, nessuno lo sa. A giudicare dalla sua erudizione e
dalla circostanza che era laico ed aveva moglie, si potrebbe concludere che
abbia tenuto una qualche scuola. Egli era stato precedentemente conosciuto dal
Filelfo, probabilmente a Bisanzio, e da questo apprendiamo che Giorgio si
sarebbe rifugiato in Italia fuggendo l'invasione dei Turchi. A ciò non
contraddice punto quanto il fuggiasco stesso racconta, che cioè Francesco
Barbaro lo abbia chiamato a sé da Candia in qualità di copista. Pare che sia
giunto a Venezia intorno al 1430. Ma sembra che il Barbaro si sia accorto assai
presto che questo greco era dotato di una prontezza e agilità d'ingegno quali
non si riscontravano ordinariamente ne' suoi compatriotti. Egli lo avviò quindi
ad una carriera assai più elevata che non fosse quella di semplice copista. Per
farlo istruire nella lingua latina lo mandò dapprima al Guarino e quando questi
in un paio di mesi gl'insegnò i primi elementi, egli lo mantenne del proprio
alla scuola di Vittorino da Feltre. Degno di nota è che Giorgio, mentre
confessa di non aver appreso dal Guarino se non i primi elementi del latino,
dichiara implicitamente che per lo innanzi, in onta a tutta la sua dottrina,
quella lingua gli era rimasta al tutto straniera. Ma appunto per questo reca
tanto maggior meraviglia il vedere che egli in circa tre anni se ne impadronì a
tal segno da poter insegnare pubblicamente anche la letteratura latina e la
rettorica.
Per tal modo il Trapezunzio se fu sottratto alla necessità di
guadagnarsi il suo pane come copista, incominciò invece la vita del maestro
girovago. Le qualità didattiche non gli facevano certamente difetto, ma lo
rendevano dovunque intollerabile i lati odiosi del suo carattere, la sua boria,
le sue millanterie e la sua indole battagliera. Meglio che altrove sembra
avergli arriso la fortuna a Venezia, dove fece le sue prime prove
nell'insegnamento. Il Traversari, che lo imparò a conoscere quivi, n'ebbe
l'impressione di un uomo versato anche nel latino, molto zelante e schietto.
Vero è che allora ciascun dei due aveva interesse di avvicinarsi all'altro:
Giorgio desiderava di esser chiamato per mezzo del camaldolese con un lauto
stipendio allo Studio di Firenze, e il Traversari cercava un uomo col quale
poter soppiantare e sostituire l'odiato Filelfo. Non si sa quale motivo abbia
indotto il greco a lasciare Venezia, ma forse più di tutto lo spingeva il
desiderio naturale di sperimentare le proprie forze in una università. Più
tardi noi lo troviamo anche a Padova, e si dice perfino che sia stato a Vicenza
quantunque quivi non vi fosse università alcuna, e probabilmente egli tentò la
sua fortuna anche altrove. Fu in questo tempo che s'impegnò in una contesa col
Guarino, che gli tirò addosso molto biasimo, perché egli si avventò contro un
maestro universalmente venerato come contro uno scolaretto, per sola smania di
mordere e di farsi strada da sé. Motivi personali non v'erano: ma si sa che
l'alunnato del greco preso il Guarino non durò che un paio di mesi. Ora nel
quinto libro della sua Rettorica egli cominciò a spennacchiare un discorso sul
Guarino, gli rinfacciò parecchie mende ed errori nel collocamento delle parole
e lo additò in generale come uomo che nelle regole della retorica non sapeva
verbo. Un discepolo del Guarino, Andrea Agasone, si levò a difesa del maestro.
Giorgio scrisse un'invettiva contro quest'ultimo, sotto il nome del quale
presumeva che si nascondesse il Guarino, e mandò una lettera al principe
Lionello d'Este, discepolo del Guarino, dando libero corso in ambedue gli
scritti alle contumelie e alle calunnie. Al tempo stesso il Trapezunzio parlava
di sé con ridicola presunzione, affermando che il Guarino stesso avrebbe dovuto
confessare che egli scriveva in latino con altrettanta freschezza e proprietà,
come se fosse nato a Roma e vissuto al tempo di Cicerone. Era questa la prima
contesa del Trapezunzio alla quale dovevano tener dietro tante altre. Ma essa
gettò molto discredito sul suo nome. Il Poggio stesso, che pure si trovava in
lotta col Guarino per la questione di Scipione e di Cesare e che pure stimava
altamente il Trapezunzio, non gli tacque che avrebbe dovuto sperimentare le
proprie forze in una controversia più onorevole, e in quanto all'avere Giorgio
attribuito lo scritto di Agasone senz'altro al Guarino, egli non si pronunziò
chiaramente, anzi si servì di una espressione a doppio senso. Ben presto avremo
occasione di narrare come per l'appunto egli stesso doveva venire ancor più
accanitamente alle prese con quel greco.
Il Barbaro aveva da lungo tempo raccomandato il Trapezunzio alla Curia
come uomo specialmente acconcio agli scopi dell'unione coi greci, e che aveva
già abbracciato la confessione romana coll'ardore di un vero neofita. Come
questi abbia cominciato ad insegnare a Firenze al tempo del Concilio e come
divenisse poi segretario apostolico e professore all'università di Roma, è
stato già narrato più sopra. Sino a che visse il papa Eugenio, egli si sostenne
con buona fama nella cattedra di logica e di dialettica, e principalmente in
quella di rettorica ed eloquenza. Se abbia insegnato anche il greco non si sa:
a Roma nessuno se ne interessava, e non si sa nemmeno di alcuno, che venga
designato come suo discepolo. In sostanza pare che, nonostante questo, egli
menasse quivi una vita povera e stentata.
Ora con Niccolò V sorse per lui una stella assai più propizia. vero che all'università egli fu
soppiantato, come sappiamo, dal Valla, in guisa che alla fine del semestre
estivo del 1450 si ritirò spontaneamente dall'insegnamento. Ma questa rinuncia
sembra averlo addolorato assai poco, e che egli abbia soggiaciuto al proprio
rivale, non era forse che una semplice supposizione del Valla. Per converso
nelle traduzioni, di cui il papa lo incaricò, trovò una fonte di guadagni
maggiori. Egli parve addirittura l'uomo che il papa cercava, pronto a servirlo
nel doppio campo della letteratura greca sacra e profana e padrone delle
eleganze latine, e oltre a ciò lavoratore sollecito, che non faceva mai
aspettare l'impaziente suo mecenate. Da ciò si comprende assai facilmente come
il Trapezunzio per alcuni anni abbia potuto essere il favorito del papa. Mentre
altrove i traduttori duravano fatica a trovare un protettore, che meritasse
degnamente le loro dediche, e mentre anche papa Niccolò d'ordinario non dava
che singoli incarichi a suoi dotti, Giorgio era sopraffatto di
commissioni, come se il papa non fosse mai sazio di ricever libri dalla sua
penna. La sua prima traduzione (era quella dei libri di Eusebio della
Preparazione evangelica), fu accolta dal papa con insolito favore. Prendi, prendi! Non sempre troverai un
Niccolò, gli disse egli, regalandogli contro
ogni sua speranza una forte somma di danaro, che fece rimanere Giorgio come
trasognato. Il papa non aveva ancora il minimo sospetto del nessun valore di
quel lavoro. Seguirono l'opera di Cirillo sulla Trinità e il suo Commento
all'evangelo di Giovanni, oltre a ciò le Omelie del Crisostomo, tradotte tutte
con quella noncuranza, che può aspettarsi da un traduttore precipitoso, che non teme nessun sindacato. Anche il
libro di Aristotele sugli Animali, al quale era andato innanzi quello della
Rettorica del medesimo, cade in un tempo anteriore al 1450 e nello spazio di
due anni insieme con le altre opere surriferite. Poi per desiderio espresso del
papa fu tradotto il libro di Platone intorno alle Leggi e dedicato anch'esso
allo stesso patrono pur sempre benevolo. Un nuovo incarico porta la data del
marzo del 1451 ed era la traduzione dell'opera principale astronomica di
Tolomeo, il così detto Almagesto, con gli antichi commenti che vi vanno uniti.
Al principio di dicembre l'una cosa e l'altra era pronta, ma il lavoro era
fatto così infamemente, che il papa gli tolse per sempre la sua grazia e la
fortuna del Trapezunzio finì del tutto.
Già ancora contro la traduzione di Eusebio erano stati sollevati dei
gravi dubbi. Bensì si vuole che il papa gli avesse permesso di lasciar da parte
alcuni punti, che sembravano contrari alla dottrina ortodossa della Trinità. Ma
si era scoperto altresì che il traduttore aveva sfacciatamente lasciato da
parte anche altri punti, che non gli piacevano, ne aveva introdotto alcuni di
suo arbitrio e aveva svisato interi capitoli. Il Bessarione e il Perotti misero
il papa in sull'avviso contro una tale ciurmeria. Un segno manifesto del suo
malcontento fu l'aver egli dato il libro a rivedere ad un certo Andrea
Contarini. Fra i letterati non era più un segreto la leggerezza, con la quale
Giorgio fabbricava le traduzioni al solo scopo di averne presto la ricompensa.
Lo strazio fatto dell'Almagesto e del Commento fu messo in chiaro
principalmente dal Perotti e pare che abbia fatto ribollire il sangue del papa.
Può darsi che su quel giudizio abbiano influito le molte inimicizie, che il
Trapezunzio s'era tirato addosso. Il 4 maggio del 1451 accadde la scena
scandalosa col Poggio, che narreremo più innanzi. Forse nell'aprile del 1452 il
disgraziato greco ebbe l'ordine di lasciar Roma; Niccolò non volle né
accordargli udienza, né dare ascolto alle preghiere altrui. Giorgio si
trasportò co suoi due figli e con cinque figlie a
Napoli nella più grande miseria. Un piccolo peculio, che egli aveva messo
insieme, e le somme che i suoi figli ricavarono dalla vendita del loro ufficio
nella Curia, andarono perdute per fallimento di alcuni commercianti. Bensì lo
sdegno del papa si mitigò poi alquanto: siccome il Barbaro, che era rimasto
sempre il protettore del Trapezunzio, si fece suo intercessore, e siccome anche
il Filelfo nell'udienza del 19 luglio 1453 si adoperò vivamente a suo favore, e
siccome da ultimo il Poggio nel maggio di questo anno aveva lasciato Roma, così
Niccolò concesse al disperato greco il ritorno, ma non lo rimise più nella sua
grazia e non accettò più da lui veruna traduzione.
I giorni della prosperità pel Trapezunzio erano passati. Egli rimase
bensì segretario apostolico anche sotto Callisto e Pio. Ma lo spirito
battagliero, l'invidia e la mordacità crescevano ogni dì più in lui. Egli si
vide ben presto circondato di nemici da ogni parte, molto più che s'era reso
inviso anche a suoi compatriotti come zelante
peripatetico e avversario di Platone. Sotto Callisto III egli dovette nel 1458
lasciar Roma per la seconda volta, perché nel suo Paragone dei filosofi Aristotele e
Platone si era beffato del Bessarione. Allora
egli si trattenne per un certo tempo a Venezia. E se anche sotto Pio gli fu
permesso novamente di tornare a Roma, vi stette tuttavia, già vecchio, in un
assai triste isolamento. Nel colmo della disperazione gli balenò l'idea di
offrire i suoi servigi al sultano Maometto. Egli gli mandò lettere piene delle
più inaudite proteste ed adulazioni, lo chiamò imperatore dei romani, massimo
di tutti i regnanti che vissero, imperatore degli imperatori, provvidamente
mandato sulla terra dal volere di Dio. Egli pretendeva di aver trovato nella
Bibbia, che uno della stirpe del Sultano avrebbe riunito in solo regno tutti i
paesi della terra. Anzi si persuadeva ogni dì più, che il Sultano stesso
dovesse diventare signore e padrone di tutto il mondo. Le lettere vennero a
cognizione del pubblico, e anche questa volta fu il Perotti quello che scoperse
e mise in luce simili follie. Ma in sostanza l'affamato cretense non
voleva aver dal Sultano che del danaro. Egli continuò a far traduzioni,
specialmente di opere aristoteliche ed altro, ma durava gran fatica a trovar
mecenati per le sue dediche, e quasi non vi si badava più, tanto che questi
lavori rimasero quasi tutti inediti. Egli cercò altresì di portare sul mercato
i suoi libri anteriori con nuove dediche: così, ad esempio, dedicò ancora una
volta al Consiglio di Venezia il libro di Platone sulle Leggi, l'Almagesto, già
libro delle sue sventure, al re Ferdinando di Napoli ed anche al papa Sisto IV,
ed oltre a ciò lo offerse al Sultano Maometto come opera nuova. Egli
sopravvisse lungamente alla fama de suoi giovani anni, raggiunse quasi i 90
anni e morì a Roma il 12 agosto del 1484. Da ultimo era rimbambito del tutto,
aveva perduto la memoria e lo si vedeva andare attorno da solo per la città in
vesti logore e appoggiandosi ad un bastone nodoso.
Rivale nell'arte del tradurre e quindi naturalmente uno de suoi molti nemici era Teodoro Gaza da
Salonicco. Ma egli venne in Italia oltre un decennio più tardi e moveva da
Costantinopoli, dove già da lungo pare che tenesse una scuola o coprisse un
ufficio ecclesiastico, poiché il Filelfo imparò a conoscerlo quivi. Della
lingua latina era ignaro al pari del Bessarione e del Trapezunzio. Così anche a
lui, come a questo, non rimase altro da fare, fuorché adagiarsi sui banchi
della scuola di Vittorino a Mantova. Spingendo molto alacremente gli studi, egli
pure in tre anni giunse a tal grado di cultura da poter non solo maneggiare con
assoluta padronanza la lingua latina, ma da trattarne con maestria le più
squisite eleganze e tutti gli artifici rettorici. Senza dubbio egli si
assoggettò alle credenze religiose di Roma, ma, sebben prete, non confermò,
come gli altri suoi compatriotti la sua conversione con nessuno scritto
polemico sulla processione dello Spirito Santo. Grande onore fu per lui che,
appena uscito dalla scuola di latino, venisse nominato professore di lingua
greca nello Studio recentemente aperto di Ferrara, probabilmente per gli uffici
del Guarino, e che ben presto anche a Firenze gli mettessero gli occhi addosso.
Allora egli pensava ancora di tornare di tornare in Grecia, ma non pare che abbia
riveduto la sua patria neanche con una visita passeggera. Ebbe poi su lui
un'influenza decisiva il fatto che Niccolò V nel 1450 lo chiamò con lauto
stipendio alla cattedra di filosofia in Roma, ch'egli tenne per parecchi anni,
senza però destare tutto quel plauso, che aveva suscitato a Ferrara. Più che
tutto, il papa voleva servirsi di lui per la traduzioni, che tanto aveva care;
infatti egli tradusse per lui i problemi della Meccanica e poi la Storia degli
animali di Aristotele: quest'ultima opera era stata già tradotta dal
Trapezunzio, il quale ora concepì un odio irreconciliabile contro il Gaza.
Sembra anche che allora egli avesse cominciato altresì il libro di Teofrasto
intorno alle Piante. Più tardi a questi fe seguire una serie considerevole di
lavori simili. Quantunque in tempi posteriori si sia preteso di trovare che le
sue traduzioni non meritavano il plauso di cui godettero, e che egli aveva
abbellito coi fiori della rettorica Aristotele a spese della fedeltà, tuttavia
a quel tempo il suo lavoro fu sommamente ammirato. Il Filelfo, che però gli fu
sempre amico fedele, lo diceva il più dotto, il più celebre e il più modesto
fra tutti i greci. Egli assicurava che non avrebbe per tutti i tesori del mondo
ceduto a nessuno l'Iliade trascritta di mano del Gaza. Il Platina affermava che
questi scriveva il latino in guisa tale, che nessuno avrebbe in lui sospettato
un greco di nascita. Paolo Giovio sentenziò, che non si potea dire se egli
traducesse meglio dal latino in greco o dal greco in latino, e che aveva saputo
felicemente riprodurre in greco la maestosa eloquenza di Cicerone.
Ma con tutta questa fama e per quanto fra tutti i greci fosse il più il
più rispettato ed amato, il Gaza rimase per tutta la vita un semplice prete,
che avendo da provvedere soltanto alla propria persona, fu sempre lasciato in
condizioni poverissime. Egli non conosceva l'arte del farsi largo e di
corteggiare; nella vita pratica era inesperto come un fanciullo. Quando papa
Niccolò morì, la sua posizione era così misera, che non poté più sostenersi a
Roma. Trovò, è vero, onorevole accoglienza ed aiuto a Napoli presso il re
Alfonso, ma, a quanto pare, pel solo tempo che questi visse. Non si sa quando
sia tornato a Roma. Quivi il solo suo protettore fu il Bessarione, che lo
accolse amichevolmente e gli procurò la piccola badia o parrocchia di san
Giovanni a Piro in Calabria, cedendogliela come suo vicario. Imperocché il
professorato nello Studio romano, per quanto fosse onorevole, lasciava morire
di fame il titolare. Ciò non ostante, per quanto dura gli fosse stata dovunque
la vita e per quanto lo tormentasse sino alla fine il desiderio di rivedere la
patria greca, l'esistenza gli divenne insopportabile in quella solitaria
parrocchia e non trovava consolazione alcuna, quando gli amici gli dicevano che
egli dimorava sul suolo della Magna Grecia. Il suo desiderio incessante era di
tornare a Roma, dove avrebbe trovato libri e dotti amici.
Non v'ha alcun dubbio che il Gaza dimorò a Roma sotto il pontificato di
Paolo II e di Sisto IV. Molti suoi scritti importanti sono appunto di questo
tempo. E per quanto anche la posterità non vi abbia fatto attenzione, certo è
che egli ebbe una parte importantissima nelle prime edizioni dei classici, che
il vescovo di Aleria pubblicò a Roma in
società coi tipografi tedeschi. Egli fu il più vecchio e fidato collaboratore
di lui nella recensione dei testi. Plinio e Gellio in particolare vanno
debitori alle sue cure della forma, nella quale si diffusero universalmente gli
esemplari stampati delle loro opere. E qui torna in acconcio di ricordare
ancora una volta che anche il vescovo di Aleria, al pari del Gaza, ebbe il
primo indirizzo a tali studi nella scuola di Vittorino, e forse l'intima
amicizia, che li teneva uniti, datava ancora da Mantova, dalla casa Giocosa.
singolare che un letterato così valente
e operoso godesse universalmente la stima de suoi uguali e tuttavia fosse del tutto
dimenticato dai grandi, che pure avevano fama di mecenati generosi. Su ciò
correvano molte dicerie; ma il fatto è che il Gaza malcontento si ritirò nella
sua parrocchia di Calabria e vi morì nel 1478. Pareva quasi che una maledizione
pesasse sus lui e sui migliori fra i greci: essi provarono quasi tutti sino
alla fine i dolori dell'esiglio.
Aggiungeremo per ultimo una parola intorno al bizantino Costantino
Lascaris, perché anch'egli apparteneva al gruppo degli amici più intimi del
cardinale Bessarione. Ma egli non venne in Italia se non dopo la conquista di
Costantinopoli e il momento più importante della sua attività cade in un'epoca,
che è fuori dei limiti assegnati alla presente opera. Fra tutti i greci egli è
quegli che imprecò più acerbamente contro l'avverso destino, che pesava su quei
fuggiaschi. In Italia gli parve di essere uno schiavo, condannato a tollerar
tutto, perché doveva provvedere alla propria famiglia. Perfino il mestiere
dell'amanuense, col quale in sul principio sembra si fosse aiutato, cessò di
essere una fonte di guadagno, quando l'arte tipografica si sostituì ai
manoscritti. Non restava altro espediente che l'istruzione assai malamente
retribuita. A Roma per l'appunto, dove erano accorsi tutti i greci, essi erano
riguardati come mendichi. Perciò il Lascaris concepì contro Roma un odio
violento, e non voleva nemmeno vedere questa Babele, sede di ogni male.
In generale dopo la caduta di Costantinopoli il numero dei greci sul
suolo italiano era eccessivo, per cui essi stessi si decisero di portare
altrove i tesori della propria sapienza. Anzi ben presto si rassegnarono a
sopportare il giogo del dominio turco, piuttosto che trascinare miseramente la
vita come spregiati maestri di scuola fra i latini.
Da GEORG
VOIGT, Il risorgimento dell'antichità classica ovvero il primo secolo
dell'umanismo, Firenze 1888, vol. II, pp. 99- , trad. di D. Valbusa.