© Christos Karuzos
I VIAGGI E
GLI ANTICHI
Il primo tipo di viaggiatore cui ci vien
fatto di pensare in maniera logica, e che è anche il primo dal punto di vista
storico, è il mercante. Questo tipo, con tutto il fascino dell'epoca arcaica,
presentatoci da Erodoto, è Coleo di Samo, nel 650-600 a. C. Capitano e mercante,
partì con la sua nave per l'Egitto, ma i venti lo spinsero sempre più a occidente
finché, per disposizione divina, raggiunse Gibilterra, superò le colonne d'Ercole
e approdò a Tartesso, presso Cadice, località leggendaria per le ricchissime
miniere in quel tempo ancora intatte. I samii di Coleo riempirono la nave
d'oro e, quando fecero ritorno alla loro isola, presentarono ricchissimi doni
all'Ereo, tra i quali figurava forse anche la loro nave fortunato: se quest'ultima
notizia corrisponde a verità, allora furono costruiti per la nave di Coleo
i sostegni in marmo rinvenuti durante gli scavi effettuati nel sito del santuario
di Era poco prima dell'ultima guerra mondiale.
Ignoriamo se i contemporanei di Coleo trassero
benefici dalle conoscenze raccolte durante quel viaggio. Tuttavia a questo
primo tipo di viaggiatore fa seguito il tipo del mercante che viaggia lontano
per raccogliere non solo ricchezze, ma anche molte conoscenze. Per ragioni
commerciali aveva intrapreso viaggi anche il milesio Talete, che i suoi concittadini ammiravano più per le conoscenze
nel campo della matematica e della astronomia che egli aveva acquisito in
Egitto e forse anche in altre parti dell'Oriente, che per la sua abilità nel
guadagnare denaro. Analoga figura di mercante è anche Solone, celebre al suo
tempo per la propria saggezza e per i viaggi che intraprese per arricchimento
spirituale. Da notare che lo stesso Platone, nel IV secolo, che certamente
viaggiò solo allo scopo di arricchirsi spiritualmente, quando partì per l'Egitto
caricò olio sulla nave per coprire le spese del viaggio.
Più imponente di tutti emerge l'arcaica figura
di Anassimandro. Seguace di Talete, è ancor prima di Eraclito il filosofo
più audace e più profondo del VI secolo a. C. Figlio anch'egli della celebre
Mileto, la città che divenne metropoli di molte decine di colonie, anch'egli
faceva parte di quella vivace moltitudine di mercanti, di proprietari di navi
e di aeinautai, quei magistrati
marittimi di Mileto che risiedevano su una nave, aveva viaggiato molto e fondò
la colonia di Apollonia, sul Ponto Eusino. Ma la ricca esperienza che egli
trasse dalla osservazione dei fenomeni del cosmo, il suo profondo spirito
la trasformò in maniera del tutto naturale in una kosmotheoria universale tipicamente greca, vale a dire in una struttura
che è lo straordinario perfezionamento logico, eseguito con somma audacia,
dell'esperienza. Non ci soffermeremo sulla sua filosofia (basata sul principio
dell'apeiron, l'infinito, che egli
per primo definì). Ma Talete fu anche colui che osò tracciare per primo una
mappa del mondo allora conosciuto. Alcuni elementi ci permettono di
ipotizzare come doveva essere più o meno quella carta: la terra circolare
(o cilindrica, non sferica), era circondata da un grande fiume, l'Oceano,
il padre di tutti i fiumi, la cui corrente non cessava mai di scorrerle tutto
intorno; una vasta estensione acquosa proveniente dall'Oceano, sfociava di
nuovo in esso e formava, da ovest verso est, disposti in linea quasi retta,
il Mediterraneo, il Ponto Eusino e il fiume Fasi che divideva la terra in
due emicicli, di cui quello settentrionale era l'Europa; ognuno dei due emicicli
era a sua volta diviso in due parti da un grande fiume: nella parte settentrionale
l'Istro (il Danubio), scorreva da nord verso sud (verso il Ponto Eusino);
nella parte meridionale, il Nilo scorreva nella direzione opposta, cioè da
sud verso nord (verso il Mediterraneo), dividendo l'emiciclo in due regioni,
la Libia e l'Asia.
A molti verrà voglia di sorridere di questa
mappa «primitiva» e delle cognizioni infantili del suo ideatore. Ma saranno
resi più cauti pensando agli innumerevoli errori che la scienza commette persino
ai giorni nostri. Bisogna infatti pensare che, senza quella mappa «infantile»,
non ci saremmo ancora staccati dalle cosmologie degli egizi e dei caldei (alcuni
diranno: magari!, ma questa è un'altra questione). E alla fine riconosceranno
che è degna della più grande ammirazione l'instancabile preoccupazione dello
spirito greco di cogliere attentamente i fenomeni, dar loro una pronta sistemazione
e un ordine spirituale per scoprirne le corrispondenze e il
significato; e ogni tanto controllare prontamente questa
struttura e correggerla con le nuove scoperte. La carta arcaica di Anassimandro
con la terra circolare circondata dall'Oceano e suddivisa in quattro mari
principali, dai fiumi e da chissà quanti altri particolari attualissimi, è
una delle belle dimostrazioni di quanto fosse grande la necessità che lo spirito
greco aveva di rhythmòs, ritmo,
ordine. Se la carta di Anassimandro ci fosse pervenuta, ci affascinerebbe
sicuramente quanto le statue e le pitture arcaiche.
Nonostante le grandi differenze qualitative
esistenti tra il tipo di Anassimandro, assai frequente nel periodo arcaico
(VI secolo a. C.), e quello classico (V secolo a. C.), vediamo che entrambi
sono caratterizzati dall'illimitato interesse spirituale tipico del greco,
interesse che s'innesta nelle azioni più quotidiane della vita e si sviluppa
in maniera straordinaria. In genere, nell'antica Grecia, e soprattutto nel
periodo in questione, l'azione pratica non è facilmente isolabile dall'attività
spirituale e mentale. A mano a mano che si procede verso il periodo ellenistico,
questo avverrà sempre più spesso, sempre più gradatamente. Il legame più profondo
che unisce le tre caratteristiche di cui abbiamo parlato, non si recide mai,
e costituisce il peculiare impulso – la necessità spirituale – che spinge
i greci a viaggiare, «a vedere con i propri occhi e a saziarsi».
Alessandro il Grande è il rappresentante
più straordinario di questo tipo, ma non era l'unico. All'incirca nello stesso
periodo (300 a. C.), Piteo di Marsiglia superò con la sua nave lo stretto
di Gibilterra e fu il primo, in tutto il mondo civilizzato, a spingersi fino
in Inghilterra e persino in Elgoland, la Danimarca; vide da lontano l'Islanda
e descrisse poi con straordinaria precisione (come assicurano oggi gli specialisti)
i luoghi da cui passò, e i fenomeni della natura e del cielo, incredibili
per un uomo del Mediterraneo, che vide con i propri occhi laggiù.
Il bisogno spirituale sempre più forte e
intenso di viaggiare (segno di un più profondo mutamento storico e psicologico)
crea, nei periodi ellenistico e romano, con uno sviluppo costante, il tipo
del periegeta che viaggia senza alcun reale scopo pratico, ma solo per soddisfare
la propria curiosità. Da un lato abbiamo quelli che si recarono in tutti i
luoghi famosi dell'antichità e ne descrissero i monumenti, come Polemone (III
sec. a. C.) o Pausania (II sec. d. C.): dal punto di vista intellettuale appartengono
a questa corrente più generica, ma le loro opere interessano più la storia
della scienza. Dall'altro lato, però, ora la gente viaggia molto di più e
molto più spesso in posti remoti. Si è calcolato che nel periodo imperiale
romano per andare, ad esempio, dalle Indie a Gibilterra, cioè da un'estremità
all'altra della terra allora conosciuta, ci volevano da due mesi e mezzo a
tre mesi. Dunque, non ci voleva molto più tempo di quanto ne occorre per fare
il giro del mondo oggi. Questo dimostra che dal punto di vista mentale e spirituale,
queste due epoche, quella della tarda antichità e quella dei tempi moderni,
sono analoghe (lo abbiamo detto anche all'inizio dell'articolo: analoghe,
non identiche).
Non v'è dubbio che nei successivi viaggi
dell'antichità il movente psicologico è, come lo è oggi, un appagamento psichico
più universale e un desiderio di fuga. Ma qui appare di nuovo la cromatismo
che distingue il mondo antico da quello moderno, cioè questo appagamento lo
congetturiamo piuttosto dagli eventi della vita spirituale antica, lo avvertiamo
mentre le conferisce il cromatismo; non lo vediamo mai isolato come particolare
esperienza spirituale. Nella letteratura antica non esistono versi analoghi
a questi di Baudelaire: (“Il viaggio”): «Amara conoscenza si ricava dal viaggio!
/ Il mondo, monotono e piccolo, oggi / come ieri, domani e sempre, ci mostra
la nostra immagine: / un'oasi d'orrore posta in mezzo a un deserto di noia!»,
versi che, a parte l'ultimo, somigliano molto a quelli di Costantino Kavafis
in “Monotonia”, “La città”. Il tipo del viaggiatore malinconico che sicuramente
non era sconosciuto nella tarda antichità, non si elevò mai realmente fino
alla regione dell'arte, perché nell'antichità la visione del mondo e della
vita, questa peculiare situazione spirituale non poteva essere isolata e coltivata
in maniera propria.
Precisamente questa caratteristica dell'interezza
ravvisiamo anche nel rapporto che gli antichi avevano col paesaggio. Espressioni
dei sentimenti dell'uomo davanti alla natura e ai suoi fenomeni ve ne sono
moltissime in tutta la letteratura antica e sono tali da far nascere una eccezionale
intensità spirituale in un soggetto sensibile. Questa tensione intellettuale
e psichica degli antichi è conservata integra nella forma epigrammatica che
le danno poeti e scrittori con pochi versi o con frasi concise. Ma questa
intensa partecipazione sentimentale degli antichi con la natura e il paesaggio
non divenne mai per i Greci antichi un tema per un particolare sviluppo. Il
Greco antico non isola mai queste cose dall'uomo, così che la vita e il destino
dell'uomo lo interessano di più. Nemmeno nell'ambito dell'arte gli antichi
Greci consideravano il paesaggio come un tema degno in sé e per sé, ma lo
consideravano soltanto nell'ambito delle attività umane; e allora lo rappresentavano
soltanto con dei segni, non gli davano uno sviluppo particolare.
Soltanto nelle poesie e nei romanzi di epoca
più tarda troviamo vere descrizioni del paesaggio scritte con particolare
interesse e con il preciso scopo di evidenziarne il carattere paesaggistico
(ad esempio in Dafne e Cloe, nelle
Etiopiche), ma anche in questi casi il
paesaggio è sempre in qualche maniera continuazione ed estensione della vita
umana - analogo con i paesaggi degli affreschi pompeiani.
Assai caratteristiche da questo punto di
vista sono alcune espressioni comuni ispirate dai sentimenti che provavano
gli antichi greci in determinati luoghi. Alcune le troviamo incise sui monumenti
antichi. Anche nell'antichità, dunque, come oggi, la gente soleva incidere
i nomi sui monumenti che andava a visitare. A Sunio, per esempio, proprio
sopra la celebre firma di Lord Byron, vi è il nome di un tale Zosimo di Focea.
Cosa sentisse Byron a Sunio lo sappiamo dai suoi versi. Ma anche Zosimo disse
qualcosa circa i propri sentimenti: «ejmnhvsqh Zwvsimo" Fwkaeu;" th'"...».
Qualunque fosse stato il sentimento suscitato in lui dal luogo in cui si trovava,
si trasformò subito in un ricordo. E il suo caso è tutt'altro che unico. Abbiamo
altri esempi epigrafici analoghi e anche Plutarco c'informa (la firma di Zosimo
risale agli stessi anni) che spesso sui monumenti si leggevano incisioni quali:
ejmnhvsqh
oJ dei'na tou' oppure th'" dei'no" ejp’
ajgaqw/' fivlwn a[risto" o{de ti"... ecc.
Ma abbiamo qualcosa di meglio, e di più antico,
un epigramma del III sec. a. C., rinvenuto dall'illustre archeologo N. Papadakis.
Si trova nei pressi di Lidoriki, in cima a un monte. Qualcuno, salito fin
lassù a tagliar legna o a pascolare il proprio gregge in una giornata di bel
tempo, si accorse che la neve sui monti si stava sciogliendo, l'aria si era
già fatta tiepida. Allora, preso un coltello o un chiodo, incise con lettere
poco profonde e in maniera maldestra su una pietra i seguenti versi:
Come la neve sui
monti mi sciolgo per la bionda
Manasarò,
la
bella sarta; oh mio miele, penso molto a te perché sei così bella.
Da O Mentor, anno VI, 28, 1993, pp. 204-208.
Trad. dal neogreco di
Mauro Giachetti.