©MAURO GIACHETTI

 

 

 

 

 

 

 

 

 

COSTANTINO KAVAFIS

E BISANZIO

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

COSTANTINO KAVAFIS E BISANZIO

 

 

 

CAPITOLO IV

 

 

GIULIANO L'APOSTATA

NELL'OPERA POETICA DI

COSTANTINO KAVAFIS*

 

 

 

 

     In una compagine storica ampia e variegata quale il Millennio bizantino, vi furono fatalmente periodi di crisi e di transizione. Precisamente tali periodi, grazie ai quali sono individuabili in maniera netta non solo gli elementi di vulnerabilità, ma anche quelli che determinano la stabilità della complessa realtà di un dato periodo, costituiscono, sia per lo storico accademico che per un poeta come Kavafis, il quale era solito definirsi poeta storico, le circostanze più propizie tramite le quali effettuare analisi al fine di penetrare meglio nella vera sostanza di cui è fatta la storia. E se nella storia dell'umanità vi furono innumerevoli periodi di crisi, di transizione e di trasformazione, nessuno di essi fu forse più tragico di quello corrispondente al IV secolo d. C., allorché ebbero luogo simultaneamente eventi drammatici quali il tramonto del mondo tardoantico, il conflitto tra paganesimo e cristianesimo e, per di più, conflitti che causarono dolorose lacerazioni nel tessuto del cristianesimo stesso il quale, però, era destinato a trionfare sull'idolatria.

     Ma quel trionfo fu un fenomeno tutt'altro che repentino e l'evoluzione delle cose in tale direzione era ormai in atto da secoli. Gli speciali provvedimenti adottati in misura sempre crescente in favore del cristianesimo da Costantino il Grande pur nell'ambito del rispetto formale della religione pagana e, via via, dai suoi immediati successori, a eccezione di Giuliano l'Apostata, non costituirono un avvenimento estemporaneo, bensì la coerente soluzione di problemi preesistenti che avevano raggiunto il momento opportuno per essere risolti in maniera sistematica.[1]

     Si trattò del compimento di un processo storico le cui origini risalivano principalmente alla crisi causata dai mutamenti prodottisi con il nuovo assetto politico determinato dalle conquiste territoriali della spedizione panellenica di Alessandro Magno e, dopo la sua morte, dalla creazione dei regni dei Diadochi. Il declino delle antiche istituzioni etiche, religiose e politiche peculiari delle povlei", le città-stato, già in atto da tempo, venne accelerato, e la pressoché totale scomparsa dell'indipendenza dei nuclei urbani non significò solamente la perdita delle libertà politiche, ma anche lo smarrimento della dimensione politica, nel senso più strettamente etimologico del termine. E tutto ciò ebbe profonde ripercussioni nella sfera della disciplina collettiva del pensiero, delle emozioni e della religiosità.[2] Già sul finire del IV secolo a. C., ad esempio, Evemero da Messana era stato accusato di ateismo a causa della sua dottrina razionalistica secondo la quale gli dei non erano che uomini eccezionali, divinizzati in virtù delle grandi gesta compiute.[3]

     L'ormai inadeguato collettivismo religioso degli agonizzanti culti poliadi e la moltitudine sempre più confusa delle divinità pagane, non riuscivano più ad acquietare i turbamenti spirituali che, negli uomini, tendevano ad assumere tratti caratterizzati da un individualismo e da uno scetticismo sempre maggiori. Tale scetticismo fu una delle cause della rapida diffusione di culti quali quello di Tyche, divinità incostante per eccellenza, favorito, oltre che dall'affievolirsi del fervore per le religioni tradizionali, anche dal fatto che prevalse il disorientamento nell'animo di innumerevoli individui che, sradicati dal ristretto orizzonte della propria polis e, di conseguenza, privati di elementi apparentemente rassicuranti quali i miti, il teatro e l' ajgoravv,[4] costituenti la familiare atmosfera della propria città natale, si trovarono disseminati, insieme alla Koinh; JEllhnikh; Laliavv, la Comune Lingua Greca, in una immensa diaspora le cui propaggini si estendevano dall'Egitto fino alla Battriana e all'India.

 

E dalla spedizione panellenica, fulgida,

vittoriosa, mirabile,

celebrata, gloriosa,

come nessuna s'ebbe gloria mai,

da quella incomparabile spedizione, sortimmo,

novello mondo greco, e grande, noi.

 

    Kavafis pone queste parole sulle labbra di un greco della diaspora il quale, nel 200 a. C., contempla quel «nuovo, grande mondo ellenico» da cui, paradossalmente, Atene e Sparta sono pressoché totalmente e kavafianamente assenti.

 

 

STA 200 p. C.

 

« jAlevxandro" Filivppou kai; oiJ {Ellhne" plh;n Lakedaimonivwn - »

 

Mporou'me kavllista na; fantasqou'me

pw;" q ajdiafovrhsan pantavpasi sth;n Spavrth

gia; th;n ejpigrafh;n aujthv.«Plh;n Lakedaimonivwn»,

ma; fusikav. De;n h\san oiJ JSpartia'tai

gia; na; tou;" oJdhgou'n kai; gia; na; tou;" prostavzoun

sa;n polutivmou" uJphrevta". [Allwste

mia; panellhvnia ejkstrateiva cwri;"

Spartiavth Basileva gi ajrchgo;

de;n qa; tou;" faivnontan pollh'" periwph'".

 \A bebaiovtata «plh;n Lakedaimonivwn».

 

Ei\nai ki aujth; mia; stavsi". Noiwvqetai.

 [Etsi, plh;n Lakedaimonivwn sto;n Granikov:

kai; sth;n jIsso; metav: kai; sth;n teleiwtikh;

th;n mavch, o{pou ejsarwvqhv oJ fobero;" strato;"

pou; st  [Arbhla sugkevntrwsan oiJ Pevrsai:

pou; ajp  t  [Arbhla xekivnhse gia; nivkhn, k  ejsarwvqh.

 

Ki ajp  th;n qaumavsia panellhvnian ejkstrateiva,

th;n nikhfovra, th;n perivlamprh,

th;n perilavlhth, th;n doxasmevnh

wJ" a[llh de;n doxavsqhke kamiav,

th;n ajparavmillh: bghvkam ejmei'":

eJllhniko;" kainouvrgio" kovsmo", mevga".

 

 jEmei'": oiJ jAlexandrei'", oiJ jAntiocei'",

oiJ Seleukei'", k oiJ poluavriqmoi

ejpivloipoi {Ellhne" Aijguvptou kai; Suriva",

k oiJ ejn Mhdiva/, k oiJ ejn Persivdi, ki o{soi a[lloi.

Me; te;" ejktevtamevne" ejpikravteie",

me; th;n poikivlh dra'si tw'n stocastikw'n prosarmogw'n.

Kai; th;n Koinh;n JEllhnikh;n Lalia;

wJ" mevsa sth;n Baktrianh; th;n phvramen, wJ" tou;" jIndouv".

 

Gia; Lakedaimonivou" na; milou'me twvra![5]

 

     Intensificatosi nelle coscienze individuali il senso della imprevedibilità di circostanze determinate fortuitamente dalla sorte, si intensificò anche la costruzione di templi a Tyche, e mentre le antiche divinità furono sentite sempre più remote, prese a diffondersi il convincimento che esse fossero divenute indifferenti verso le aporie degli uomini. Talvolta la fortuna assunse il ruolo di protettrice di città: rinomata tra tutte la Tyche di Antiochia che Eutichide di Sicione, allievo di Lisippo, scolpì nel marmo raffigurandola in atteggiamento altero, su di una rupe simboleggiante il monte Silpio, la testa cinta da una corona turrita, con il piede sul fiume Oronte domato.[6]

     Quando  il  fervore religioso,  non  del  tutto  estinto,  tornò  a  prevalere  sullo  scetticismo,  un  ardente desiderio di salvezza spirituale e una grande speranza in una vita eterna dopo la morte si manifestarono tra le moltitudini. L'antica religione, già mostratasi del tutto insufficiente a soddisfare le nuove esigenze spirituali, venne sostituita da altre pratiche a carattere soteriologico e universalistico nelle quali era tutt'altro che arduo intravedere sollecitazioni a tendenza monoteistica. Nel II secolo a. C. Posidonio di Apamea aveva dato il via a una corrente filosofica con la quale egli si prefiggeva di stimolare la rinascita della religiosità.[7]

     Con l'intensificarsi della decadenza del culto degli antichi dei, acquisì una importanza sempre maggiore, in ispecie sul finire del periodo ellenistico, il culto di origine orientale - ereditato da Alessandro - tributato ai sovrani che, divinizzati da vivi, e quindi immediatamente visibili e considerati per questo più rassicuranti e affidabili delle tradizionali divinità poliadi, sostituirono queste ultime su scala statale, assumendo sempre più sovente epiteti quali swthvr, ejpifanhv", eujergevth", Qeov". I sovrani dei regni ellenistici, una volta divinizzati, ebbero il proprio posto nel pantheon divenendo, in tal modo, una sorta di prodromi del Salvatore e del Messia che, di lì a poco, si sarebbe fatto uomo per redimere l'umanità.[8]

     Intorno alla fine del periodo ellenistico l'assuefazione a tali mescolanze fra divinità e regalità era giunta al punto che quando, nel 41 a. C., Marco Antonio entrò in Efeso, il popolo inneggiò a lui quale Dioniso Evergete.[9] Allorché Cleopatra raggiunse Antonio a Tarso, in Cilicia, essa risalì il fiume Cidno a bordo di una nave dalla poppa d'oro e con le vele purpuree spiegate al vento; i rematori vogavano contro corrente con remi d'argento al suono di un flauto, di liuti e di zampogne; la regina d'Egitto, sdraiata sotto un sopraccielo ricamato d'oro, era ornata come le Afroditi, e uno sciame di fanciulli schiavi le facevano vento ai due lati del baldacchino, mentre le più belle delle ancelle, acconciate come Narcisi e Grazie, stavano le une sui pennoni, le altre sopra la barra del timone; effluvi meravigliosi d'incenso si spandevano lungo le rive del fiume gremite di folla intanto che la nave passava, e in mezzo a quella moltitudine attonita si diffuse la notizia che Afrodite si recava a Tarso per unirsi a Dioniso per il bene dell'Asia.[10]

     E giunti ormai alla vigilia della battaglia di Azio, nella quale Antonio sarebbe stato definitivamente sconfitto, Plutarco narra che all'improvviso, verso mezzanotte, in Alessandria si credette persino di udir passare il tiaso del dio che abbandonava Antonio.

 

     « jEn tauvth/ th'/ nuktiv, levgetai, mesouvsh/ scedovn, ejn hJsuciva/ kai; kathfeiva/ th'" povlew" dia; fovbon kai; prosdokivan tou' mevllonto" ou[sh", aijfnivdion ojrgavnwn te pantodapw'n ejmmelei'" tina" fwna;" ajkousqh'nai kai; boh;n o[clou meta; eujasmw'n kai; phdhvsewn saturikw'n, w{sper qiavsou tino;" oujk ajqoruvbw" ejxelauvnonto": ei\nai de; th;n oJrmh;n oJmou' ti dia; th'" povlew" mevsh" ejpi; th;n puvlhn e[xw th;n tetrammevnhn pro;" tou;" polemivou", kai; tauvth/ to;n qovrubon ejkpesei'n plei'ston genovmenon. jEdovkei de; toi'" ajnalogizomevnoi" to; shmei'on, ajpoleivpein oJ qeo;" jAntwvnion, w'J/ mavlista sunexomoiw'n kai; sunoikeiw'n eJauto;n dietevlesen.»[11]

 

     Attento lettore di Plutarco, Kavafis trasse ispirazione da questo passo della Vita di Antonio e, nel 1910, compose una delle sue liriche più sublimi, “Il dio abbandona Antonio”. Se nel titolo e nei primi tre versi della lirica riecheggiano pressoché pedissequamente le parole di Plutarco, il resto della poesia, in cui sono ravvisabili concetti stoici ed epicurei, costituisce un mirabile inno alla dignità, specialmente nei momenti di maggiore avversità, i quali non devono essere un pretesto per rimpiangere le trascorse gioie, bensì una occasione per mostrar gratitudine persino dell'ultima, dell'estrema gioia che Alessandria - e la vita - si degnano di concedere. Secondo Seferis, inoltre, in alcuni di questi versi sono ravvisabili accenti che rimandano ai colloqui di Marco Aurelio eij" eJautovn.[12]

 

Sa;n e[xafna w{ra mesavnuct ajkousqei'

ajovrato" qivaso" na; perna'

me; mousike;" ejxevsie", me; fwnev"

th;n tuvch sou pou; ejndivdei piav, ta; e[rga sou

pou; ajpevtucan, ta; scevdia th'" zwh'" sou

pou; bgh'kan o{lla plavne" mh; ajnwfeleta qrhnhvsei".

Sa;n e{toimo" ajpo; kairov, sa; qarralevo",

ajpocairevta thn, th;n jAlexavndreia pou; feuvgei.

Pro; pavntwn na; mh; gelasqei'", mh;n pei'" pw;" h\tan

e{na o[neiro, pw;" ajpathvqhken hJ ajkohv sou:

mavtaie" ejlpivde" tevtoie" mh;n katadecqei'".

Sa;n e{toimo" ajpo; kairo;, sa; qarralevo",

sa;n pou; tairiavzei se pou; ajxiwvqhke" mia; tevtoia povli,

plhsivase staqera; pro;" to; paravquro,

ki a[kouse me; sugkivnhsin ajll o[ci

me; tw'n deilw'n ta; parakavlia kai; paravpona,

wJ" teleutaiva ajpovlausi tou;" h[cou",

ta; ejxaivsia o[rgana tou' mustikou' qiavsou,

ki ajpocairevta thn, th;n jAlexavndreia pou; cavnei".[13]

 

     È inoltre degno di nota che mentre, in Plutarco, Antonio viene abbandonato dal dio che era stato suo patrono fino al giorno innanzi, Kavafis, genialmente, deifica Alessandria facendole assumere il ruolo di Dioniso precisamente nel momento supremo in cui Antonio viene abbandonato dal proprio nume protettore, diserzione messa ancor più in risalto dall'improvviso passare dell'invisibile tíaso di baccanti e di musici. Con tale poesia Kavafis sembra voler suggerire che Alessandria ha posseduto sempre il divino potere di commuovere e di turbare - per mezzo di immagini poetiche - gli animi di coloro che la Città ha ritenuto degni di ricevere tale dono che, tuttavia, essa può sottrarre in qualsiasi momento, nello stesso modo inopinato con cui lo aveva concesso.[14]

     “Il dio abbandona Antonio” fu scritta nel 1910 e pubblicata l'anno successivo. Kavafis selezionò meticolosamente le poesie composte anteriormente a tale data, rifiutò la maggior parte di esse, corresse e rielaborò - talvolta anche a distanza di anni dall'epoca della prima stesura - le poche che decise di serbare finché esse assumevano la forma definitiva. Tutto ciò avveniva non solo per motivi di natura stilistica o linguistica ma, come vedremo, per una scrupolosità davvero inaudita, trattandosi di un poeta, rispetto all'esattezza delle fonti storiche da cui egli traeva ispirazione e che verificava con grande zelo.[15]

     Giorgio Seferis per primo, nel 1946, aveva intuito che gli anni intorno al 1910 avevano costituito un periodo cruciale per lo sviluppo poetico di Kavafis, e suggerì che, a partire dalle liriche composte in tale epoca, l'opera dell'Alessandrino doveva esser letta non come una sequela di poesie indipendenti le une dalle altre, bensì come un work in progressche solo la morte avrebbe suggellato. Seferis riteneva inoltre che Kavafis fosse il poeta più difficile della letteratura greca contemporanea e invitava, per capirlo meglio, a leggerlo senza perdere mai di vista la sostanziale integrità della sua opera.[16]

     Il sistema filosofico-religioso degli stoici venne sviluppato ulteriormente, nel III secolo dell'era cristiana, da Giamblico di Calcide in Celesiria, allievo di Porfirio, e una delle opere di Giamblico pervenutaci, il trattato De mysteriis (Sui misteri), opera filosofico-teologica degna di grande attenzione, dimostra che Giamblico intendeva dar vita a una organizzazione ecclesiastica pagana per combattere quella cristiana.

     Tra il 1892 e il 1989, Kavafis compose sei poesie e ne registrò i titoli  nel capitolo tematico “Gli Inizi del Cristianesimo”.[17] Soltanto una di esse ci è pervenuta, l'inedita   “Giuliano ai Misteri”, mentre “La croce”, composta nel settembre 1892 e revisionata nel marzo 1917, costituiva verosimilmente la prima stesura di “Gran processione d'ecclesiastici e laici”), che sarà pubblicata nel 1926. I titoli delle altre quattro liriche sono “Il ritorno di Knos” (composta giugno 1892), “La  tentazione del monaco siriano Taddeo” (composta luglio 1892, revisionata dicembre 1902), “Porfirio” (composta settembre 1892), “Santo Stefano” (composta gennaio 1898).[18]

    Nel periodo in cui Kavafis componeva “Porfirio, aveva certamente dimestichezza con la fonte storico-letteraria riguardante tale filosofo, vale a dire la Vita di Porfirio di Eunapio, giacché  nella biblioteca del Poeta alessandrino vi è l'edizione Boissonade del 1878 delle Vite dei filosofi e dei sofisti che comprende anche le Vite dei filosofi di Filostrato.[19] Kavafis, inoltre, aveva accennato a tale opera in un  articolo intitolato Dotti greci i case romane, pubblicato il 27 ottobre 1896 sulla rivista alessandrina O Kosmos: « JO Filovstrato" kai; oJ Eujnavpio" kai; a[lloi ajrcai'oi suggrafei'" ma'" divdoun mivan ijdevan th'" megavlh" qevsew" h}n katei'con oiJ {Ellhne" lovgioi ejn Rwvmh/, kai; tw'n uJyhlw'n politikw'n  ajxiwmavtwn a{tina polu; sucna; ejpedayivleuen eij" aujtou;" hJ Rwma:i:kh; politeiva.»[20]

     G. Paputsakis, che nel 1963 ripubblicò ad Atene il suddetto articolo, osservò che Kavafis nutriva grande ammirazione per Filostrato di Lemno e per Eunapio di Sardi, queste due grandi figure rappresentative dell'estremo splendore del mondo antico. Eunapio, in ispecie, che fu colui che vivendo nel nostalgico ricordo e con la speranza della restaurazione del culto degli dei e dell'antica bellezza ellenica, tratteggiò le immagini maggiormente suggestive del mondo pagano. È nelle opere di Filostrato e di Eunapio che troveremo le fonti che ispirarono a Kavafis liriche quali  “I sapienti ciò che s'avvicina, “Apollonio di Tiana a Rodi/, “Se pure è morto”, “Teatro di Sidone (400 d. C.)”, e   due   poesie  di   cui   abbiamo  già   parlato nel  precedente saggio, “Sacerdote di Serapide” e “Miris. Alessandria, 340 d. C..[21]

     Oltre a un commento al Decline and Fall di Gibbon, in cui il sofista di Sardi è nuovamente oggetto dell'attenzione di Kavafis, questi scrisse un altro articolo intitolato Alcune pagine sui sofisti[22] il cui contenuto, frutto dell'attenta lettura delle opere di Eunapio e di Filostrato, indica chiaramente quanto profonda fosse la dimestichezza di Kavafis con la temperie delle scuole neoplatoniche nella quale si mosse non solo Porfirio, ma anche Giuliano, e che, come vedremo, pervade intimamente la sostanza che costituisce l'episodio della lirica “Giuliano ai Misteri”.

     Non sappiamo quale sia stato il preciso tratto della personalità di Porfirio che indusse Kavafis a dedicargli una poesia. Scolaro di Longino ad Atene e, successivamente, pertinace discepolo di Plotino a Roma, Porfirio (233-304) - commentatore di numerose opere di Platone e di Aristotele -, difese la logica dello Stagirita contro le confutazioni di Plotino con una sorta di catechismo delle Categorie e, in ispecie, con la jIsagwghv, detta anche AiJ pevnte fwnaivv. Scritta con lo scopo di far allignare nel neoplatonismo la componente più significativa del sistema speculativo di Aristotele, la  jIsagwgh; avrebbe influito profondamente, per mezzo di numerose traduzioni, sul pensiero medievale arabo e cristiano.

     Vi è inoltre da osservare che se da un lato Porfirio scrisse opere quali Trattato sugli oracoli, Trattato sul ritorno dell'anima a Dio, Trattato sull'astinenza, Immagini degli dei, opere nelle quali egli non sola egli non solamente formulò i suoi concetti riguardanti i Misteri e la salvezza, ma elaborò anche una complessa  liturgia teurgica  di magia  purificatrice,  dall'altro  egli, in un secondo tempo, conformò le proprie elucubrazioni alla mistica di Plotino e redasse un'opera in quindici libri intitolata Contro i cristiani, alla quale avrebbe abbondantemente attinto Giuliano l'Apostata e che fu finalmente bruciata dai cristiani nel 448. Le inquietudini di natura morale dominarono a tal punto Porfirio che, in questa parte della sua produzione egli raccomandò la castità quale pratica ascetica per giungere alla catarsi.[23]                                                               

     Che sia stato lo slight angle su cui Porfirio era situato rispetto all'evolversi del neoplatonismo, uno slight angle collocato in un punto intermedio tra le speculazioni relativamente razionali del suo maestro Plotino e le suggestioni create dai nuovi orientamenti in senso teurgico dei successori di Plotino, quali Giamblico, e i mentori spirituali di Giuliano ad attrarre Kavafis, o che sia stata la tendenza al misticismo e all'ascetismo, fenomeno diffuso tanto tra i pagani che tra i cristiani del tempo di Porfirio e che costituiva un elemento di avvicinamento piuttosto che di diversificazione delle due parti, si trattò comunque di una posizione ejn mevrei... ejn mevrei..., in parte... in parte.

     Ormai però i patrocinatori dell'idolatria, quale il divino Giamblico, arrancavano faticosamente e inutilmente sulla via tracciata dal cristianesimo, e malgrado tutti gli sforzi intrapresi al fine di riunire i confusi culti teurgici pagani in un sistema teologico organico, ogni loro tentativo era destinato a un esito infelice. È al contrario assai degno di nota che già gli Apostoli e, dopo di essi, i Padri della Chiesa, si servirono con mirabile successo, fin dall'inizio dell'era volgare, della terminologia filosofica ellenica per definire le categorie concettuali e i dogmi della dottrina cristiana.[24]

     Soffermiamoci brevemente sul termine lovgo": volendo esplorare l'intricato itinerario semantico percorso da tale termine nel corso della sua evoluzione, dovremmo - per non smarrirci - guardare sempre con la massima attenzione a Eraclito secondo il quale lo xuno;" lovgo" è la legge universale della realtà. Ma poiché ogni scuola filosofica dà una definizione affatto diversa della realtà, di conseguenza anche  il termine logos assumerà, via via, significati dissimili. Per i pitagorici sono i numeri gli elementi costituenti tutto ciò che esiste, l'intero universo è numero e armonia, il numero è il logos di tutto, l'origine e la meta finale, la causa immanente e la sostanza di ogni cosa. Per Platone il  logos è ciò che, articolandosi nell'ordine dialettico delle idee, diviene pensiero discorsivo, diavnoia. Gli stoici definiscono lovgo" spermatikov", ragione seminale, la legge universale originata da un soffio aereo infiammato. Per il mistico Plotino il logos è l'ipostasi universale che dà a sé stessa la sostanzialità, è l'Intelletto o, più precisamente, l'Essere enunciante il suo essere e pensante, in tal modo, sé stesso. L'alessandrino Filone l'Ebreo (30 a. C.-50 d. C.), fu l'ermeneuta della forma più significativa assunta dal sincretismo filosofico della sua epoca; il giudaismo si era ellenizzato già da molto tempo ad Alessandria e Filone, servendosi della filosofia razionalistica ellenica - in ispecie del platonismo e dello stoicismo - stabilì, per mezzo dell'interpretazione allegorica, che il logos  costituiva l'ipostasi intermedia tra l'uomo e il Dio trascendente.[25] Il significato religioso acquisito con l'andar del tempo dal termine logos, raggiunse forse la capacità espressiva più profondamente mistica e misterica nell'esordio del quarto Vangelo ove si legge:

 

jEn ajrch/' h\n oJ Lovgo", kai; oJ Lovgo" h\n pro;" to;n Qeovn, kai; Qeo;" h\n oJ Lovgo"... Kai; oJ Lovgo" sa;rx ejgevneto kai; ejskhvnwsen ejn hJmi'n, kai; ejqeasavmeqa th;n dovxan aujtou', dovxan wJ" monogenou'" para; Patrov", plhvrh" cavrito" kai; ajlhqeiva".[26]

 

    È chiaro che il Cristo è già identificato con lo stesso logos divino divenuto uomo tra gli uomini per portare a compimento il mistero della redenzione. Tutte le dispute cristologiche sorte intorno al dogma trinitario che occuparono i Padri della Chiesa fino al Concilio di Nicea (325) e oltre, furono principalmente dirette a come dovesse essere interpretato il concetto di oJmoousiva, consustanziazione, tra Dio e il Suo Logos.

     Un primo tentativo, fallito, volto a restaurare il paganesimo, fu compiuto da Massimino Daia (305-313), «a[nqrwpo" pantavpasi koino;" kai; bavrbaro"»,[27] il quale, sebbene dominasse solamente la parte orientale dell'Impero, era sicuramente avvantaggiato dal fatto di operare prima che l'editto di Milano, emanato nel 313 da Costantino e da Licinio,[28] ponesse fine alla situazione di clandestinità catacombale in cui versava il cristianesimo. Quanto al dottissimo Giuliano, egli era fatalmente ostacolato nel portare a termine con successo il proprio tentativo di restaurazione pagana - nonostante dominasse tutto l'Impero - dal fatto che tale suo tentativo avveniva allorché il cristianesimo era ormai da tempo una istituzione assai ben consolidata, e i cui elementi di solidità, non solo religiosa, ma anche sociale e politica, erano dovuti a dei fattori determinanti che Giamblico, a suo tempo,  aveva ben indicato: il totale universalismo unito a una struttura amministrativa assai efficiente.[29]

     Giuliano, inoltre, scegliendo  di  combattere il cristianesimo usando le armi intellettuali del cristianesimo stesso e, per di più, volendo istituire una Chiesa pagana imitando la gerarchia e l'organizzazione della Chiesa cristiana, non solo mise in luce lo stato di irreversibile esaurimento in cui si dibatteva l'idolatria, ma evidenziò inconsapevolmente la superiorità morale ed istituzionale della religione di Cristo. Tuttavia, che il paganesimo dovesse tentare una ultima volta di reagire e di dar battaglia al cristianesimo, costituiva l'ineluttabile e naturale ottemperamento a una legge storica, all'essenza stessa della storia: sarebbe antistorico pretendere che consuetudini e riti del culto pagano invalsi da secoli si fossero dissolti ex abrupto. Come Kavafis dimostra con la lirica “La malattia di Clito”, le consuetudini e gli antichi costumi, così come il ricordo di riti pagani aviti, erano soltanto sopiti negli animi della gente e, lungi dal dissolversi totalmente, molti di essi sarebbero giunti fino a noi mimetizzati da una patina cristiana.[30]

     Se, dunque, nel periodo che va da Costantino il Grande a Teodosio I (379-395) le misure adottate dagli imperatori in materia religiosa conferiscono all'impero una fisionomia sempre più cristiana, il cristianesimo, a sua volta, assorbe innumerevoli elementi della cultura pagana ellenistica. Il pagano Libanio ci informa che Costantino non apportò alcun mutamento al culto degli dei. Costanzo II (337-361), invece, che con i sinodi convocati a Sirmio e a Rimini nel 359 aveva fatto proclamare l'arianesimo religione di stato, adottò provvedimenti assai duri verso il paganesimo. La sua politica antipagana, tuttavia, sarebbe stata interrotta dall'ascesa al trono di Giuliano.[31]

    In questa compagine sociale, culturale e religiosa - nella quale paganesimo e cristianesimo erano ancora in uno stato piuttosto fluido - e che fece da sfondo sia alla formazione adolescenziale di Giuliano che al resto della sua breve vita e alla sua ancor più breve avventura quale imperatore, Kavafis ambienta una poesia, pubblicata nel 1911, e intitolata “Rischi.[32]

    Sebbene nel testo della lirica non sia specificato quali siano precisamente i pericoli cui allude il titolo, è tuttavia sottinteso che essi risiedono proprio nella pretesa del giovane siriano, verosimilmente ancora disorientato nell'Alessandria del IV secolo dove si è recato a studiare - pretesa secondo la quale egli, dopo essersi dedicato alla ricerca dei piaceri sensuali, sarà capace di ritrovare lo spirito ascetico in virtù della sola forza di volontà.

 

Ei\pe oJ Murtiva" (Suvro" spoudasth;"

sth;n jAlexandreia: ejpi; basileiva"

aujgouvstou Kwvnstanto" kai; aujgouvstou Kwnstantivou:

ejn mevrei ejqniko;", k  ejn mevrei cristianivzwn):

«Dunamwmevno" me; ;qewriva kai; melevth,

ejgw; ta; pavqh mou de;n qa; fobou'mai sa; deilov".

To; ;sw'ma mou ste;" hjdone;" qa; dwvsw,

ste;" ajpolauvsei" te;" ojneiremevne",

ste;" tolmhrovtere" ejrwtike;" ejpiqumive",

ste;" lavgne" tou' ai{matov" mou oJrmev", cwri;"

kanevna fovbo, giati; o{tan qevlw -

kai; qa[cw qevlhsi, dunamwmevno"

wJ" qa\mai me; qewriva kai; melevth -

ste;" krivsime" stigme;" qa; xanabrivskw

to; pneu'ma mou, sa;n privn, ajskhtikov.»[33]

 

     Con questa poesia decisamente autobiografica in cui Myrtìas esita - come tanti  giovani - tra ascetismo ed edonismo, Kavafis rivela per la prima volta la propria sensualità, e benché tale lirica non sia ancora esplicita come lo saranno altre composte più tardi, essa costituisce una pietra miliare significativa per la vita e l'opera del Poeta alessandrino, perché con “Rischi” assistiamo al perfetto fondersi degli interessi storici di Kavafis con la apologia della propria sensualità.    

     Il poeta situa Myrtìas in Alessandria, regnanti Costanzo augusto e Costante augusto: ci troviamo, quindi, precisamente tra il 340 e il 350 d. C., vale a dire, negli anni dell'adolescenza di Giuliano, nel corso dei quali egli, educato cristiano, diviene pagano. Kavafis fu attratto assai sollecitamente dalla drammatica personalità dell'imperatore Giuliano il  quale  è  il  personaggio  storico  più  largamente  presente  nella sua opera  poetica. Se,  infatti, aggiungiamo alle sei  liriche  giulianee  appartenenti  al  corpus riconosciuto l'inedita “Giuliano ai misteri”, e le cinque   liriche lasciate incompiute dal poeta, ricostruite in base agli abbozzi che si sono salvati e pubblicate nel 1981,[34] avremo un totale di dodici poesie che costituiscono il ciclo poetico più significativo di tutta l'opera kavafiana. Possiamo quindi affermare che l'inedita “Giuliano ai Misteri”, composta nel novembre 1896, oltre a essere la prima lirica del ciclo giulianeo, coincide anche con l'esordio della “tematica bizantina” nell'opera poetica di Kavafis. Il conoscere la data di composizione di ogni poesia è un dato assai significativo.

 

1. “Giuliano ai Misteri”, scritta novembre 1896, inedita.

2. “Gran processione d'ecclesiastici e laici”, scritta marzo 1917 (?), quale revisione di una poesia composta nel settembre 1892; pubblicata agosto 1926.

3. “Atanasio”, scritta aprile 1920, incompleta.

4. “Il vescovo Pegasio”, scritta maggio 1920, incompleta.

5. “Giuliano, constatando negligenza”, data di composizione (?), pubblicata settembre 1923.

6. “Giuliano tratto in salvo”, scritta dicembre 1923, incompleta.

7. “Giuliano a Nicomedia”, data di composizione (?), pubblicata gennaio 1924.

8. “Hunc deorum templa reparaturum”, scritta marzo 1926, incompleta.

9. “Giuliano e gli antiocheni”, data di composizione (?), pubblicata novembre 1926.

10. “Inteso, no”, data di composizione (?), pubblicata gennaio 1928.

11. Sine titulo, che inizia con il verso: «Quindici anni già erano passati», data di composizione (?), incompleta.

12. “Dintorni d'Antiochia”, scritta tra il novembre 1923 e l'aprile 1933, pubblicata postuma.[35]

 

    Il fatto che il poeta alessandrino abbia dedicato dodici liriche a uno stesso personaggio, nella fattispecie Giuliano, significa che alcuni aspetti della sua difficile personalità e alcuni eventi della sua vita, segnata da vicende assai tristi all'insegna della ragion di Stato, attraevano e nel contempo ossessionavano Kavafis. Ma quali furono gli aspetti della personalità e gli avvenimenti della vita di Giuliano che inquietarono così profondamente Kavafis? A questo punto riteniamo doveroso tratteggiare sommariamente gli spunti biografici dell'ultimo imperatore pagano, soffermandoci in modo particolare su quelli che furono fonte di ispirazione per il poeta.

    Flavio Claudio Giuliano nacque a Costantinopoli intorno alla metà del 331 da Giulio Costanzo, fratellastro di Costantino il Grande, e da Basilina. Quando Giuliano aveva soltanto pochi mesi di età, essa morì giovanissima[36] e, da buona cristiana, lasciò le proprie cospicue sostanze alla Chiesa.[37] Morto Costantino il Grande, il 22 maggio 337, allorché Giuliano aveva sei anni, scoppiò una rivolta militare alla quale seguì un eccidio - che Costanzo II non seppe o non volle impedire -, nel quale trovarono la morte la maggior parte dei discendenti maschi di Costantino.[38] Soltanto Giuliano e il suo dodicenne fratellastro Gallo, nato dal primo matrimonio di Giulio Costanzo con Galla, furono sottratti al furore della soldataglia sia perché, data la loro giovanissima età, non costituivano alcuna minaccia per l'imperatore, sia perché furono aiutati da taluni cristiani quali Marco, vescovo di Aretusa.[39] A questo episodio si riferisce la poesia di Kavafis  “Giuliano tratto in salvo”.

 

 {Otan mainovmenoi skovtwsan oiJ stratiw'tai

tou;" suggenei'" tou' ajpoqanovnto" Kwnstantivnou:

kai; teleutaivw" kinduvneuen ajp  th;n frikth;

paraforav twn w}" kai; to; mikro; paidiv - e{xi cronw' -

tou' Kaivsaro" jIoulivou Kwnstantivou,

oiJ Cristianoi; iJerei'", oiJ eu[splacnoi,

to; brh'kan, kai; to; phvgane sto; a[sulon

th'" ejkklhsiva". jEkei' to;n dievswsan, to;n eJxaeth'  jIoulianou'.

 

Plh;n ejpibavlletai na; pou'men o{ti

ei\nai cristianikh'" phgh'" plhroforiva.

Ma; diovlou ajpivqanon na; ei\n  ajlhqinovn.

Tivpote to; paravdoxon iJstorikw'"

de;n parousiavzei: tou' Cristou' iJerei'"

diaswvzonte" ajqw'a Cristianovpaida.

 

 ]An ei\nai ajliqhnov - a[rage oJ polu;" filovsofo"

Au[gousto" kai; s  aujto; na; ;ejxevfraze

to; «lhvqh de; e[stw tou' skovtou" ejkeivnou»;[40]

 

    La parte principale di questa lirica è costituita dall'antinomia esistente tra il salvataggio di Giuliano effettuato dai cristiani e l'ingratitudine che egli dimostrò successivamente verso questi ultimi, ingratitudine espressa, nell'ultimo verso, da una frase che il poeta attinse alla orazione Eij" to;n basileva {Hlion redatta da Giuliano ad Antiochia intorno alla fine del dicembre del 362. La frase citata testualmente da Kavafis nella poesia allude alla adolescenza cristiana di Giuliano:

 

    « JAlla; tiv tau'ta ejgwv fhmi, meivzw e[cwn eijpei'n, eij fravsamai o{pw" ejfrovnoun 

  to; thnikau'ta peri; qew'n; lhvqh de; e[stw tou' skovtou" ejkeivnou.»[41]

 

    L'episodio costituente il nucleo tematico della lirica è narrato da P. Allard nel suo Julien l'Apostat, nel modo seguente: «Mais cette protection n'aurait peut-être pas suffi à les sauver: d'après le même récit, des hommes dévoués enlevèrent secrètement Julien. Saint Grégoire cite parmi eux Marc, évêque d'Aréthuse: il résulte d'un autre document que des prêtres chrétiens prirent part à ce sauvetage: c'est dans une église, près d'un autel, que l'enfant fut conduit.»[42]

    Kavafis, conoscendo direttamente anche la narrazione di tale avvenimento fatta da Gregorio di Nazianzo (Or. IV 21), cercò di collegare l'episodio con la sopraccitata dichiarazione di Giuliano circa il proprio passato quale cristiano. Il poeta, inizialmente, credendo che entrambi i fratellastri fossero stati salvati, intitolò la lirica in un primo tempo «Diavswsi" tou' Gavllou kai; tou' jIoulianou» (Salvataggio di Gallo e di Giuliano), quindi « JH diavswsi" tw'n mikrw'n paidiwvn', tou' jjIoulivou Kwnstantivou» (Il salvataggio dei figlioletti di Giulio Costanzo). Ma dopo aver esaminato con maggior attenzione la narrazione fatta da Allard, e resosi conto che, conformemente alle testimonianze di quest'ultimo, soltanto Giuliano era stato tratto in salvo grazie all'intervento di alcuni cristiani, Kavafis annotò su una delle pagine su cui era abbozzata la poesia: « JO Allard milei' movnon gia; to;n jIoulianovn» (Allard parla solo di Giuliano), e mutò, quindi, il titolo della lirica in “Il salvataggio di Giuliano”. Questo è solo uno degli innumerevoli esempi che dimostrano fino a qual punto Kavafis anelasse a essere storicamente irreprensibile e quanto tenesse alla cura dei particolari.[43] Fu anche i virtù di ciò che egli poté dirsi a pieno diritto poeta-storico. Ma ritorniamo all'Apostata.

    Orfano di entrambi i genitori, Giuliano fu inviato da Costanzo II a Nicomedia per essere educato cristianamente e, soprattutto, per essere sorvegliato dal vescovo ariano di quella città, Eusebio, il quale gli era parente per parte di madre e che - a quanto pare - era stato tutt'altro che estraneo all'eccidio del 337.[44] Fu quindi da parte dei suoi  più temibili nemici che Giuliano ricevette i primi insegnamenti del cristianesimo, ed è quindi verosimile che sia i tratti polemici del suo carattere che le cause della sua apostasia risalgano a questo primo periodo della sua adolescenza allorché, rimasto orfano e sentendosi completamente  sottoposto all'arbitrio degli assassini della sua famiglia, associò ben presto i nomi di Cristo e di Costanzo con in concetti di oppressione e di cristianesimo. È inoltre degno di nota che Giuliano entrò in contatto con tale religione in un periodo in cui essa gli si mostrava sotto forma di inesauribili controversie tra i sostenitori dell'ortodossia e i fautori dell'arianesimo.[45]

    Come apprendiamo dal Misopogon, fu determinante, per lo sviluppo intellettuale di Giuliano in questa prima fase della sua formazione,  uno schiavo scita, un eunuco di nome Mardonio il quale era stato, a suo tempo, incaricato di guidare anche Basilina nella lettura di Omero e di Esiodo.[46] Fervente amante della cultura classica, Mardonio - verso il quale Giuliano si esprime con accenti di simpatia e di commossa gratitudine -, abituò il giovane principe a tenere lo sguardo rivolto al suolo nel recarsi a scuola,[47] e lo esortava continuamente a non comportarsi come la maggior parte dei suoi coetanei i quali si recavano ad agitarsi nei teatri, bensì a preferire le corse descritte nei poemi omerici a quelle della realtà che avevano luogo nell'ippodromo:

 

    «Mhv se paratieiqevtw to; plh'qo" tw'n hJlikiwtw'n ejpi; ta; qevatra ferovmenon ojrecqh'naiv pote tauthsi; th'" qeva". JIppodromiva" ejpiqumei'"; e[sti par JOmhvrw/ dexiwvtata pepeoihmevnh: labw;n ejpevxiqi to; biblivon. Tou;" pantomivmou" ajkouvei" ojrchstav"; e[a caivrein aujtouv": ajndrikwvteron para; toi'" Faivaxin ojrcei'tai ta;  meiravkia: su; de; e[cei" kiqarw/do;n to;n Fhvmion kai; w/jdo;n to;n Dhmovdokon. [Esti kai; futa; par'aujtw/' pollw/' terpnovtera ajkou'sai tw'n oJrwmevnwn:

 

              Dhvlw/ dhvv pote toi'on jApovllwno" para; bwmo;n

              Foivniko" nevon e[rno" ajnercovmenon ejnovhsa:

 

kai; hJ dendrhvessa th'" Kaluyou'" nh'so", kai; ta; th'" Kivrkh" sphvlaia kai; oJ jAlkinovou kh'po": eu'j i[sqi, touvtwn oujde;n o[yei terpnovteron.»[48]

 

    Morto Eusebio nel 342, Costanzo inviò Gallo e Giuliano a continuare gli studi nella villa imperiale di Makellon, in Cappadocia, dove essi sarebbero rimasti segregati per sei anni, costantemente tenuti d'occhio da eunuchi e precettori cristiani che riferivano a Costantinopoli.[49] Giuliano medesimo narra di come lui e Gallo erano costretti a vivere «ajpokeklismevnoi panto;" me;n maqhvmato" spoudaivou, pavsh" de; ejleuqevra" ejnteuvxew", ejn tai'" lamprai'" oijketeivai" trefovmenoi kai; toi'" hJmw'n aujtw'n douvloi" w{sper eJtaivroi" suggumnazovmenoi; prosh/vei ga;r oujqei;" oujde; ejpetrevpeto tw'n hJlikwtw'n.»[50]

    Giuliano, tuttavia, molto dissimile per carattere da Gallo, trovò ugualmente il modo di dedicarsi agli studi e, incline per natura al misticismo, acquietò le sue sollecitazioni in tale direzione nei riti e nelle liturgie della Chiesa cristiana, fu battezzato e lesse pubblicamente in chiesa le sacre Scritture; tutto questo lasciò inevitabilmente profonde impronte sia nella sfera della sua vita che nelle sue opere. La segregazione dei due fratellastri ebbe termine inopinatamente intorno al 351, allorché Costanzo II, pressato dalle vicende politico-religiose, non avendo eredi, richiamò Gallo a Costantinopoli e, nominatolo cesare, lo inviò ad Antiochia affinché governasse l'Oriente. Anche Giuliano trascorse a Costantinopoli un breve periodo durante il quale studiò presso vari retori cristiani e pagani. Egli, però, si guadagnò assai per tempo una reputazione tale che finì per suscitare le gelosie del sospettoso Costanzo al punto che questi, per allontanarlo dagli ambienti politici e religiosi della capitale, decise di trasferire nuovamente in Bitinia e nella Ionia il giovane principe le cui simpatie per il paganesimo, intanto, avevano assunto tratti sempre più definiti.

 

    «Th;n de; toiauvthn tou' jIoulianou' diavqesin uJpevqalpon, ejnnoei'tai, oiJ poluavriqmoi eijsevti ejqnikoi; kai; ijdivw" oiJ neoplatwnikoiv, tw'n oJpoivwn oiJ kat  ejkei'no tou' crovnou korufai'oi, oJ Aijdevsio", oJ Crusavnqio", oJ Mavximo", diatrivbonte" eij" Pevrgamon kai; eij" [Efeson, ei\con peristoicivsei to;n nevon basilovpaida kai; hjgwnivzonto na; prosoikeiwqw'sin aujto;n ejk panto;" trovpou.»[51]

 

    Sia Crisantio che Massimo saranno citati da Kavafis. Questo secondo soggiorno di Giuliano a Nicomedia coincise inoltre con il breve periodo durante il quale il retore pagano Libanio[52] vi aveva aperto una propria scuola e, sebbene Costanzo avesse esplicitamente proibito a Giuliano di seguirne le lezioni, il problema fu risolto facilmente: Giuliano prezzolò un uomo affinché seguisse in sua vece le lezioni di Libanio, prendesse appunti e glieli consegnasse segretamente.[53] Ma le frequenti conversazioni con Crisantio, le teorie del filosofo Massimo di Efeso (uomo assai valente del resto), le teurgie, le visite ai templi pagani, l'entusiasmo per gli antichi dei, la glorificazione degli ideali ellenici, questo pericoloso comportamento di Giuliano non tarda a sortire degli effetti: Gallo manifesta grande inquietudine e anche Costanzo comincia a sospettare. Certamente coloro che fino allora avevano dato consigli a Giuliano non erano stati molto accorti. Mardonio dice che questa storia ha passato ogni limite e che è necessario porre immediatamente fine a ogni clamore. Giuliano, quindi, ritorna lettore in Nicomedia, nella basilica ariana di san Maurizio dove, a voce alta e ostentando grande devozione, legge le sacre Scritture. E il popolo ammira la sua pietà cristiana. 

    La poesia “Giuliano a Nicomedia”, di cui non conosciamo l'esatta data di composizione e pubblicata da Kavafis nel 1924, ci riconduce precisamente agli avvenimenti appena accennati, e il nucleo tematico della lirica è costituito dal fatto che Giuliano, sebbene sempre più coinvolto con le dottrine neoplatoniche, continua ipocritamente a leggere le Scritture cristiane.

 

 [Astoca pravgmata kai; kindunwvdh.

OiJ e[penoi gia; tw'n JEllhvnwn ta; ijdewvdh.

 

 JH qeourgive" k' hJ ejpiskevyei" stou;" naou;"

tw'n ejqnikw'n. OiJ ejnqousiasmoi; gia;  tou;" ajrcaivou" qeouv".

 

Me; to;n Crusavnqion hJ sucne;" sunomilive".

Tou' filosovfou - tou' a[llwste deinou' - Maxivmou hJ qewrive".

 

Kai; ; na; to; ajpotevlesma. JO Gavllo" deivcnei ajnhsuciva

megavlhn. JO Kwnstavntio" e[cei kavpoian uJpoyiva.

 

 \A oiJ sunbouleuvsante" de;n h\san diovlou aunetoi.

Paravgine - levgeiv oJ Mardovnio" - hJ iJstoriva aujthv,

 

kai;  prevpei ejx  a{panto" na; pauvsei oJ qovrubov" th".-

 JO jIouliano;" phgaivnei pavlin ajnagnwvsth"

 

sth;n ejkklhsiva th'" Nikomhdiva",

o{pou megalofwvnw" kai; met  eujlabeiva"

 

pollh'" te;" iJere;" Grafe;" diabavzei,

kai; th;n cristianikhv tou eujsevbeia oJ lao;" qaumavzei.[54]

 

    Sebbene l'episodio centrale si trovi in Gregorio di Nazianzo (MPG, XXXV, coll. 551, 632), è tuttavia assai verosimile che la fonte primaria di questa poesia sia costituita da Gibbon, e che le notizie concernenti i maestri di Giuliano provengano da Eunapio e da storici ecclesiastici quali Socrate e Sozomeno. È inoltre degno di nota che mentre soltanto in Sozomeno (Hist. Eccl., V, 2) Giuliano svolge il ruolo di lettore a Makellon, sia in Gregorio di Nazianzo che in Gibbon tale ruolo viene svolto a Nicomedia. È sicuramente questa la ragione per cui Kavafis, dopo aver esaminato varie fonti storiche, non solo collocò Giuliano quale lettore di chiesa a Nicomedia, ma, ritenendo che la lirica fosse storicamente fondata, decise anche che essa poteva essere pubblicata.[55]

    Vorremmo inoltre far osservare che “Giuliano a Nicomedia” possiede un tratto peculiare che, se da un lato rimanda ad alcune poesie di cui abbiamo avuto occasione di occuparci precedentemente, quali “La malattia di Clito”, “Miris, Alessandria 340 d. C.” e “Rischi”, dall'altro lato rimanda a due liriche entrambe appartenenti alla piena maturità dell'opera artistica kavafiana: la poesia bizantina “Manuele Comneno”, scritta nel 1905, pubblicata nel 1916, e “Tomba d'Ignazio”, composta nel 1916, pubblicata un anno più tardi e che pare costituire l'anello di congiunzione tra il mondo ellenistico e quello bizantino nell'universo poetico di kavafiano.[56]

 

 jEdw' de;n ei\mai oJ Klevwn pou; ajkouvsqhka

sth;n jAlexavndreia (o{pou duvskola xipavzontai)

gia; ta; lamprav mou spivtia, gia; tou;" khvpou",

gia; t  a[loga kai; gia; t  ajmavxia mou,

gia; ta; diamantika; kai; ta; metavxia pou; forou'sa.

 [Apage: ejdw' de;n ei\mai oJJ Klevwn ejkei'no":

ta; eijkosioktov tou crovnia na; sbhsqou'n.

Ei\m  oJ jIgnavtio", ajnagnwvsth", pou; polu; ajrga;

sunh'lqa: ajll'  o{mw" k'  e[tsi devka mh'ne" e[zhsa eujtucei'"

me;" sth;n galhvnh kai; ;me;" sth;n ajsfavleia tou' 'Cristou'.[57]

 

    Ottenuti da Gallo gli onori, almeno nominali, del proprio rango, la restituzione di un cospicuo patrimonio e la licenza di viaggiare liberamente, Giuliano si recò nella Ionia presso i più rinomati esponenti del neoplatonismo, a Pergamo e a Efeso, dove si compì la solenne apostasia di Giuliano.[58] Gallo intanto, fatto uscire da una prigione e posto su un trono, dimostrava di non possedere né la riflessione né la docilità che sarebbero state utili a supplire alla mancanza di doti intellettuali e di esperienze; egli non fu capace di governare, ma Giuliano fu clemente verso la  memoria del fratellastro, asserendo che il cesare meritava di vivere pur se appariva incapace di regnare:

 

            «kaivtoi tou' zei'n gou'n a[xio", eij mh; basileuvein ejfaivneto ejpithvdeio"».[59]

 

    Ma sobillato a taluni cortigiani, specialmente dall'eunuco Eusebio, il sospettoso Costanzo, intorno alla fine del 354, convocò Gallo presso di sé nella residenza imperiale di Milano, lo spogliò delle insegne di cesare e, inviatolo a Pola, in Istria, lo fece decapitare.[60]

    Consumata la tragedia di Gallo, anche Giuliano ricevette l'ordine di recarsi presso l'imperial cugino.[61] Prima di raggiungere Milano, tuttavia, il giovane principe, passando per la Troade di ritorno da Efeso dove egli ormai convertitosi al paganesimo, era stato iniziato alle segrete dottrine del neoplatonismo, all'arte della divinazione e alle teurgie per entrare in contatto con gli dei, colse l'occasione per intraprendere un vero e proprio pellegrinaggio ai santuari della antica Ilio. Tale pellegrinaggio coincise con uno dei periodi più significativi della vita di Giuliano, un periodo nel quale egli dovette avere la netta sensazione di aver iniziato una esistenza radicalmente rinnovata, e durante il quale egli intravide, verosimilmente per la prima volta, una qualche possibilità di restaurazione pagana. Giuliano stesso, anni più tardi, ormai imperatore, narrò le vicende di quel pellegrinaggio in una delle sue epistole più vive e suggestive.

    Essendo, dunque, stato convocato a corte da Costanzo, Giuliano, mentre era in cammino attraverso la Troade, giunse a Ilio sul finire della mattinata, quando l'agorà si riempiva di gente; e là, gli si fece incontro il vescovo Pegasio il quale, saputo che il principe desiderava visitare la città, gli si offrì quale guida. Trovate delle are ancora illuminate, pressoché sfavillanti, con evidenti tracce di culto recente, chiese a quest'ultimo simulando stupore, se mai era possibile che gli abitanti di Ilio offrissero ancora sacrifici a dei ed eroi. Il vescovo, ambiguamente, replicò che non vi era alcunché di strano nel fatto che i cittadini di Ilio tributassero un culto a un loro cittadino dabbene - nella fattispecie Ettore -, così come non vi era alcunché di strano nel fatto che loro due tributassero un culto ai martiri cristiani. Tale paragone non poteva certo parer giusto al neoplatonico Giuliano il quale, tuttavia, considerando la temperie politico-religiosa del momento, vi colse una sottile allusione. Quindi Giuliano:

 

    «Badivswmen e[fh ejpi; to; th'" jIliavdo" jAqhna'" tevmeno"". JO de; ;kai; mavla proquvmw" ajphvgahev me kai; ajnevw/xe to;n newvn, kai; w{sper marturovmeno" ejpevdeixev moi pavnta ajkribw'" sw'a ta; ajgavlmata...».[62]

 

    Benché l'epistola di Giuliano nella quale è descritto il suo incontro con il vescovo Pegasio fosse nota a Kavafis, questi  trovò più congeniali, quale motivo ispiratore, le considerazioni fatte su tale episodio da P. Allard in Julien l'Apostat, pubblicata a Parigi nel 1900: «On peut, sans un trop grand effort d'imagination se figurer l'état des deux personnages que le hasard avit ainsi mis en présence. Julien, aux allures de l'évêque, a surpris ses pensées secrètes: il attache sur lui un regard pénétrant et lui pose des questions captieuses. Pégase connaissait sans doute par la renommé les vrais sentiments de Julien (...).»[63] La vicenda, dominata sia dall'ambiguità dei sentimenti religiosi che dal comportamento ipocrita dei due protagonisti, era estremamente appropriata a suscitare l'interesse di Kavafis. Questi, però, mettendo in evidenza gli elementi di ambiguità e di circospezione adottati dall'uomo e dal ragazzo, elementi dei quali essi erano entrambi coscienti e quindi pressoché complici, conferì alla poesia che compose nel 1920 una palpabile atmosfera di pedofilia.[64] Kavafis, tuttavia, dieci anni dopo aver composto la lirica, volle verificarne l'autenticità storica dell'episodio verificandolo nella versione che ne dava J. Bidez nella sua Vie de l'Empereur Julien, pubblicata per i tipi de Les Belles Lettres nel 1930,[65] rimanendo in tal modo fedele sia al suo voler essere poeta-storico, sia alle fonti storico-letterarie da cui aveva tratto ispirazione. Secondo Bowersock, questa è la più memorabile delle cinque poesie incomplete ricostruite da Renata Lavagnini.[66]

 

O EPISKOPOS PHGASIOS

 

Eijsh'lqan sto;n perikallh' nao; th'" jAqhna'"

oJ Cristiano;" ejpivskopo" Phgavsio"

oJ JCristiano;" hJgemonivsko" jIoulianov".

 jEkuvttazan me; povqon kai; storgh;n t'  ajgavlmata -

o{mw" sunomilouvsane distaktikw'",

me; uJpainigmouv", me; ;lovgia diforouvmena,

me; fravsei" plhvrei" profulavxew",

giati; de;n h\san bevbaioi oJ e{na" gia; ;to;n a[llon

kai; sunepw'" fobou'ntan na; mh; ejkteqou'n,

oJ yeuvth" Cristiano;" ejpivskopo" Phgavsio"

oJ yeuvth" Cristiano;" hJgemonivsko" jIoulianov".[67] 

 

    Giunto finalmente a Milano, Giuliano fu costretto ad attendere sette mesi prima che Costanzo, sobillato da eunuchi e cortigiani e sempre più sospettoso, gli concedesse udienza. Durante quella lunga attesa. Giuliano languì nel terrore di subire la stessa sorte del fratellastro Gallo e, se non fosse stato per l'intercessione della bella e virtuosa imperatrice Eusebia, egli non si sarebbe salvato:[68]

 

    «ejmev de; ajfh'ke movgi" eJpta; mhnw'n o{lwn eJlkuvsa" th'/de kajkei'se kai; poihsavmeno" ejmfrouvrion, w{ste, eij mh; qew'n ti" ejqelhvsa" me swqh'nai th;n kalh;n kai; ajgaqh;n to; thnikau'tav moi parevscen eujmenh', th;n touvton gamethvn, Eujsebivan, oujd' a]n ejgw; ta;" cei'ra" aujtou' tovte dievfugon.»[69]

 

    Allorché l'imperatore acconsentì a ricevere il cugino, la benevola mediazione di Eusebia prevalse sui tentativi dei nemici di Giuliano i quali intendevano farlo apparire come un potenziale vendicatore di Gallo, e si concluse di inviare Giuliano in onorevole esilio ad Atene, città, allora, priva di qualsiasi importanza politica, e dove egli giunse intorno al mese di maggio del 355. Qui tutto contribuì a corroborare la entusiastica adesione del giovane principe al paganesimo: lo splendore degli antichi monumenti, le lezioni dei più abili retori pagani, i Misteri eleusini le cui cerimonie incutevano ancora rispetto. Lontano dalla opprimente atmosfera della corte, Giuliano trascorse sei mesi tra i boschetti dell'Accademia, ascoltando con fervore i retori e i filosofi più noti del suo tempo. Egli nascondeva ancora la sua adesione al paganesimo, ma fu verosimilmente durante questo soggiorno ateniese che assunse forma sempre più netta nella sua mente ala visione di restaurare, al momento opportuno, la religione antica. Il fato volle che Giuliano, ad Atene, avesse per condiscepoli due giovani destinati a divenire non solo i pilastri del cristianesimo, ma anche due dei più grandi santi della cristianità: Gregorio di Nazianzo e Basilio il Grande.[70] Ma essi, a differenza di Giuliano, si erano recati in Attica per attingere dalla filosofia e dalla facondia antiche tutti quegli elementi che sarebbero loro serviti per difendere e arricchire la nuova fede, non per combatterla. E intanto che si trovava ad Atene, Giuliano ebbe cura di recarsi anche presso i più venerati luoghi di culto dell'Attica. Nel capitolo XXXIII del Decline and Fall, Gibbon, parafrasando un passo di Gregorio di Nazianzo,[71] afferma che Giuliano fu solennemente iniziato ai Misteri, ma fu Gibbon a stabilire arbitrariamente che l'iniziazione del giovane principe ebbe luogo a Eleusi:

 

    «La sua permanenza ad Atene confermò questa innaturale alleanza di filosofia e di superstizione. Egli ottenne il privilegio di essere iniziato solennemente nei misteri eleusini, che nella generale decadenza della religione greca conservavano ancora qualche traccia della loro antica santità (...). Siccome queste cerimonie si svolgevano nella profondità delle caverne e nel silenzio della notte, e il riserbo degli iniziati manteneva il segreto inviolabile dei misteri, io non presumo di descrivere le orribili voci o le spaventose apparizioni che furono presentate ai sensi o all'immaginazione del credulo aspirante finché non comparvero visioni consolatrici e rivelatrici in un alone celeste. Nelle caverne di Efeso e di Eleusi la mente di Giuliano fu penetrata da un sincero, profondo e inalterabile entusiasmo, benché talvolta mostri quelle alternative di pia frode e d'ipocrisia che si possono serbare o almeno sospettare nel carattere dei più coscienziosi fanatici. 24

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(24) Quando Giuliano, in un momentaneo panico, si fece il segno della croce, i demoni immediatamente scomparvero (GREGORIO NAZIANZENO, Orat. III). Gregorio suppone che si fossero spaventati, ma i preti dichiararono che erano indignati. Il lettore potrà decidere questa profonda questione secondo il grado della sua fede.»[72]

 

    Risale al novembre 1896, anno in cui Kavafis cominciò a studiare sistematicamente Gibbon, una lirica inedita che il poeta alessandrino intitolò inizialmente “Giuliano a Eleusi” e che registrò nel capitolo tematico “Gli inizi del cristianesimo”. Ma Kavafis, dopo aver letto in Allard il brano in cui lo studioso francese metteva in dubbio la supposta iniziazione misterica di Giuliano a Eleusi, [73] mutò il titolo iniziale della lirica in quello più generico di “Giuliano ai Misteri”.

 

O IOULIANOS EN TOIS MUSTHRIOIS

 

Plh;n sa;n eujrevqhke mevsa sto; skovto",

mevsa sth'" gh'" ta; fobera; ta; bavqh,

suntrofeumevno" m'  [Ellhna" ajqevou",

k'  ei\de me; dovxai" kai; megavla fw'ta

na; bgaivnoun a[ulai" morfai;" ejmprov" tou,

fobhvqhke gia; mia; stigmh;n oJ nevo",

k'e{na e[nstikto tw'n eujsebw'n tou crovnwn

ejpevstreye, k'  e[kame to;n staurov tou.

 [Amevsw" h/J Morfai;" ajfanisqhvkan:

h/J dovxai" cavqhkan - sbuvsan ta; ;fw'ta.

OiJ {Ellhne" ejkrufokuttacqh'kan.

Ki' oJ nevo" ei\pen: «Ei[date to; qau'ma;

 jAgaphtoiv mou suvntrofoi, fobou'mai.

Fobou'mai, fivloi mou, qevlw na; fuvgw.

De;n blevpete pw'" cavqhkan ajmevsw"

oiJ daivmone" sa;n m'  ei[dane na; kavnw

to; sch'ma tou' 'staurou' to; ;aJgiasmevno  

OiJ {Ellhne" ejkavgcasan megavla:

«Ntrophv, ntroph; na; le;" aujta; ta; ;lovgia

se; ;ma'" tou;" sofista;" kai; filosovfou".

Tevtoia sa;n qe;" eij" to;n Nikomhdeiva"

kai; stou;" pappavde" tou mporei'" na; lev".

Th'" e[ndoxh" JEllavdo" ma" ejmprov" sou

oiJ  megaleivteroi qeoi; fanh'kan.

Ki'  a]n fuvgane na;  mh;  nomivzh/" diovlou

pou; fobhqh'kan mia; ceironomiva.

Monavca sa;n se; ei[dane na; kavnh/"

to; potapovtaton, ajgroi'kon sch'ma

sucavqhken hJ eujgenhv" twn fuvsi"

kai; fuvgane kai; se; perifronh'san».

 [Etsi to;n ei[pane ki'  ajpo; to;n fovbo

to;n iJero;n kai; to;n eujloghmevnon

sunh'lqen oJ ajnovhto", k'  ejpeivsqh

me;  tw'n JEllhvnwn t'  a[qea ta; lovgia.[74]

       

    Il palese sentimento di ostilità che pervade questa poesia non è rivolto solo alla superstiziosa codardia di Giuliano, al suo perdersi d'animo dinanzi a fenomeni dalla natura misteriosa, terrificante e affascinante a un tempo propria del sacro, ma anche alla equivocità insita nell'attaccamento più o meno consapevole al cristianesimo in cui era stato allevato. Sebbene la maggior parte degli elementi tematici costituenti la lirica provengano principalmente da Gibbon, altri provengono in parte da Gregorio di Nazianzo e in parte da Sozomeno.[75] Il già citato articolo I poeti bizantini non è l'unico testo in prosa in cui il poeta alessandrino manifestò la sua ammirazione per il Nazianzeno; infatti, tra le note di lettura apposte al Decline and Fall, ve n'è una in cui Kavafis esterna grande ammirazione per Gregorio. A proposito del noto editto promulgato da Giuliano al fine di proibire ai cristiani di insegnare la grammatica e la retorica, Gibbon afferma che l'imperatore apostata abusò dell'ambiguità semantica di un termine che si adattava in maniera indifferente tanto alla lingua quanto alla religione degli elleni fino al punto di decretare sprezzantemente che coloro che rifiutavano gli dei di Omero, di Esiodo e di Demostene dovevano accontentarsi di spiegare Luca e Matteo nelle scuole dei galilei; lo storico inglese invita, inoltre, a confrontare l'imperiale editto con le “loose invectives” di Gregorio e termina asserendo che se ai cristiani fu direttamente proibito di insegnare, indirettamente fu loro proibito di apprendere dal momento che essi non avrebbero più potuto frequentare le scuole dei pagani.[76]

    Attingendo a un passo della Storia della nazione greca in cui Paparrigòpulos citava a sua volta il Nazianzeno,[77] Kavafis replicò:

 

    «Some of these “loose invectives” are very noble and lofty - “Pollw'n ga;r kai;  deinw'n o[ntwn ejf  oi'J" ejkeivno" misei'sqai divkaio", oujk e[stin o{ti ma'llon h] tou'to” - the edict - “paranomhvsa" faivnetai”.

    And also,

    Ta; me;n a[lla parh'ka toi'" boulomevnoi" plou'ton, eujgevneian, eu[kleian, dunasteivan, a} th'" kavtw perifora'" esti, kai; ojneirwvdou" tevryew". Tou' lovgou perievxomai movnou.

    No artist - the word is not misplaced here - had spoken so boldly before - “a} th'" kavtw perifora'" esti.”- C.»[78]  

 

    Tra tutti i decreti emanati da Giuliano, quello sui maestri era l'unico che potesse infliggere una ferita veramente mortale al cristianesimo e, di conseguenza, nessun decreto, più di questo, suscitò tanta indignazione tra i cristiani. Una riforma così settaria dell'insegnamento pubblico, tuttavia, non aveva alcuna possibilità di successo e se lo stesso Ammiano Marcellino - pagano e amico di Giuliano -, la definì una misura tirannica che meritava di venir sepolta in un eterno silenzio,[79] era naturale che un uomo cristiano e dall'animo sensibile come il Nazianzeno, fremesse di collera e le sue invettive contribuirono più di ogni altra cosa a conferire a Giuliano la reputazione del malevolo riformatore. Gregorio, che fu la figura rappresentativa più importante delle aspirazioni culturali dei cristiani del suo tempo e che meglio di chiunque altro portò a compimento, e nella maniera più completa, la fusione della cultura classica con la fede cristiana, contestò a Giuliano e a coloro che, come lui, propugnavano l'antica mitologia, il diritto di riservarsi il monopolio dell'ellenismo. Meritano di esser citate, quale chiara illustrazione della posizione di Gregorio nei confronti di Giuliano, poche, ma esplicite, parole di H. G. Beck, con le quali Kavafis non potrebbe esser stato che d'accordo: «Gregorio rimproverava indignato a Giuliano di menare un turpe gioco con le parole {Ellhn ed JEllhnivzein. {Ellhn, l'Elleno, in base alla sua origine non designa una disposizione religiosa, ma indica il rappresentante di una lingua. Allo stesso modo JEllhnivzein non significa “esser pagano”, bensì “parlar greco”. Rendendosi colpevole di questo doppio senso, Giuliano tenta di sbarrare ai Cristiani non soltanto l'accesso alla letteratura pagana, ma anche nel contempo l'accesso alla propria lingua.»[80]

    E precisamente quel grande fenomeno storico-culturale noto con il nome di ellenismo che - prendendo le mosse dalla tradizione omerica è giunto fino a noi attraverso le età classica, ellenistica e bizantina e che, a dispetto dei molteplici mutamenti causati dal trascorrer dei secoli, possiede indiscutibili elementi di grande continuità, dovuta soprattutto alla Koinh; JEJllhnikh; Laliav,  alla «Comune Lingua Greca», per usare una espressione kavafiana -, fu la principale fonte che ispirò al Poeta alessandrino la parte più significativa della sua inconfondibile opera artistica.

    Intanto le continue invasioni dei barbari in Gallia e la rinnovata minaccia persiana che rendeva indispensabile la presenza dell'imperatore in Oriente, riportarono alla ribalta la irrisolta questione della successione. Eusebia convinse Costanzo che la persona più adatta era Giuliano: un giovane apparentemente mite e privo di ambizioni, egli avrebbe potuto occupare una carica subalterna senza mettere in discussione gli ordini dell'augusto. Così, nel settembre 355 Giuliano fu strappato al suo amato ritiro ateniese a richiamato a Milano. Egli fece il suo ingresso a corte atterrito né Eusebia riuscì a vincere i suoi timori con la propria tenerezza. Per di più, come narra Giuliano stesso, gli fu rasa la barba e gli fu fatta indossare una clamide cosicché, goffo e impacciato, divenne per alcuni giorni il ludibrio dei fatui cortigiani:[81]

 

    « jArnoumevnou gavr mou th;n sunousivan sterew'" ejn toi'" basileivoi", oiJ me;n w{sper ejn koureivw/ sunelqovnte" ajpokeivrousi to;n pwvgwna, clanivda de; ajmfiennuvousi kai; schmativzousin, wJ" tovte uJpelavmbanon, pavnu geloi'on stratiwvthn. Oujde;n gavr moi tou' kallwpismou' tw'n kaqarmavtwn h{rmozen: ejbavdizon de; oujc w{sper ejkei'no periblevponte" kai; sobou'nte", ajll'eij" gh'n blevpwn, w{sper eijqivsmhn uJpo; tou' qrevyantov" me paidagwgou'.»[82]

 

    Nel mese di novembre 355, Giuliano veniva nominato cesare e, poco dopo, sposava la ormai non molto più giovane sorella di Costanzo, la quale mise al mondo un figlio che subito morì ma che, secondo testimoni attendibili, quali Ammiano Marcellino, «obstetrix corrupta mercede, mox natum praesecto plusquam umbilicum necavit».[83] Proibitogli di condurre con sé i suoi fedeli servitori, Giuliano partì per la Gallia senza alcun ordine specifico sul da farsi, con un seguito di schiavi e di coadiutori il cui incarico era di sorvegliarlo piuttosto che di servirlo, e con una preziosa collezione di libri - opere di buoni filosofi e storici, di oratori e di poeti -, donatagli da Eusebia.[84] Durante l'inverno del 356, mentre Giuliano entrava in Vienne, città a sud di Lione, tra la moltitudine di coloro che osservavano l'ingresso del cesare nella città, vi era una vecchia donna cieca - ignoriamo se pagana o cristiana -, la quale, appreso chi fosse il personaggio, profetizzò che Giuliano era designato a  divenire il restauratore dei templi degli dei. Il vaticinio si avverò; non sapremo mai, però, se nella voce della vecchia cieca  di Vienne vi fosse un tono di gioia oppure di dolore. Questo episodio, nella narrazione di Ammiano Marcellino, attrasse l'attenzione di Kavafis: «tunc anus quaedam orba luminibus cum percotando quinam esset ingressus, Iulianum Caesarem comperisset, exclamavit hunc deorum templa reparaturum».[85]

    Ispirandosi a questo brano, nel marzo 1926 Kavafis compose una lirica che erroneamente intitolò “Hunc deorum templis”. Più tardi il poeta, che verosimilmente nel 1926 aveva citato il brano di Ammiano Marcellino a memoria, verificò scrupolosamente la fonte e resosi conto dell'errore commesso, corresse il titolo da “Hunc deorum templis” a “Hunc deorum templa”. Tale rigore scientifico nel verificare l'esattezza del titolo di una poesia consultando le fonti storico-letterarie, costituì sempre uno dei tratti caratteristici più singolari del poeta-storico Kavafis al lavoro.[86] Tra tutti gli episodi che costellano gli anni trascorsi da Giuliano in Gallia, quello della vecchia cieca di Vienne fu l'unico che suscitò l'interesse di Kavafis. Questi, cantore della sconfitta, ignorò totalmente i successi conseguiti da Giuliano in campo amministrativo e militare, preferendo trarre ispirazione altrove.

 

HUNC DEORUM TEMPLA

 

Gerovntissa tuflhv, h[soun krufh; ejqnikhv;

h] h[soun cristianhv; To;n lovgon sou

pou; bgh'ke ajliqhno;" - pou; aujto;" pou; eijshvrceto

ejpeufhmouvmeno" sth;n Bievnnh, oJ e[ndoxo"

Kai'sar jIoulianov", h\tan prowrismevno"

na; uJphrethvsei ta; temevnh tw'n (yeutw'n) qew'n -

to;n lovgon sou pou; bgh'ke ajlhqinov",

gerovntissa tuflhv, to;n ei\pe" me; ojduvnhn

wJ" qevlw to; na; uJpoqevtw, h], fauvlh! me; caravn;[87]

 

    Nel frattempo, però, il mite filosofo Giuliano che, come è già stato osservato, era stato nominato cesare più per esser comandato che per comandare, prese a dare incontestabili prove di inopinate virtù militari come nella vittoriosa campagna contro gli alamanni presso Argentoratum - l'attuale Strasburgo -, campagna tanto gloriosa per Giuliano e di cui egli stesso ci parla,[88]  quanto ignorata da Kavafis. Ingelosito a causa dei successi del cugino, Costanzo decise di trasferire in Oriente, contrariamente agli accordi stipulati al momento dell'arruolamento, le legioni stanziate in Gallia le quali, nel frattempo, avevano preso ad amare e stimate Giuliano. Finché una notte della primavera del 360, a Lutetia Parisiorum, la Parigi di oggi, i soldati insorsero contro Costanzo e il mattino seguente, per la prima volta nella storia, in quel pronunciamiento un imperatore romano fu alzato sugli scudi conformemente all'uso germanico e, in mancanza del diadema,  il novello augusto venne incoronato con una austera collana militare recepita all'uopo.[89] Kavafis, che si sarebbe commosso dalla parca incoronazione di Giovanni VI Cantacuzeno, traendo spunto per una delle sue più belle liriche bizantine, ignorò completamente quella di Giuliano.

    Se Costanzo avesse accettato di venire a patti ragionevolmente, Giuliano si sarebbe verosimilmente accontentato del possesso delle province galliche; ma i negoziati si protrassero tra alterne vicende per vari mesi finché, radunate le sue legioni nei pressi di Basilea, Giuliano le divise in tre armate che, percorrendo vie diverse, avrebbero dovuto riunirsi in una unica armata nella penisola balcanica. Due corpi, composti ciascuno da alcune migliaia di uomini, si misero in marcia rispettivamente il primo sotto il comando del generale Nevitta attraverso il Norico e la Rezia, mentre il secondo, sotto il comando di Giovio e di Giovino, percorrendo un tragitto lungo le Alpi. Giuliano riservò per sé il tragitto più difficile: raggiunto il Danubio attraverso monti e foreste con il suo contingente, navigò il fiume fino a Sirmio dove la popolazione lo accolse con entusiasmo. Giunto a Naisso, la odierna Niš, inviò alle più importanti città dell'Impero delle epistole contenenti una apologia assai accurata delle proprie azioni, come quella indirizzata al senato e al popolo di Atene.[90] Ma la notizia della inopinata morte di Costanzo, avvenuta il 3 novembre 361, raggiungeva intanto Giuliano al quale veniva consegnato in tal modo tutto l'Impero, senza che una sola goccia di sangue fosse versata. Entrato in Costantinopoli l'11 dicembre 361, Giuliano partecipò alle esequie del cugino seguendo il corteo funebre a piedi, vestito a lutto e senza corona, fino alla chiesa dei Santi Apostoli.[91] È degno di nota che nessuno di questi episodi, per quanto ricchi di pathos e di episodi suggestivi, ispirarono la musa di Kavafis, neppure l'episodio dei funerali di Costanzo, episodio avvenuto, a differenza degli altri, in un ambiente incontestabilmente greco e carico di tensione emotiva.

    Giuliano diede immediatamente il via a una serie di riforme atte a modificare vari settori della vita dell'Impero: dalla corte alle finanze pubbliche, all'amministrazione della giustizia, alla difesa delle frontiere. Ma ciò che più di ogni altra cosa caratterizzò in maniera peculiare il breve regno di Giuliano fu costituito dalla sua politica religiosa.[92] E questo fu anche l'elemento che attrasse maggiormente Kavafis.

    Lo ierofante di Eleusi, insieme ai vecchi maestri dell'imperatore, Crisantio e Massimo, ricevettero l'incarico di attendere agli affari religiosi in Grecia; Oribasio, medico e amico di Giuliano, fu inviato a Delfi affinché restaurasse l'oracolo di Apollo. Ma la irreversibile decadenza di quel santuario, già tanto ricco e glorioso, venne illustrata in maniera assai esplicita nel vaticinio consegnato all'inviato dell'imperatore, e il cui testo ci è pervenuto grazie a Gregorio Cedreno, uno storico bizantino del XII secolo:

 

         Ei[pate tw'/ basilei', camai; pevse daivdalo" aujlav.

         Oujkevti Foi'bo" e[cei kaluvban, ouj mavntida davfnhn,

         Ouj paga;n lalevousan. jApevsbeto kai; lavlon u{dwr.[93]

 

    Karolidis, il curatore della Storia di Paparrigòpulos, ci informa che l'autenticità di tale vaticinio è stata respinta dagli studiosi moderni i quali vedono in esso una invenzione cristiana risalente ai secoli posteriori a Giuliano.[94] Vero o falso che sia, il testo del responso costituisce una testimonianza assai paradigmatica di quella che doveva essere la condizione di Delfi nella seconda metà del IV secolo, e a quest'epoca si riferisce la poesia di Kavafis intitolata “Giuliano, constatando negligenza”.

    Ma la potenza di Giuliano non si dimostrò sufficiente a portare a compimento l'impresa della restaurazione di una religione che, oltre a non possedere elementi ideologici e precetti morali, era ormai già avviata verso una rapida decadenza che nessuna riforma avrebbe potuto arrestare. Dagli scritti di Giuliano, specialmente da quelle che Gibbon definì, con una espressione assai felice, vere e proprie lettere pastorali,[95] appare chiaro che l'Apostata invidiava l'organizzazione ecclesiastica cristiana che egli conosceva così intimamente e che si proponeva di sottrarre ai galilei le benemerenze da essi acquisite tramite opere di carità ed enti filantropici. Le Epistole 84, 88, 89a, così come l'esteso frammento 89b al quale mancano l'inizio e la fine, costituiscono saggi assai interessanti di quali fossero i propositi di Giuliano in materia politica e religiosa. Lo spirito di emulazione lo spinse ad accogliere quelle istituzioni cristiane che, per il loro buon funzionamento e per il credito di cui godevano, costituivano la chiave di volta della Chiesa cristiana.

    Intorno al solstizio d'estate dell'anno 362 Giuliano, lasciata Costantinopoli, intraprese un lungo viaggio alla volta di Antiochia al fine di preparare la guerra contro i persiani. Egli passò per Calcedonia, per Libyssa - nei cui pressi si mostrava la tomba di Annibale-, quindi per Nicomedia. Superata Nicea, si recò in pellegrinaggio all'antico tempio di Cibele, la Grande Madre degli dei, a Passinunte e, raggiunta quindi Ancira, In Galazia, attraversò gli altipiani cappadoci.[96] Ovunque si trovasse, Giuliano cercava anche negli altri il fervore che egli nutriva verso gli dei. Tuttavia, in mezzo alle moltitudini che lo acclamavano egli, forse, cominciava già a sentire che l'irresistibile impeto religioso che lo animava, faceva di lui una persona estremamente sola e, per di più, tale zelo che appariva stravagante agli stessi pagani, lo portava a compiere eccessi che difficilmente potevano essere emulati. La maggior parte dei pagani, infatti, continuavano a vivere secondo i prediletti costumi aviti e non apprezzavano affatto l'irruzione di tanto ascetismo nel loro piacevole modus vivendi.

    Risale all'incirca al mese di gennaio del 362 una epistola inviata dall'imperatore all'amico Teodoro, gran sacerdote dei galati, e concernente le radicali riforme che Giuliano si studiava di introdurre nella vita e nei costumi del clero pagano. Quale  pontifex maximus, l'imperatore conferiva a Teodoro l'autorità di sorvegliare tutti i culti e tutti i sacerdoti della provincia d'Asia, lamentandosi sovente della mancanza di fervore del proprio partito.

 

    « JOrw'n ou\n pollh;n me;n ojligwrivan ou\san hJmi'n pro;" tou;" qeouv", a[pasan de; aujlavbeian th;n eij" tou;" kreivttona" ajpelhlamevnhn uJpo; th'" ajkaqavrtou kai; trufh'", ajei; me;n ou\n wjduravmhn ejgw; kat' ejmauto;n ta; toiau'ta, tou;" men.....wn.....eiva" scolh/' prosevconta" ou{tw diapuvrou" wJ" aiJrei'sqai me;n uJpe;r aujth'" qavnaton, ajnevcesqai de; pa'san e[ndeian kai; limovn, uJeivwn o{pw" mh; geuvsainto nhde; krevw" tou mh; paracrh'ma ajpoqlibevnto", hJma'" de; ou{to rJa/quvmw" ta; pro;" tou;" qeou;" diakeimevnou", w{ste ejpilelh'sqai me;n tw'n patrivwn, ajgnoei'n de; loipo;n eij kai; ejtavcqh pwvpotev ti toioi'ton.»[97]

 

O IOULIANOS, ORWN OLIGWRIAN

 

« JOrw'n ou\n pollh;n me;n ojligorivan ou\san

hJmi'n pro;" tou;" qeou;"» - levgei me; u{fo" sobarovn.

 jOligwrivan. Ma; tiv perivmene loipovn;

 {Oso h[qelen a]" e[kamnen ojrgavnwsi qrhskeutikhv,

o{so h[qelen a]" e[grafe sto;n ajrciereva Galativa",

h] eij" a[llou" toiouvtou", parotruvnwn ki oJdhgw'n.

OiJ fivloi tou de;n h\san Cristianoiv:

aujto; h\tan qetikovn. Ma; de;n mporou'san kiovla"

na; paivzoun sa;n ki aujtovna (to;n Criastianomaqhmevno)

me; suvsthma kainouvria" ejkklhsiva",

ajstei'on kai; sth;n sullhyi kai; sth;n ejfarmoghv.

 {Ellhne" h\san ejpi; tevlou". Mhde;n a[gan, Aujgouste.[98]

 

    Risale press'a poco a questo medesimo periodo un diverbio avvenuto fra Giuliano e alcuni vescovi cristiani, verosimilmente i sue Apollinari di Laodicea,[99] diverbio tramandatoci da Sozomeno.[100] Per mettere in ridicolo la letteratura cristiana, Giuliano scrisse ai vescovi più noti del suo tempo asserendo di aver letto le loro opere, di averle capite e di averle anche condannate.[101] È degno di nota osservare che i vescovi, nella loro lapidaria risposta all'imperatore, usarono anch'essi verbi derivati di gignwvskw, ispirandosi inoltre, almeno in parte, a reminiscenze scritturarie.[102] Si riferisce a tale episodio della vita di Giuliano la poesia «Oujk e[gnw"» (“Inteso, no”), di cui non conosciamo la data di composizione e che Kavafis pubblicò nel 1928.

 

Gia; ;te;" qrhskeutikev" ma" doxasive" -

oJ kou'fo" jIouliano;" ei\pen « jAnevgnwn, e[gnwn,

katevgnwn». Tavcate" ma'" ejkmhdevnise

me; to; «katevgnwn» tou, oJ geloiwdevstato".

 

Tevtoie" xupnavde" o{mw" pevrasi de;n e[coune s'  ejma'"

tou;" Cristianouv". « jAnevgnw", ajll'oujk e[gnw": eij ga;r e[gnw",

oujk a]n katevgnw"» ajpavnthsen ajmevsw".[103]

 

    Dietro l'intraducibile gioco verbale costituente l'epigrammatica risposta dei cristiani a Giuliano riecheggia palesemente la voce stessa del Poeta, e le parole, specialmente gli aggettivi, che questi pone sulle labbra dei vescovi per qualificare l'Apostata, non lasciano alcun dubbio sui sentimenti nutriti da Kavafis per Giuliano. L'incontro-scontro fra l'effimero restauratore del paganesimo e i cristiani educati nella tradizione classica, riflette in maniera assai paradigmatica l'affascinante e assai difficile questione riguardante gli intricati rapporti fra cristianesimo e cultura ellenica nel periodo più critico del divenire della fusione della cultura classica con la fede cristiana, questione che suscitò in Kavafis un interesse che lo avrebbe accompagnato per tutta la vita.

    Durante il suo soggiorno in Antiochia, Giuliano non si occupò solo degli affari concernenti l'amministrazione civile e i preparativi militari, ma volle anche portare avanti i suoi piani per la restaurazione dell'antica religione in mezzo a un popolo maldisposto sia verso la sua persona che verso il suo paganesimo ascetico, e fu precisamente in questa città che i rapporti fra l'imperatore e gli antiocheni subirono un irreversibile processo di esacerbazione. Gibbon, di cui Kavafis - come abbiamo già osservato -, fu un attentissimo lettore, descrisse in maniera assai suggestiva il temperamento degli antiocheni: secondo lo storico inglese, se da un lato il calore del clima li rendeva inclini ai godimenti più sfrenati, dall'altro si fondeva in essi la mollezza dei siri con la libertà dei greci; inoltre per gli antiocheni la moda era la sola legge, il piacere l'unico scopo e lo splendore delle vesti e degli arredi il loro unico tratto caratteristico; le rappresentazioni nei teatri e nell'ippodromo costituivano la loro più ardente passione ed essi consideravano la magnificenza di tali spettacoli, la gloria più sublime e la felicità

 assoluta di Antiochia. L'imperatore filosofo, che con il suo ascetico modus vivendi disprezzava la gloria in genere e soprattutto quel tipo di felicità, non tardò a urtare la suscettibilità dei suoi sudditi i quali non erano né in grado di emulare né tanto meno di amare la severa e sovente ostentata semplicità dell'augusto. La gran maggioranza degli antiocheni, sebbene tenacemente attaccati alla parola «cristiano», concepita per la prima volta dai loro antenati,[104] e pur rimanendo scrupolosamente attaccati alle dottrine speculative cristiane, non esitavano a trasgredirne, all'evenienza, i precetti morali. Deriso dagli antiocheni a motivo della sua austerità di vita, oltre che per la sua incolta barba da filosofo, Giuliano reagì scrivendo il Misopogon, una pungente satira contro l'effeminatezza e la libertà di costumi degli abitanti di Antiochia i quali professavano ingegnosamente la loro predilezione per il C e per il K - lettere greche iniziali rispettivamente di Cristo e di Costanzo -, vale a dire per il cristianesimo, some scrisse lo stesso Giuliano:[105] 

 

    «To; Ci', fasivn, oujde;n hjdivkhse th;n povlin oujde; to; Kavppa... Tucovnte" de; hJmei'" ejxhghtw'n.... ejdidavcqhmen ajrca;" ojnomavtwn ei\nai ta; gravmmata, dhlou'n de; ejqevlein to; me;n Cristovn, to; de; Kwnstavntion.»[106]

 

    Nonostante questo brano dal Misopogon citato in exergo da Kavafis nella sua poesia “Giuliano e gli antiocheni” ne costituisca la fonte primaria, e sebbene vi sia la possibilità che il Poeta abbia attinto direttamente a Giovanni Crisostomo, Libanio, Ammiano Marcellino e Sozomeno,[107] sappiamo che fu Gibbon il motivo ispiratore di questa poesia di cui non conosciamo l'esatta data di composizione e che fu pubblicata soltanto nel novembre 1926. Nel 1918 la rivista letteraria alessandrina Grammata pubblicò una recensione di Kavafis al libro jEkklhsiva kai; Qevatron (Chiesa e teatro) di Gregorio Papamichaìl,[108] recensione in cui il Poeta - riferendosi a quella parte del XXIV capitolo del Decline and Fall in cui si allude agli antiocheni e al loro ejnhvdono" bivo" - asseriva:

 

    «Meta; th;n megavlhn, th;n qaumasivan jAlexavndreian, aujto; ;to; kevntro tou' JEllhnismou' eJlkuvei th;n fantasiva mou.(³)

________

-------------------

(3) JO Gkivmpon levgei o{ti gia; ;tou;" jAntiocei'" (th'" ejpoch'" tou'  jIoulianou' ' «fashion was the only law, pleasure the only pursuit, and the splendor of dress and furniture was the only distinction.»

 

O IOULIANOS KAI OI ANTIOCHEIS

 

 [Htane dunato;n pote; n'ajparnhqou'n

th;n e[morfhv tou" diabivwsi: th;n poikiliva

tw'n kaqhmerinw'n tou" diaskedavsewn: to; lamprov tou"

qevatron o{pou mia; e{nwsi" ejgevnontan th'" Tevcnh"

me; te;" ejrwtikev" th'" savrka" tavsei"!

 

 jAnhvqikoi mevcri tino;" - kai; piqano;n mevcri pollou' -

h\san. jAll'ei\can th;n ijkanopoivhsi pou; oJ bivo" tou"

h\tan oJ  p e r i l av l h t o " bivo" th'" jAntioceiva",

oJ ejnhvdono", oJ ajpovluta kalaivsqhto".

Na; t'ajrnhqou'n aujta;, gia; ;na; prosevxoun kiovla" tiv;

 

Te;" peri; tw'n yeudw'n qew'n ajerologive" tou,

te;" ajniare;" periautologive":

th;n paidariwvdh tou qatrofobiva:

th;n a[cari semnotufiva tou: ta; geloi'a tou gevneia.

 

 \A bevbaia protimouvsane to; Ci',

a\ bevbaia protimouvsane to; Kavppa: eJkato;  forev".[109]

 

    In quel satirico messaggio noto come Misopogon e destinato non solo al popolo di Antiochia, ma anche ai curiali della città, oiJ ejn tevlei, per usare la definizione di Giuliano, questi deplora incessantemente la generale indifferenza verso i suoi tentativi di restaurazione pagana. Il piano verosimilmente più sensazionale concepito dal barbuto imperatore filosofo con l'occulto scopo di favorire tali suoi tentativi - e che nonostante la sensazionalità non suscitò la benché minima ispirazione in Kavafis -, contemplava la riedificazione del tempio giudaico di Gerusalemme che era stato distrutto dalle legioni di Tito e di Adriano.[110] Ci è pervenuto un minuscolo frammento dell'epistola che l'Apostata inviò agli ebrei disseminati nelle varie province dell'Impero, con la quale egli assicurava che avrebbe posto tutto il suo zelo per mandare a effetto tale piano.[111] Ma più che riedificare l'antico tempio mosaico, Giuliano, in verità, mirava a dimostrare l'infondatezza della profezia cristiana secondo la quale il tempio non sarebbe mai risorto.

    La precaria situazione esistente fra l'imperatore e i suoi sudditi si aggravò allorché alla loro indifferenza verso gli dei, venne ad aggiungersi una sacrilega calamità che,  inopinatamente, colpì Apollo nel suo santuario situato nel sobborgo di Dafne, nei dintorni di Antiochia. Al fine di stimolare il ritorno delle moltitudini siriane in seno all'antica religione pagana e per esorcizzare le iniquità insite nel cristianesimo, Giuliano, ancor prima di giungere in Antiochia provenendo da Costantinopoli, aveva inviato una epistola al conte dell'Oriente Giulio Giuliano, fratello di Basilina, e quindi suo zio, oltre che suo omonimo, incaricandolo di provvedere sollecitamente affinché si riportasse all'antico splendore l'inclito santuario del dio della luce a Dafne:

 

    «Peri; de; w|n ejpevsteilav" moi, pavnta ejpainw', pavnta qaumavzw, ejnoi'" oujdevn ejstin ajpovblhton ejx ejkeivnwn: i[sqi ou\n o{ti kai; pavnta pravxw su;n qeoi'". Tou;" kivona" tou;" Dafnaivou" qou' pro; tw'n a[llwn: tou;" ejk basileivwn tw'n pantacou' labw;n ajpokovmison: uJpovsthson de; eij" ta;" ejkeivnwn cwvra" tou;" ejk tw'n e[nagco" kateilhmmevnwn oijkiw'n: eij de; kajkei'qen ejpileivpoien, <sth'son> ojpth'" plivnqou kai;; kovnew", e{w" e{xwqen marmarwvsante" ejntelestevroi" crhswvmeqa. To; de; o{sion o{ti poluteleiva" ejsti; krei'tton kai; toi'" eu\ fronou'sin hJdonh;n ejn bivw/ kai; th'/ crhvsei e[con pollhvn, aujto;" oi\da".»[112]

 

    A poche miglia di distanza a ovest di Antiochia, i re Seleucidi avevano edificato un tempio al cui interno si ergeva una grande statua - opera dell'ateniese Bryaxis -, dedicata ad Apollo. In prossimità del tempio, che divenne rapidamente uno dei luoghi di culto più celebri del mondo pagano, sorse, con l'andar del tempo, un villaggio; santuario e villaggio erano situati in una vasta selva di lauri e di cipressi tutelati da un decreto che ne proibiva la recisione, e numerosi ruscelli d'acqua perenne provvedevano a mantenere ubertoso il terreno e a mitigare la calura.[113] Alcune settimane dopo il suo arrivo ad Antiochia, Giuliano decise di presiedere, in veste di pontefice massimo, alla festa annuale di Apollo e, mentre aspettava, tutto pervaso di fervore religioso, si figurava nelle mente incensamenti, libagioni ed ecatombi di pingui buoi, lunghe processioni di giovinette e di efebi biancovestiti e la commossa partecipazione delle moltitudini.[114] Ma una grande delusione era in attesa del pio augusto: giunto al santuario di Dafne, a Giuliano non rimase che constatare che le cerimonie per la festa annuale di Apollo venivano celebrate da un solo sacerdote e che non ecatombi di pingui buoi sarebbero state sacrificate, bensì una sola oca, personale oblazione dell'unico sacerdote rimasto quale cereo, solingo custode di quel tempio in totale decadenza:[115]

 

    « JW" de; ei[sw parh'lqon tou' temevnou", ou[te qumiavmata katevlabon ou[te povpanon ou[te iJerei'on. Aujtivka me;n ou\n ejqauvmasa kai; w/[mhn e[xw tou' 'temevnou" ei\nai, perimevnein de; uJma'", ejme; dh; timw'nta" wJ" ajrciereva, to; suvnqhma par ejmou'. jEpei' ;de; hjrovmhn tiv mevllei quvein hJ povli" ejniauvsion eJorth;n a[gousa tw/' qew/', oJ iJereu;"  ei\pen: ejgw; me;n h{kw fevrwn oi[koqen tw/' qew/' ch'na iJerei'on, hJ povli" de; ta; nu'n oujde;n hujtrevpistai. jEntau'qa oJ filapecqhvmwn ejgw; pro;" th;n boulh;n ajnepieikei'" pavnu dielevcqhn lovgou", w|n i[sw" oujk a[topon kai; nu'n mnhmoneu'sai.»[116]

 

    Ma per quale ragione il santuario di Apollo era stato abbandonato dal dio, e perché l'onda profetica del suo oracolo si era interrotta? menzionato da Eusebio nella successione dei vescovi di Antiochia, aveva reso l'anima a Dio dopo la persecuzione voluta da Decio intorno alla fine della prima metà del III secolo d. C., e i resti del martire cristiano giacquero nel loro avello fino al giorno in cui l'ariano fratellastro di Giuliano, Gallo, non ne ordinò la traslazione fra i cipressi della selva di Dafne. Moltiplicatesi con il trascorrer degli anni le tombe dei cristiani che desideravano dormire il sonno eterno presso il sepolcro del loro santo vescovo, la maggior parte dei sacerdoti di Apollo e i loro adepti avevano abbandonato, iracondi, il sacro suolo profanato. Giuliano si adoperò freneticamente affinché Apollo non fosse più disturbato dalla esecrabile presenza dei cristiani, vivi o morti che fossero, poiché erano stati sicuramente loro la causa che aveva indotto l'oracolo al silenzio. Ipso facto, le tombe dei cristiani furon trasferite nel cimitero di Antiochia, e il terreno venne purificato secondo gli antichi rituali eseguiti dagli ateniesi sull'isola di Delo.[117] Quanto alle reliquie di san Babila, esse ricevettero un trattamento che irritò ancor di più Giuliano: i cristiani le raccolsero con amore e con onore e, riuniti in lunga processione dietro l'alto carro  su cui erano state poste, le scortarono fino al cimitero di Antiochia intonando quei salmi di Davide che maggiormente esprimevano disprezzo per gli dei e per i pagani.[118] Il 22 ottobre, nel cuor della notte, il tempio di Apollo a Dafne andò in fiamme e, insieme al tempio, fu ridotto in cenere anche il simulacro del dio. Ma com'era avvenuta l'immane calamità? L'incendio era stato causato da una negligenza o da un fulmine - come sostenevano i cristiani -, oppure da un atto doloso? Nonostante i risultati negativi emersi dalle indagini svolte, Giuliano volle credere alla seconda ipotesi, sebbene uno storico assai affidabile quale Ammiano Marcellino definì «levissimus rumor» le voci che attribuivano ai galilei la reità del sacrilego incendio.[119]

    Si riferisce a questi avvenimenti storici una lirica in forma di monologo drammatico composta nel 1932 o 1933, e che è fra l'altro anche l'estrema poesia scritta da Kavafis, quella con la quale egli salutava Alessandria che se n'andava La drammaticità è assai intensa, e anche in questo l'elemento dominante è costituito dal conflitto tra paganesimo e cristianesimo, nella fattispecie fra Giuliano e le moltitudini di Antiochia. Il carattere fortemente colloquiale delle espressioni usate dall'anonimo interlocutore del monologo, non solo rivela in maniera chiara il risentimento dei cristiani nei confronti di Giuliano, ma conferisce simultaneamente sia una grande naturalezza narrativa al monologo stesso, che una immediatezza assolutamente insolita al remoto avvenimento storico.

 

STA PERICWRA THS ANTIOCEIAS

 

Sastivsame sth;n jAntiovceian o{tan mavqame

ta; neva kamwvmata tou' jIoulianou'.

 

 JO jApovllwn ejxhghvqhke me; lovgo tou, sth;n Davfnh!

Crhsmo; de;n h[qele na; dwvsei (skotiqhvkame!),

skopo; de;n to[ce na; milhvsei mantikw'", a]n prw'ta

de;n kaqarivzontan to; ejn Davfnh/ tevmenov" tou.

To;n ejnoclou'san, dhvlwsen, oiJ geitoneuvonte" nekroiv.

 

Sth; Davfnh brivskontan tavfoi polloiv.

 {Ena" ajp  tou;" ejkei' ejntafiasmevnou"

h\tan oJ qaumastov", th'" ejkklhsiva" ma" dovxa,

oJ a{gio", oJ kallivniko" mavrtu" Babuvla".

 

Aujto;n aijnivttontan, aujto;n fobou'ntan oJ yeutoqeov".

 {Oso to;n e[noiwqe konta; de;n kovtae

na; ;bgavlei tou;" crhsmouv" tou: tsimoudiav.

(Tou;" trevmoune tou;" mavrturav" ma" oiJ yeutoqeoiv).

 

 jAnaskoumpwvqhken oJ ajnovsio" jIoulianov",

neuvriase kai; xefwvnize: Shkw'ste, metafevrte ton,

bgavlte ton tou'ton to;n Babuvla ajmevsw".

 jAkou'" ejkei'; JO jApovllwn ejnoclei'tai.

Shkw'ste ton, aJrpavxte ton eujquv".

Xeqavyte ton, pavrte ton o{pou qevte.

Bgavlte ton, diw'xte ton. Paivzoume twvra;

 JO jApovllwn ei\pe na; kaqarisqei' to; tevmeno".

 

To; phvrame, to; phvgame, to; a{gio leivyano ajllou'.

To; phvrame, to; phvgame ejn ajgavph/ k'  ejn timh/'.

 

Ki wJrai'a twovnti provkoye to; ;tevmeno".

De;n a[rghse kaqovlou, kai; ;fwtia;

megavlh kovrwse: mia; brafoberh; fwtiav:

kai; kavhke kai; to; tevmeno" ki oJ  jApovllwn. 

 

Stavcth to; ;ei[dwlo: gia; savrwma, me; ;ta; skoupivdia.

 

 [Eskase oJ jIuoliano;" kai; de;n dievdose -

tiv a[llo qa; ;e[kamne - pw;" hJ fwtia; h\tan balth;

ajpo; tou;" Cristianou;" ejma'". ]A" pavei na; ; levei.

De;n ajpodeivcqhke: a]" pavei na; levei.

To; oujsiw'de" ei\nai pou; e[skase.[120]

 

    Oltre alla dettagliata e drammatica descrizione della distruzione del santuario di Apollo a Dafne narrata da Gibbon, sembra pressoché certo che Kavafis abbia avuto presenti anche altre fonti quali Giovanni Crisostomo, Libanio, Socrate, Ammiano Marcellino e, naturalmente, lo stesso Giuliano.[121] Kavafis, dunque, continuò fino all'ultimo a rivolgersi a Gibbon per attingere informazioni sia su Giuliano che sulla temperie socio-culturale del IV secolo in generale.

    Intorno all'inizio della primavera del 363, prima di intraprendere le operazioni militari contro Sapore, Giuliano fece affiggere il testo del Misopogon alle porte del proprio palazzo e, per punire ulteriormente Antiochia, nominò governatore dell'ingrata città Alessandro di Ierapoli, individuo avido e insolente, assai noto per le sue poco edificanti prerogative e che, precisamente per questo, aveva ritenuto degno di governare gente come gli antiocheni. Al momento della partenza per la guerra, una moltitudine variegata circondò l'amareggiato sovrano per augurargli una spedizione propizia e un trionfale ritorno, oltre che per supplicarlo di mitigare l'asprezza del carattere. Giuliano tuttavia, memore delle contumelie degli antiocheni, li assicurò che quella sarebbe stata l'ultima volta che essi lo vedevano. L'augusto, infatti, aveva deciso che subito dopo la campagna contro i persiani, avrebbe stabilito i quartieri d'inverno a Tarso, e aveva scrittoi a Memorio, governatore di quella città, affinché si provvedesse agli opportuni preparativi.[122]

    Ci è pervenuta una elegante epistola, redatta da Giuliano a Ierapoli e destinata all'amico Libanio, nella quale l'imperatore - come in un diario - fornisce al sofista di Antiochia una particolareggiata esposizione dei fatti avvenuti durante la spedizione militare: le disillusioni causate senza tregua dagli affari religiosi, i sacrifici offerti agli dei, i presagi ottenuti, gli stupori e le delusioni di un viaggio attraverso una regione in parte deserta, in parte disseminata di città ridenti. Narra Giuliano che dopo due giorni di difficile marcia, il terzo giorno sostò a Berea, o Aleppo, dove si recò a visitar l'acropoli e, dopo aver immolato un bianco toro a Zeus, si intrattenne con il senato della città intorno al culto degli dei; ma i membri del senato erano pressoché tutti cristiani e gli applausi palesemente freddi e formali che essi tributarono all'eloquente discorso di Giuliano costituirono un motivo di profondo avvilimento per l'apostolo del paganesimo:[123]

 

    « jEpimeivna" de; hJmevran ejkei', th;n ajkrovpolin ei\don, kai; e[qusa tw'/ Dii; basilikw'" tau'ron leukovn, dielevcqhn de; ojlivga th'/ boulh'/ peri; qeosebeiva". jAlla; tou;" lovgou" ejph/vnoun me;n a[pante", ejpeivsqhsan de; aujtoi'" ojlivgoi pavnu, kai; ou\toi oi| kai; pro; tw'n ejmw'n lovgwn ejdovkoun e[cein  uJgiw'", eujlabou'nto de; w{sper parrhsiva" ajpotrivyasqai th;n aijdw' kai; ajpoqevsqai.»[124]

 

    Prima che Giuliano ripartisse da Berea alla volta di Batne, l'odierna Tell Batnân, accadde un episodio assai appropriato - apparentemente - a suscitare l'ispirazione di Kavafis ma che questi, tuttavia, decise di ignorare, episodio cui allude Giuliano stesso nella sua epistola a Libanio e che fu narrato più ampiamente da Teodoreto e da Gibbon. Un giovane - figlio di una eminente personalità cristiana residente in Berea -, convertitosi forse per interesse al paganesimo, era stato diseredato dal genitore; venuto a conoscenza di ciò, Giuliano invitò alla propria mensa padre e figlio e, sedutosi, in mezzo a essi, li esortò alla tolleranza ma non riuscì che a risvegliare lo zelo del vecchio cristiano il quale sembrava totalmente dimentico sia dei sentimenti di un padre verso il figlio, che del rispetto dovuto da un suddito verso il proprio sovrano. Rivolgendosi a tal punto al triste giovane, Giuliano esclamò: «Giacché hai perduto un padre per causa mia, spetta a me farne le veci.»[125]

 

    Batne che, nonostante il toponimo barbaro, era una località - mi si consenta l'espressione - kavafianamente ellenica, accolse Giuliano in maniera solo in apparenza più consona alle sue sollecitazioni religiose:

 

«Ai{ ge mh;n Bavtnai (barbariko;n o[noma tou'to) cwrivon ejsti;n JEllhnikovn, prw'ton me;n o{ti dia; pavsh" th'" pevrix cwvra" ajtmoi; libanwtou' pantacovqen ajnh/'san, iJerei'av te ejblevpomen eujtreph' pantacou'. Tou'to me;n ou\n eij kai; livan eujfranev me, qermovteron o{mw" ejdovkei kai; th'" eij" tou;" qeou;" eujsebeiva" ajllovtrion (...).»[126]

 

    Tuttavia, a dispetto della solennità dei riti sacrificali celebrati dai cittadini di Batne, il poco riverente tumulto dei loro applausi offese la devozione dell'imperatore il quale intese assai chiaramente che i vapori innalzantisi da quelle are non erano incensamenti ispirati dalla pietà, bensì dalla adulazione.[127]

    Ma Giuliano, avendo assunto quale modello Alessandro, avanzò verso Ierapoli e successivamente verso Carre, o Harrân, antica residenza dei sabei e di Abramo, e dove il tempio della Luna attrasse la devozione dell'augusto. A Carre, luogo in cui si biforcavano due importati strade, Giuliano divise l'esercito in due parti: una, sotto il comando di Procopio e di Sebastiano, avrebbe marciato lungo il Tigri fino a Nisibi, mentre l'altra, al comando di Giuliano medesimo, avrebbe proceduto lungo le sponde dell'Eufrate. Le cose sembravano andare nella maniera più favorevole: attraversato il fiume Abora, un affluente dell'Eufrate, che segnava la frontiera fra i due grandi imperi nemici, Giuliano, al fine di persuadere i suoi legionari che la loro salvezza sarebbe dipesa esclusivamente dal trionfo delle loro armi, fece distruggere immediatamente il ponte sull'Abora. Indi l'imperatore, a mano a mano che penetrava sempre più all'interno del territorio nemico, espugnò alcune importanti cittadelle persiane grazie ad assedi condotti con raffinata scienza strategica, memorabili fra tutti quelli che permisero la conquista di Pirisabora e di Maogamalca, fortezza, quest'ultima, assai vicina al cuore della Persia. Giuliano avanzava con l'esercito e i suoi legionari continuavano a infliggere ragguardevoli perdite ai nemici allorché - in un nuovo scontro -, egli fu trafitto da un giavellotto lanciato da mano ignota.[128]

    Soccorso da alcuni soldati e trasportato nella sua tenda, l'imperatore trascorse gli istanti che gli rimanevano da vivere mostrando la forza d'animo che, in simili frangenti, è prerogativa dei saggi; gli amici e i filosofi che lo avevano accompagnato in quella fatale spedizione - Sallustio e Oribasio, Prisco e Massimo -, ascoltarono con riverente dolore l'orazione funebre che l'augusto, morendo, pronunciò con voce ferma e serena, e pervenutaci grazie alla minuziosa relazione della morte di Giuliano eseguita da Ammiano Marcellino. Terminata l'orazione funebre e distribuiti con un testamento militare i propri beni privati, l'imperatore intraprese una discussione metafisica sulla natura dell'anima insieme ai filosofi Prisco e massimo, ma intorno alla mezzanotte, verosimilmente stremato dagli sforzi fisici e morali, spirò alzando il grido: «Nenivkhka" Cristev: korevsqhti Nazwrai'e».[129] Con la inopinata quanto prematura scomparsa del pagano Giuliano, l'impero si trovò privo di una guida e di un erede, ma l'esercito acclamò ben presto augusto Gioviano che, sebbene «edax et vino Venerique indulgens», faceva grande sfoggio della sua devozione cristiana.[130]

    Secondo gli ultimi desideri espressi da Giuliano prima di partire da Antiochia, il suo corpo, onorevolmente imbalsamato, fu sepolto a Tarso, in Cilicia, e sulla sua tomba venne inciso il seguente epigramma:

 

                        jIouliano;" meta; Tivgrin ajgavrroon ejnqavde kei'tai,

            ajmfovteron basileuv" tajgaqo;" kraterov" taijcmhthv".[131]

 

    Lo storico ecclesiastico Teodoreto narra che appena la morte di Giuliano raggiunse Antiochia, i vendicativi abitanti di quella città - da tempo antico ellenica e adesso prevalentemente cristiana -, si abbandonarono a manifestazioni di giubilo, e una grande processione alla testa della quale vi era una grande croce sfilò per le vie.

    Elaborando, forse, liberamente la versione che di tale episodio redasse Teodoreto, e attingendo verosimilmente alcuni altri particolari alla descrizione della processione pagana vagheggiata dallo stesso Giuliano e nella quale egli aveva immaginato un lungo corteo di fanciulle e di efebi biancovestiti che sfilava a Dafne in occasione della festa annuale di Apollo, Kavafis compose una poesia che pubblicò nell'agosto 1926 con il titolo di «Gran processione d'ecclesiastici e laici». Tale lirica, tuttavia potrebbe essere, stando ad alcune affinità tematiche, la rielaborazione di una poesia del 1892 e della quale ci è pervenuto solo il titolo, “La croce”. Inoltre il poeta alessandrino potrebbe aver attinto a Gregorio di Nazianzo e a Sozomeno certi dettagli concernenti le manifestazioni di giubilo che accompagnarono la morte di Giuliano l'Apostata.[132]

 

MEGALH SUNODEIA EX IEREWN KAI LA:I:KWN

 

 jEx iJerevwn kai; la:i:kw'n mia; sunodeiva,

ajntiprosopeumevna pavnta ta; ejpaggevlmata,

dievrcetai oJdouv", plateev", kai; puvle"

th'" periwnuvmou povlew"  jAntioceiva".

 

Sth'" ejpiblhtikh'", megavlh" sunodeiva" th;n ajrch;

wJrai'o", leukontumevno" e[fhbo" basta'

me; ajnuywmevna cevria to;n Staurovn,

th;n duvnamin kai; th;n ejlpivda ma", to;n a{gion Staurovn.

 

OiJ ejqnikoiv, oiJ pri;n tosou'ton uJperfivaloi,

sunestalmevnoi twvra kai; deiloi; me; bivan

ajpomakruvnontai ajpo; th;n sunodeivan.

Makra;n hJmw'n, makra;n hJmw'n na; ;mevnoun pavnta

(o{so th;n plavnh tou" de;n ajparnou'ntai). Procwrei'

oJ Ja{gio" Staurov". Eij" kavqe sunoikivan

o{pou ejn qeosebeiva/ zou'n oiJ Cristianoi;

fevrei parhgorivan kai; carav:

bgaivnoun, oiJ eujlabei'", ste;" povrte" tw'n pistw'n tou"

kai;  plhvrei" ajgalliavsew" to;n proskunou'n -

th;n duvnamin, th;n swthrivan th'" oijkoumevnh", to;n Staurovn.-

 

Ei\nai mia; ejthvsia eJorth; Cristianikhv.

Ma; shvmera telei'tai, ijdou', pio; ejpifanw'".

Lutrwvqhke to; ;kravto" ejpi; tevlou".

 JO miarovtato", oJ ajpotrovpaio"

 jIouliano;" de;n basileuvei piav.

 

 JUpe;r tou' eujsebestavtou jIobianou' eujchqw'men.[133]

 

    Le ultime due poesie giulianee di cui ci occuperemo, lasciate incompiute da Kavafis, sono state ricostruite nel 1981 da Renata Lavagnini. La prima, risalente all'aprile 1920, è intitolata «Atanasio» e allude a un episodio avvenuto presumibilmente in Egitto, nello stesso istante in cui l'Apostata passava a miglior vita. Narra Gibbon che, morto Giuliano, se da un lato i pagani lo annoverarono nel numero di quelle divinità il cui culto egli così ferventemente aveva tentato di restaurare, dall'altro le invettive dei cristiani seguirono l'anima del nipote di Costantino il Grande fino all'inferno e la sua salma fino al magnifico sepolcro che gli era stato preparato sulle rive del fresco e limpido Cidno. Mentre i cristiani glorificavano la portentosa affrancazione della loro Chiesa, i pagani si condolevano per la immane catastrofe che si era abbattuta sulle are dei loro dei; i cristiani, resi tracotanti dalla vendetta divina che aveva folgorato l'empio Apostata, affermavano che la morte del tiranno nel momento stesso in cui egli era spirato al di là del Tigri, era stata rivelata ai santi d'Egitto, della Siria e della Cappadocia, e lo storico inglese aggiunge - con illuministica ironia -, che, in effetti, precisamente in quella notte fu notato che un qualche santo o un qualche angelo era assente per compiere una segreta missione.[134]

    Tuttavia, l'etiologia della lirica “Atanasio” fu indicata da Kavafis medesimo, poiché il fascicolo F57 dell'Archivio Kavafis contiene, oltre all'abbozzo della lirica e a un appunto assai importante, anche un brano che il Poeta alessandrino trascrisse, secondo il proprio abituale sistema tachigrafico, da The Story of the Church in Egypt di E. L. Butcher, opera pubblicata a Londra nel 1897:

 

    «Ath[anasius] st[ayed] s[o]m[e] ti[me] in Hermopolis and Antinoe, preaching / and op[en]ly perf[orming] h[is] du[ties], as if on an or[inary] vis[itation] tour; but at / m[id]sum[mer] he rec[eived] fr[esh] warning that he was in d[an]g[er], and Theodore ca[me] ag[ain] w[ith] an[o]ther abbot to entreat h[im] to conceal / h[im]sel[f] in Tabenna. He embarked in a cov[ered] boat w[ith] / t[he] 2 monks; but t[he] wind was [a]g[ain]s[t] th[em], and it b[e]ca[me] nec[essary] to tow / t[he] b[oat] w[ith] painful slowness. Ath[anasius] was for s[ome] ti[me] absorbed / in prayer, and did n[ot] obse[rve] t[he] f[a]c[es] of h[is] 2 co[mpanions]. At length he / turned to th[em] and beg[an] “If I am killed” - but / broke off as a cur[ious] smile p[a]ss[ed] b[e]tween t[he] 2 monks, who / thereupon inf[ormed] h[im] that ev[en] whi[le] he prayed they had rec[eived] / a sup[er]nat[ural] intim[ation] that Julian was no mo[re]. J[ulian] was in fact, / slain on t[he] field of bat[tle] on June 26, 363.

                                                                Mrs Butcher

                                                The Story of the Church of Egypt

                                                          pages, 184, 185»[135]

 

     L'aneddoto narrato da E. L. Butcher, riguardante i due monaci che mentre stavano in barca sul Nilo insieme a sant'Atanasio, avevano appreso, tramite percezione extrasensoriale la notizia della morte di Giuliano, possedeva indubbiamente tratti caratteristici assai appropriati a stimolare l'ispirazione di Kavafis, e tale aneddoto è palesemente la fonte della poesia intitolata “Atanasio”, composta nell'aprile 1920.[136]

 

 

 

AQANASIOS

 

Mevsa se; bavrka ejpavnw sto;n megavlo Nei'lo,

me; duo; pistou;" suntrovfou" monacouv",

fuga;" kai; talaipwrhmevno" oJ jAqanavsio",

- oJ ejnavreto", oJ eujsebhv", oJ Jth;n ojrqh;n pivsthn thrw'n -

proseuvcontan. To;n katadivwkan oiJ ejcqroi

kai; livgh ejlpi;" uJpu'rce na; swqei'.

 \Htan oJ a[nemo" ejnavntio":

kai; duvskola hJ saqrh; bavrka tou" procwvrei.

 

Sa;n ejteleivwse th;n proseuvch,

e[streye to; qlimmevno blevmma tou

pro;" tou;" suntrovfou" tou - ki ajpovrhse

blevponta" to; paravxeno meidivasmav tou".

OiJ monacoiv, ejnw' proseuvcontan ejkei'no",

ei\can sunaisqanqei' tiv ejgivnontan

sth;n Mesopotamiva: oiJ monacoi;

ejgnwvrisan pou; ejkeivnh th;n stigmh;

to; kavqarma oJ jIouliano;" ei\cen ejkpneuvsei.[137]

 

    L'abbozzo di questa lirica è scritto sul recto-verso del foglio numero 2 del  fascicolo F57, mentre sul recto-verso del foglio 3 è scritta la citazione tachigrafica attinta a The Story of the Church in Egypt di Butcher. Ma il foglio numero 4 dello stesso fascicolo, oltre a contenere varianti di alcuni versi, contiene anche una annotazione che, sebbene straordinaria per la maggior parte dei poeti, costituisce, nel caso del poeta-storico Kavafis, una ulteriore dimostrazione di quanto fosse costante in lui la sollecitazione a verificare una stessa notizia storica in varie fonti primarie, e indica nella mancata verifica di tali fonti una delle cause più probabili per cui la poesia “Atanasio” venne lasciata incompleta. Nel novembre 1929 Kavafis, nove anni dopo la prima stesura della lirica, Kavafis non essendo riuscito a localizzare l'aneddoto narrato da Butcher né nel volume LXVII, né nel volume LXXXII della Patrologia di Migne - alla quale il poeta alessandrino aveva evidentemente accesso intorno al 1929 -, annotò sul foglio numero 4 del fascicolo concernente la poesia in questione che, a meno che egli non fosse riuscito a rintracciare la fonte anche altrove, la poesia era priva di fondamento:

 

    «SHM (EIWSEIS )

      Sto;n Migne 67 (Swzomeno;" kai; Swkravth") kai; 82 (Qeodwvrhto") de;n uJpavrcei hJ paravdosi" th'" Butcher. JEa;n de;n eujreqei' ajllou', se; kanevnan bivo tou' JAg. jAqanasivou, to; poivhma de;n stevketai.

                                  Noevmbrio", 29.»[138]

 

    Se il nucleo tematico di “Gran processione d'ecclesiastici e laici” e di “Atanasio” è costituito dalla immediata reazione suscitata dalla notizia della morte dell'Apostata, con l'ultima poesia del ciclo giulianeo che rimane da esaminare, Kavafis, per mezzo di una semplice allusione al numero di anni trascorsi dalla morte dell'ultimo imperatore pagano, ci trasporta nel 379, vale a dire al primo anno di regno di Teodosio (379-395). La scena descritta in questa lirica è totalmente immaginaria, e la voce che vi riecheggia è quella di un anonimo giovane alessandrino che, per ingannare il tempo mentre attende l'arrivo di un caro amico, si mette a leggere il primo libro che gli viene alla mano. Il commento del giovane, richiamando ironicamente l'attenzione sull'editto promulgato da Giuliano il 17 giugno 362, con il quale si proibiva ai cristiani di insegnare le opere di Omero e di Esiodo, mette oltre tutto in evidenza la rapidità con cui l'atteggiamento assunto dall'Apostata in materia politico-religiosa divenne obsoleto. Non conosciamo la data di composizione di questa poesia sine titulo, incompleta e ricostruita da R. Lavagnini, tuttavia possiamo supporre che risalga all'estremo periodo della creatività artistica kavafiana.[139]

 

Ei\can peravsei devka pevnte crovnia.

 \\Htan oJ prw'to" crovno" tou' Qeodosivou.

Sth;n ai[qousa tou' patrikou' megavrou tou

perivmene e{na" nevo" ajlexandrino;"

miva ejpivskeyin ajgaphmevnou fivlou.

 

Gia; na; pernavei pio; eu[kola oJ kairo;"

ph're k'ejdiavbase to; prw'to pou; e[tuce biblivo.

 

 ]Htane sofistou' polu; ojrgivlou,

pouv, gia; tapei;nwsin tw'n Cristianw'n,

paravqete tou' jIoulianou' th;n fravsi.

«Bebaivw"» yiquvrisen oJ nevo" ajlexandrinov",

«pw'ta oJ Matqai'o", prw'ta oJ Louka'"».

Gia; t'  a[lla, o{mw", ta; ejlafra; tou' jIoulianou',

 {Omhron kai; JHsivodo, ejmeidivasen monavca.[140]

 

    Sarebbe tutt'altro che opportuno riflettere troppo a lungo sugli avvenimenti storici eventualmente ignorati dalla maggior parte dei poeti, ma nel caso specifico di Costantino Kavafis - poeta-storico per sua stessa ammissione e, per di più, perseguitato dall'ombra di Giuliano -, tale riflessione è stata non solo opinabile ma viepiù necessaria. Ed è assai degno di nota che, sebbene Kavafis abbia composto addirittura dodici liriche sull'Apostata, numero molto elevato se pensiamo alla esiguità quantitativa delle poesie costituenti la totalità dell'opera artistica kavafisiana, il poeta alessandrino prese in considerazione soltanto tre periodi fra tutti quelli che potevano essere attinti alla biografia dell'ultimo imperatore pagano, nella fattispecie episodi riguardanti l'adolescenza di Giuliano, il suo spiacevole soggiorno in Antiochia e la sua tragica morte. Già vedemmo che l'ispirazione di Kavafis non fu stimolata dai momenti più brillanti della carriera politico-militare di Giuliano nelle Gallie, dalla sua inopinata acclamazione a imperatore a Lutetia Parisiorum oppure dalle brillanti operazioni che caratterizzarono l'inizio della campagna contro i persiani di Sapore II. Nei versi del poeta alessandrino è totalmente assente il periodo trascorso da Giuliano a Costantinopoli, nonostante la indiscussa temperie greca di quella città, ed è anche clamorosamente assente il tentativo intrapreso dall'Apostata negli ultimi sei mesi della sua breve vita, volto a restaurare il tempio giudaico di Gerusalemme, tentativo il cui drammatico epilogo venne narrato, ironicamente ma efficacemente, da Gibbon il quale, oltre a descrivere le reazioni suscitate da tale disastro nei sensibili animi di sant'Ambrogio  e di Gregorio di Nazianzo, citava, per di più, un breve ma assai suggestivo brano di Ammiano Marcellino, riferentesi a tale calamità:

 

    «Cum itaque rei fortiter instaret Alypius, iuvaretque provinciae rector, metuendi globi flammarum prope fundamenta crebris assultibus erumpentes fecere locum exustis aliquoties operantibus inaccessum; hocque modo elemento destinatius repellente, cessavit inceptum.»[141]

 

    Cantore della sconfitta, Kavafis rimase fedele a sé stesso e il senso di tutto ciò fu espresso assai eloquentemente da Robert Liddell il quale, parafrasando Lucano, ha scritto il seguente epigramma stoico che, verosimilmente, sarebbe piaciuto molto allo stesso Kavafis:

 

 «Victrix causa deis placuit, sed victa Cavafi».[142]

 

    Come dimostrano alcune delle liriche lette precedentemente, è chiaro che Kavafis non fu mai settario rispetto alle conflittualità religiose. Se egli si turbò al cospetto della vecchia nutrice che nell'estremo tentativo di salvare la vita al morente Clito recò furtivamente offerte sacrali a un demone nero, il poeta alessandrino si emozionò anche per il giovane cristiano che pianse la morte del proprio padre che era stato sacerdote di Serapide, così come si turbò per il giovane pagano che, straziato dalla notizia della morte del prediletto amico Myris e recatosi nella sua casa, sopraffatto dalla inconsueta atmosfera, fuggì da quella casa piena di vecchie donne in gramaglie e dove quattro preti cristiani recitavano preghiere a Gesù o forse a Maria: il giovane pagano, «non conoscendo bene le pratiche dei cristiani, non poteva sapere a chi fossero rivolte le suppliche di quei preti». Sia con i personaggi pagani che con quelli cristiani, l'atteggiamento di Kavafis[143] è caratterizzato da un profondo sentimento di solidarietà, un sentimento in virtù del quale egli poté gioire delle loro gioie e addolorarsi delle loro pene, a seconda di ciò che gli avvenimenti costituenti l'ordito drammatico delle sue poesie richiedevano.

    Non sappiamo quanto fosse profondo il sentimento religioso di Kavafis ma almeno in apparenza era conforme alle istanze ufficiali della Chiesa ortodossa anche se, più che di vera fede religiosa, si trattò assai verosimilmente di irresistibile ammirazione per la tradizioni e per la magnificenza delle liturgie bizantine. Il poeta alessandrino non fu mai un cristiano osservante, ma sappiamo che portò al collo per tutta la vita la catenella d'oro e la croce che gli furono donati dalla sua madrina il giorno del battesimo, e ogni Venerdì Santo lo si poteva vedere in strada, con il cappello in mano, ad aspettare che passasse l'Epitaffio di Cristo recato in solenne processione per le vie di Alessandria e proveniente dalla chiesa patriarcale di San Saba.

    Nel 1907 Kavafis trasferì la sua residenza dall'appartamento di Rue Rosette a quello che sarebbe divenuto tanto noto grazie alle testimonianze di alcuni illustri visitatori, e dove il poeta avrebbe trascorso gli ultimi ventisette anni della sua vita e situato al secondo piano di un immobile al numero 10 di Rue Lepsius, in un quartiere piuttosto malfamato e conosciuto in Alessandria con il nome di Massalìa (Marsiglia). Quell'edificio in cui andò ad abitare Kavafis era sempre stato occupato da persone rispettabili, ma, non sappiamo esattamente quando, al piano terreno vi fu aperto un postribolo.[144]

    Le prostitute si affacciavano alle finestre e invitavano i passanti. Esse si comportavano educatamente con Kavafis. «Poverette!» egli disse una volta a un amico che una sera lo aveva accompagnato fino a casa. «Bisogna compatirle. Fanno entrare gente veramente disgustosa, dei mostri, ma (e a quel punto la sua voce assunse un tono profondo e caloroso) qualche volta ricevono anche degli angeli, certi angeli!» L'edificio era situato nel vecchio quartiere greco di Alessandria: dirimpetto si trovava l'ospedale e, girato l'angolo, vi era la chiesa patriarcale greca di San Saba. Kavafis era solito dire: «Dove potrei vivere meglio che qui? Giù al piano terreno, il bordello provvede ai bisogni della carne. E là c'è la chiesa che perdona i peccati. E c'è l'ospedale dove si va a morire.» Talvolta diceva: «Io sono lo spirito, sotto di me c'è la carne», oppure: «Solo, quassù, eroe e vittima.»[145]

    Sebbene ciò che veniva offerto al piano terreno del numero 10 di Rue Lepsius non sopperì mai all'appagamento dei trasporti erotici di Kavafis, la Chiesa ne perdonò i peccati ed egli morì nell'ospedale della comunità greca. Poco prima che il Poeta morisse, il patriarca di Alessandria si recò, a sua insaputa, da lui per impartirgli gli estremi conforti religiosi. Kavafis che non aveva richiesto tale visita, sulle prime rifiutò di riceverlo, andò in collera, si ostinò, ma alla fine cedette a quanti, intorno a lui, facevano opera di persuasione. O piuttosto cedette all'idea che sarebbe stato assai sconveniente rifiutarsi di ricevere un patriarca della grande città di Alessandria. E allorché l'alto prelato entrò nella stanza dell'infermo, trovò Kavafis seduto, compunto, il volto pervaso da una grave serietà, pronto ad adempiere a tutte le formalità richieste dalle circostanze. In tale scena, secondo I. Saregiannis, sono ravvisabili alcuni elementi che caratterizzano una lirica bizantina, composta da Kavafis nel 1905.[146]

 

MANOUHL KOMNHNOS

 

 JO basileu;" ku;r Manouh;l Komnhno;"

mia; mevra melagcolikh; tou' Septembrivou

aijsqavnqhke to;n qavnato kontav. OiJ  ajstrolovgoi

(oiJ plhrwmevnoi) th'" aujlh'" ejfluarou'san

pou; a[lla polla; crovnia qa; zhvsei ajkovmh.

 jEnw' o{mw" e[legan aujtoiv, ejkei'no"

palhe;" sunhvqeie" eujlabei'" quma'tai,

ki ajp'  ta; kellia; tw'n monacw'n prostavzei

ejnduvmata ejkklhsiastika; na; fevroun,

kai; ta; forei', k'  eujfraivnetai pou; deivcnei

o[yi semnh;n iJerevw" h] kaloghvrou.

 

Eujtucismevnoi o{loi pou; pisteuvoun,

kai; sa;n to;n basileva ku;r Manouh;l teleiwvnoun

ntumevnoi me;" sth;n pivsti twn semnovtata.[147]

 

    Se da un lato equivarrebbe a una esemplificazione viepiù arbitraria della realtà asserire che Kavafis era turbato dal cristianesimo al punto di esserne intimorito, dall'altro lato, a giudicare da talune poesie, egli non si sarebbe sentito maggiormente a suo agio col paganesimo quale lo proponeva l'Apostata. Grazie, tuttavia, a una finissima sensibilità, Kavafis capì di possedere - per diritto ereditario -, entrambi i retaggi religiosi fusi in una lega indissolubile. Egli fu, come abbiamo visto, cristiano almeno in parte, oppure lo fu persino più profondamente, stando ai risultati delle ricerche di Renata Lavagnini e di Diana Haas.[148]  Ma l'aspetto più significativo di questa questione risiede nel fatto che Kavafis non fu mai schiavo, non fu mai sostenitore ottuso né dell'una né dell'altra religione, giacché le prese entrambe in visione.

    Durante il periodo protocristiano Alessandria era un crocevia in cui razze, culture e religioni convivevano proficuamente: greci, ebrei e altre etnie, dottrine neoplatoniche e cristianesimo, informavano lo spirito cosmopolita di quella città così come nell'Alessandria del XX secolo voluta da Muhammed Alî lo spirito cosmopolita era dovuto alla presenza di numerose comunità straniere, fra le quali eccelleva quella greca. Far prevalere una religione su di un'altra significava sconvolgere nel suo intimo l'ordito socio-culturale costituente ciò che, in definitiva, interessava veramente sia agli alessandrini e agli antiocheni del IV secolo d. C., che a Kavafis.

    Il poeta-storico Kavafis, diversamente dalla maggior parte degli storici che non sono poeti, intese molto bene tutto ciò, e non fu un caso se la cristiana Antiochia divenne per lui, dopo Alessandria, il tipo di città nella quale egli stesso avrebbe amato vivere. Ciò che Kavafis aborriva non era il paganesimo antico, tradizionale, bensì il paganesimo riformatore, intollerante e anticristiano dell'Apostata. Ed è assai degno di nota osservare che risale precisamente al 1896, vale a dire al medesimo anno in cui fu composta la prima lirica del ciclo giulianeo, “Giuliano ai Misteri”, una poesia rifiutata intitolata “Mnhvmh”, e ambientata in Tessaglia. Successivamente Kavafis - quale ellenico - rielaborò questa lirica e, abbandonata la Tessaglia, uscì dagli angusti confini della Grecia propriamente detta per approdare sui colli della Ionia.

 

IWNIKON

 

Giati;  ta;  spavsame t' ajgavlmatav twn,

giati; tou;" diwvxamen ajp' tou;" naouv" twn,

diovlou de;n pevqanan gi'aujto; oiJ qeoiv.

 \W gh' th'" jIwniva", sevna ajgapou'n ajkovmh,

sevna hJ yucev" twn ejnqumou'ntai ajkovmh.

Sa;n xhmerwvnei ejpavnw sou prw:i;: aujgoustiavtiko

th;n ajtmosfai'ra sou perna' sfri'go" ajp' th;n zwhvn twn:

kai kavpot' aijqeriva ejfhbikh; morfhv,

ajovristh, me; diavba grhvgoro,

ejpavnw ajpo; tou;" lovfou" sou perna'.[149]

 

    Pubblicata nel fatidico 1911, questa lirica costituisce uno splendido inno al paganesimo libero e tradizionale e a tutto ciò di cui Kavafis - a dispetto degli editti di Giuliano - avrebbe potuto ancora fruire in una città come l'Antiochia del IV secolo d. C., e nelle altre città ellenistiche della sua anima.

 

MAURO GIACHETTI

 

 

 

 



* Salvo specifica precisazione, le poesie citate nel presente saggio sono offerte nella traduzione di F. M. Pontani.

 

[1]A. ALFÖLDI, Costantino tra paganesimo e cristianesimo, Bari 1976, p. 4; H. G. BECK, Il millennio bizantino, Roma 1981, pp. 26 ss.

 

[2]P. GRIMAL, L'oriente ellenistico nel III secolo a. C., in L'Ellenismo e l'ascesa di Roma, Storia Universale Feltrinelli, IV, Milano 1967, pp. 201-207; F. HEILER, Storia delle religioni, Firenze 1976, I, p. 397; BECK, cit., p. 21.

 

[3]Evemero da Messana (340-280 a. C. circa) intraprese, per ordine del re macedone Cassandro, suo amico, lunghi viaggi. Evemero scrisse un'opera intitolata JIera; jAnagrafhv, di cui ci sono pervenuti solo ventisei brevi frammenti dai quali apprendiamo che l'autore, salpato da un porto dell'Arabia Felix, aveva raggiunto, dopo lunghissima navigazione, l'isola di Panchaia dove, sulla vetta di una montagna, aveva trovato un tempio dedicato a Zeus Trifilio che egli stesso aveva costruito allorché, ancora uomo, governava la terra intera. In questo tempio, sopra una stele d'oro, erano incise le gesta di Zeus e dei suoi discendenti. In base a ciò, Evemero interpretò razionalisticamente la natura degli dei i quali, nati uomini, erano assurti agli onori divini in virtù delle grandi gesta compiute. Sebbene non del tutto originali, le teorie di Evemero sulla umanizzazione degli dei ebbero grande diffusione. Esse furono introdotte nella cultura latina tramite una traduzione della JIera; jAnagrafh; effettuata da Ennio. Numerosi scrittori cristiani, tra cui Marco Minucio Felice, Agostino di Ippona, Arnobio e specialmente Lucio Celio Firmiano Lattanzio soprannominato il 'Cicerone latino' e che Costantino il Grande, nel 317, chiamò a educare il figlio Crispo, trassero grande profitto dalla J JIera; jAnagrafh; poiché, tramite essa, potevano agevolmente dimostrare la falsità del paganesimo. Cf. K. PAPARRIGÒPULOS, JIstoriva tou'  JEllhnikou' [Eqnou", edizione curata e ampliata da P. Karolidis, Atene 1930, I, pp. 230 ss.; L. ROBIN, Storia del pensiero greco, Torino 1951, p. 217; F. CANTARELLA, La letteratura greca dell'età ellenistica e imperiale, Firenze 1968, pp. 139-40; HEILER, cit., I, p. 397; Z. STEWART, L'ascesa delle religioni soteriologiche in La società ellenistica, a cura di R. B. Bandinelli, Milano 1977, p. 576, d'ora in avanti citato come STEWART, Ascesa.

 

[4]BECK, cit., p. 23.

 

[5]«Alessandro di Filippo e i Greci, tranne i Lacedemonî». // Possiamo immaginare / quale totale indifferenza a Sparta / vi fu per quest'epigrafe. «Tranne i Lacedemonî»: / è naturale. Non erano certo / uomini da guidare e comandare / come preziosi servi. E poi, una spedizione / panellenica , senza / un re spartano a capo, / non potevano prenderla sul serio. / Sicurissimamente: «tranne i Lacedemonî». // Un atteggiamento come un altro. Si capisce. / Così al Granico, «tranne i Lacedemonî»; / e quindi a Isso; e poi nella battaglia decisiva / che spazzò la terribile forza / concentrata in Arbela dai Persiani / (mosse di lì per vincere, e fu spazzata via). // E dalla spedizione panellenica, fulgida, / vittoriosa, mirabile, / celebrata, gloriosa, / come nessuna s'ebbe gloria mai, / da quella incomparabile spedizione, sortimmo, / novello mondo greco, e grande, noi. // Noi, genti d'Alessandria, d'Antiochia, / di Seleucia, con tutti i Greci innumeri / dell'Egitto, e di Siria, / e di Media, e di Persia, e gli altri, gli altri. / Con gli estesi dominî, e il vario gioco / d'adeguamenti accorti. / E la nostra Comune Lingua Greca / fino alla Battriana noi la recammo, all'India. // Ora, parliamo dei Lacedemonî!

 

[6]PAPARRIGÒPULOS, cit., III, p. 298; HEILER, cit., I, p. 399; STEWART, Ascesa, p. 558; Z. STEWART, Il culto del sovrano, in La società ellenistica, a cura di R. B. Bandinelli, Milano 1977, p. 576, d'ora in avanti citato come: STEWART, Culto.

 

[7]Posidonio nacque ad Apamea sull'Oronte intorno al 135 a. C. e morì nel 50 o 51 a. C. durante un viaggio verso Roma. Dopo essere stato allievo di Panezio ad Atene, Posidonio fondò una sua propria scuola a Rodi, dove le sue lezioni furono seguite, tra gli altri, da Cicerone nel 78 e da Pompeo nel 67 e nel 62. I numerosi viaggi intrapresi da Posidonio in tutto il bacino del Mediterraneo arricchirono grandemente i suoi enciclopedici interessi scientifici. Dal punto di vista filosofico, Posidonio fu, insieme a Panezio, uno dei principali esponenti della Media Stoà che si distingueva dalla prima fase del movimento stoico, l'Antica Stoà, per la minore esasperazione della severità morale grazie all'eclettismo conferitole dall'accettazione di molti elementi neoplatonici. Rispetto al primitivo assolutismo caratteristico dei fondatori dell'Antica Stoà, già Panezio dissentiva su vari punti quali l'eternità del mondo della quale negava la conflagrazione.. Quanto alla dottrina morale, Panezio ne mitigò il rigore iniziale sostenendo che vivere secondo natura è vivere conformemente alla natura individuale, e possiamo supporre che su quest'ultimo punto Kavafis fosse verosimilmente d'accordo con Panezio. Posidonio contribuì alla teologia della propria scuola, introducendovi astrologia, mantica, misticismo ed escatologia. Nessuna delle numerose opere di Posidonio ci sono pervenute tranne alcuni frammenti ed emblematici titoli: De perturbationibus, De iudicio, De anima, De virtutibus, etc. Cf. ROBIN, cit., pp. 443-44; CANTARELLA, cit., pp. 169-72.

 

[8]HEILER, cit., I, pp. 397-99; STEWART, Culto, pp. 562-77.

 

[9]PLUTARCO, Vita di Antonio, XXIV.

 

[10]Ibid., XXVI.

 

[11]«Durante quella notte, si dice, verso la mezza, nella quiete più profonda della città, che attendeva con paura il futuro, improvvisamente furono uditi suoni armoniosi di strumenti d'ogni sorta e le grida di una turba che inneggiava ad Euio e saltava come i Satiri, quasi una schiera di baccanti che usciva dall'abitato in grande tumulto: Nella loro corsa sembravano attraversare più o meno il centro della città, ed essere dirette verso la porta esterna, quella che era rivolta dalla parte dei nemici; e che là il tumulto raggiungesse il suo grado più alto, poi si assopisse. Coloro che considerarono il prodigio, credettero che il dio che Antonio aveva per tutta la vita particolarmente imitato e assimilato, lo abbandonasse.» Ibid., LXXV.

 

[12]G. SEFERIS, Dokimev", Atene 1984, I, pp. 418-19: « JO Kabavfh" moiavzei na; e[cei ajfomoiwvsei polu; Mavrko Aujrhvlio: e[zhse to;n kairo; th'" uJpomonh'": l.c.

 

                          Sa;n e{toimo" ajpo; kairov, sa; qarralevo"...

 

  - «Oi{a ejsti;n hJ yuch; hJ e{toimo", eja;n h[dh ajpoluqh'nai devh/ tou' swvmato"... (IA', 3).

        

                                                           Sa;n pou; pairiavzei se pou; ajxiwvqhke" mia; tevtoia povli...

 

  - « [Anqrwpe, ejpoliteuvsw ejn th/' megavlh/ tauvth/ povlei... [Apiqi ou\n i{lew"... (IB', 36)»

 

[13]Come s'udrà, d'un tratto, a mezza notte, / invisibile tìaso passare / tra musiche mirabili, canoro, / la tua fortuna che trabocca ormai, /le opere fallite, i tuoi disegni / delusi tutti, non piangere in vano. / Come pronto da tempo, come un prode, / salutala, Alessandra che dilegua. / Non t'illudere più, non dire:«è stato / un sogno», oppure «s'ingannò l'udito»: non piegare a così vuote speranze. / Come pronto da tempo, come un prode, / come s'addice a te, cui fu donato / d'una città sì grande il privilegio, / va risoluto accanto alla finestra: /  con emozione ascolta e senza preci, / senza le querimonie degl'imbelli, / quasi a fruire di suprema gioia, i suoni, / gli strumenti di quell'arcano tìaso, / e saluta Alessandria, che tu perdi.

 

[14]«. M. YOURCENAR, Présentation critique  de Constantin Cavafy, 1863-1933, suivie d'une traduction des Poèmes par Marguerite Yourcenar et Constantin Dimaras, Paris 1978, pp. 27-28: «Laissant de côté les poèmes historiques d'inspiration érotique, trop voisin des poèmes personnels, (...) j'en viens enfin à ces belles pièces mi-gnomiques, mi-lyriques, que j'appellerais volontiers les poèmes de réflexion passionnée. La notion de politique, celle de caractère, et celle de destin semblent s'y fondre en un concept plus ample de destinée, de nécessité à la fois extérieur et interne, associée à une liberté implicitement divine. Tel (...) ce poème intitulé Les dieux désertent Antoine, plein de la mystérieuse musique de la relève des dieux protecteurs abandonnant à la veille du combat leur favori d'hier, fanfare sortie de Plutarque qui aussi traversé Shakespeare (...).

    Alexandrie... Alexandrie... Dans le poème Antoine semble voir s'éloigner, non pas ses dieux protecteurs comme dans Plutarque, mais la ville qu'il a peut-être aimée plus que Cléopâtre. Pour Cavafy, en tout cas, Alexandrie est un être aimé.» Cf. anche C. M. BOWRA, The Creative Experiment, London 1967, p. 35; E. KEELEY, Cavafy's Alexandria. Study of a Myth in Progress, Cambridge Massachusetts 1977, pp. 40-41, 77-78.

 

[15]R. LAVAGNINI, The Unpublished Drafts of Five Poems on Julian the Apostate by C. P. Cavafy, in Byzantine and Modern Greek Studies, 7, Birmingham 1981, pp.55 ss., (d'ora in avanti R. LAVAGNINI, Drafts); G. W. BOWERSOCK, The Julian Poems of C. P. Cavafy, in Byzantine and Modern Greek Studies, 7, Birmingham 1981, pp. 89 ss., (d'ora in avanti BOWERSOCK, Julian Poems).

 

[16]SEFERIS, Dokimev", I, p. 328.

 

[17]Kavafis suddivise la sua opera poetica in cicli o capitoli tematici, i cui titoli sono i seguenti: “Giorni antichi”, “Gli inizi del cristianesimo”, “Giorni bizantini”, “Il principe dell'Epiro”, “Passioni”, “Anni alati”, “Prigioni”, “La nostra arte”, “Tre immagini”.

 

[18]KAVAFIS, jAnevkdota, p. 228.

 

[19]HAAS, AiJ ajrcai; ; tou' ' Cristianismou' ', pp. 593-94. 

 

[20]KAVAFIS, Pezav, p. 90.

 

[21]Ibid., pp. 90-91 nota 90.

 

[22]Tale articolo è stato pubblicato per la prima volta da G. Dallas insieme a un ampio apparato di note. Cf. G. DALLAS,  JO Kabavfh" kai; hJJ Deuvterh Sofistikhvv  in Kuvklo" Kabavfh,  JEtairiva Spoudw'n Neoellhnikou' Politismou' kai; Genikh'" Paidiva", {Idruma Scolh'" Mwra:iv:th, Atene 1983, pp. 153-202. Cf. anche G. DALLAS, JO Kabavfh" kai; hJ Deuvterh Sofistikhv, Atene....

 

[23]ROBIN, cit., p. 457.

 

[24]Già il filosofo-martire Giustino, morto intorno al 165 d. C., riteneva che fra gli insegnamenti di Platone e quelli di Cristo non vi fossero divergenze eccessive, e scorgeva nella filosofia pagana analogie con il concetto del Cristo-Logos come lo espresse Giovanni nel prologo del suo Vangelo. Clemente di Alessandria (150 circa - 215), direttore del Didaskalei'on alessandrino, vedeva il Lovgo" spermatiko;" in tutti gli aspetti dell'esistenza umana e considerava la filosofia pagana greca come una propa:i:deiva Cristou'. Cf. PAPARRIGÒPULOS, cit., III, p. 557; CANTARELLA, cit., pp. 270, 273-75; HEILER, cit., II, pp. 116-17. Assai esplicito a questo riguardo è Paparrigòpulos nella sua JIstoriva, vol. IV, pp. 37-38, quando afferma che: « jAxioshmeivwto" mavlista ei\nai hJ stenhv, hJ ajdelfikhv, dunavmeqa na; ei[pwmen, scevsi", eij" h|n perih'lqen ejpi; ijkano;n crovnon hJ uJyhlotavth tw'n ejpisthmw'n, hJ filosofiva, pro;" to; cristianiko;n dovgma. JH eJllhnikh; filosofiva sunw/keiwvqh ejk prwvth" ajfethriva" meta; tou' nevou qrhskeuvmato". Polloi; tw'n newtevrwn sofw'n ijscirivsqhsan o{ti aiJ neoplatwnikai; qewrivai kai; oiJ neoplatwnikoi; o{roi ejpenhvrghsan oujk ojlivgon eij" th;n suvntaxin tou' kata; jIwavnnhn tetavrtou Eujaggelivou, tou'  perievconto" to; filosofikovn, to; metafusiko;n mevro" th'" cristianikh'" pivstew". jAlla; paraleivponte" ta; peri; touvtou, kavqo; ajmfisbhthvsima kai; ajmfisbhtouvmena, ejrcovmeqa eij" gegonovta bebaiovtera. [Hdh oJ jApollwv", peri; ou| givnetai lovgo" ejn th/' pro;" Korinqivou" A' ejpistolh/' tou'  ajpostovlou Pauvlou, h[rcise na; qewrh/' ejpi; to; filosofikwvteron to;n cristianismovn, oJ de; ajpostovlo", eij kai; yevgwn ta;" ejk touvtou proelqouvsa" diairevsei", ajfh'ken o{mw" eij" to;n crovnon na; ajpokaluvyh/ th;n ajxivan tw'n filosofikw'n ejkeivnwn didaskaliw'n o{sai ejpw/kodomou'nto ejpi; tou' qemelivou th'" cristianikh'" pivstew". Kai; plei'stoi me;n h[kmasan cristianoi; filovsofoi kata; ta;" trei'" prwvta" eJkatontaethrivda", oJ jIousti'no" oJ mavrtu", oJ jAqhnagovra", oJ Tatianov", oJ Pavntaino", oJ Mavximo" kai; a[lloi. jIdivw" d'a[xia mneiva" eijsi;n o{sa ejn th/' deutevra/ eJkatontaethrivdi oJ jIousti'no" oJ mavrtu" levgei peri; filosofiva". «Oujk ajllovtriav ejsti pavnth o{moia, w{sper oujde; ta; tw'n a[llwn stw:i:kw'n te kai; poihtw'n kai; suggrafevwn: e{kasto" gavr ti" ajpo; mevrou" tou' spermatikou' qeivou lovgou to; ;suggene;" oJrw'n kalw'" ejfqevgxato (...) o{sa ou\n para; pa'si kalw'" ei[rhtai hJmw'n tw'n cristianw'n ejstiv». Kai; ajxiomnhmovneuto" ei\nai wJsauvtw" oJ Jtrovpo" di  ou| w{rizen ejn th'/ trivth/

eJkatontaethrivdi th;n scevsin th'" filosofiva" pro;" to;n cristiianismo;n oJ Klhvmh" oJ jAlexandreuv". " \Hn me;n ou\n ga;r pro; ;th'" Kurivou parousiva" eij" dikaiosuvnhn {Ellhsin ajnagkaiva filosofiva, nuni; de; crhsivmh pro;" qeosevbeian givnetai, propaideiva ti" ou\sa toi'" th;n pivstin di'ajpodeivxew" karpoumevnou" (...) filosofivan de; ouj th;n stw:i:kh;n levgw oujde; th;n platwnikh;n h] th;n ejpikouvreion kai; ajristotelikhvn, ajllo{sa ei[rhtai pareJkavsth/ tw'n aiJrevsewn touvtwn kalw'", dikaiosuvnhn meta; eujsebou'" ejpisthvmh" ejkdidavskonta, tou'to suvmpan to; ejklektiko;n filosofivan fhmiv."».

 

[25]ROBIN, cit., pp. 81-82, 104, 241, 424, 444,  448-457,

 

[26]«In principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio, e il Verbo era Dio... E il Verbo si è fatto carne, e abitò tra noi,; e noi abbiamo contemplato la sua gloria, gloria come d'Unigenito del Padre, pieno di grazia e di verità.», Giovanni, 1. 1, 14.

 

[27]«uomo affatto comune e barbaro». PAPARRIGÒPULOS, cit., III, p. 469; GIBBON, cit., II, pp. 65-67; ALFÖLDI, cit., p. 36.

 

[28]PAPARRIGÒPULOS, cit., III, p. 476; GIBBON, cit., II, p, 211; ALFÖLDI, cit., p. 36; BECK, cit., p. 26.

 

[29]PAPARRIGÒPULOS, cit., III, pp.453-66; K. KRUMBACHER, Letteratura greca medievale, a cura di B. Lavagnini, Quaderni 6, Istituto siciliano di studi bizantini e neoellenici, Palermo 1970, p. 17

 

[30]Al tempo in cui san Paolo predicava in Grecia gli elleni, dunque, avevano già una loro religione i cui dei erano tanto umani da possedere non solo i difetti degli uomini, qual l'amore e l'infedeltà, ma di essere anche soggetti, al pari degli uomini, al Fato. In definitiva, la predicazione cristiana riuscì soltanto in parte a demitizzare il cosmo pagano, e il cristianesimo si uniformò così profondamente al carattere ellenico che, tra l'altro, le varie dignità ecclesiastiche cristiane furono costituite, in parte, uniformandosi a tipi preesistenti mutuati specialmente dai Misteri Eleusini, talune feste pagane furono cristianizzate così che i santi cristiani si sostituirono alle divinità pagane. Inoltre, nonostante il passare dei secoli, persino oggi, quando i greci adorano Cristo, continuano ad adorare Apollo o Dioniso poiché sono rimasti sostanzialmente pagani, e ciò in cui credono si basa su un mito archetipico fondamentale: l'universale simbolo delle mutazioni, della fecondità, della fioritura. È il mito del dio morto che risuscita: Adone, Atti, Osiride, Cristo. Chi, ancora ai nostri giorni, abbia la ventura di trovarsi in Grecia verso Pasqua ed entri in una chiesa ortodossa il Venerdì santo, osservi attentamente l'Epitaffio e il comportamento dei fedeli, e non potrà non esser d'accordo con quanto scrisse Nikos Kazantzakis allorché, un venerdì santo di molti anni fa, entrò nella chiesa dell'Afentikò, a Mystràs, nel Peloponneso: « JH kampavna th; stigmh; ejkeivnh ph're na; ctupavei sigav, glukav, gia; th;n ajgruvpnia tou' jEpitavfiou Qrhvnou. Mph'ka sto; zesto; koubouvkli th'" ejkklhsia'": sth; mevsh oJ jEpitajfio" skepasmevno" me; lemonanqouv", ki ajpavnw stou;" lemonanqou;" xaplwmevno" nekro;" oJ ajkatavpauta peqamevno", ajkatavpauta ajnasthmevno": mia; fora; to;n e[legan [Adwnh, twvra Cristo. Guvra tou gonatiste;" clwme;" maurofovre" gunai'ke", skufte;" ajpavnw tou, to;n qrhnou'san. {Olh hJ ejkklhsia; muvrize keri; sa;n kuyevlh: kai; qumhvqhka ti;" a[lle" iJevreie", ti;" Mevlisse", sto; nao; th'" jEfevsia" [Artemh": qumhvqhka to; nao; tou' jApovllwna stou;" Delfouv", ctismevno ajpo; keri; kai; fterav (...)». Cf. N. KAZANTZAKIS, jAnafora;  sto;n Gkrevko, Atene 1969, p. 195. È degno di nota anche quanto G. Seferis ebbe a scrivere in circostanze analoghe a quelle di Kazantzakis, mostrando  interessanti affinità concettuali ed emotive con lo scrittore cretese: «Kamia; ajpo; ; ti;" paradovsei" ma", cristianike;" h] ] procristianikev", de;n e[cei pragmatikav peqavnei. Sucnav, o{tan phgaivnw sth;n ajkolouqiva th'" Megavlh" Paraskeuh'", mou' ei\nai duvskolo n' ajpofasivsw a]n oJ J Qeo;" pou; ; khdeuvetai ei\nai oJ J Cristo;" h]  oJ [Adwnh".» SEFERIS, Dokimev", II, p. 14.  Cf., inoltre, D.  LUKATOS, Eijsagwgh; sth;n eJllhnikh; laografiva, Atene 1978, pp. 262-65; BECK, cit., pp. 349 ss.

 

[31]OSTROGORSKY, cit., pp. 41-44; IMPELLIZZERI, cit., pp. 42-43.

 

[32]I. M. PANAGIOTÒPULOS , JO dramatiko;" Kabavfh" in Tetravdia Eujquvnh", 19, Atene 1992, p. 10; O. VOTSI, Livga gia; to;n Kabavfh, ibid., p 37; G. KOTSIRAS, JO Kabavfh" kai; hJ ajnazhvthsh th'" prwtotupiva", ibid., p. 66; K. PLISSÌS, Shmeiwvsei" sto; periqwvrio, ibid., p. 197; K. E. TSIRÒPULOS, JO poihth;" K. P. Kabavfh" poihth;" ejqnikov", ibid., p. 264.

 

[33]Disse Myrtìas (uno studente siriano / in Alessandria, sotto il regno di Costante / Augusto e di Costanzo Augusto, /  in parte cristiano e in parte paganeggiante): / «Reso forte dallo studio e dalla meditazione, / non temerò le mie passioni da vile. / Abbandonerò il mio corpo al piacere, / alle ebbrezze sognate, ai desideri erotici più arditi, senza / alcun timore, perché quando lo vorrò - / e reso forte come sarò / dallo studio e dalla meditazione lo vorrò - / ritroverò, nei miei momenti critici, / lo spirito ascetico d'un tempo.» (Traduzione e corsivo miei.)

 

[34]R. LAVAGNINI, Unpublished Drafts, pp. 55-88.

 

[35]BOWERSOCK, Julian Poems, pp. 90-91.

 

[36]GIULIANO, Misopogon, 352 b-c.

 

[37]J. VOGT, Pagani e cristiani nella famiglia di Costantino il Grande, in Il conflitto tra paganesimo e cristianesimo nel secolo IV, a cura di A. Momigliano, Torino 1975, p. 59 (d'ora in avanti: VOGT, Pagani e cristiani ).

 

[38]GIBBON, cit., II, p. 147; PAPARRIGÒPULOS, cit., III, p.523. Giuliano, tuttavia, fa ricadere tutta la colpa su Costanzo, cf. GIULIANO, Lettera al Senato e al popolo di Atene, 270 c-d.

 

[39]GIBBON, cit., II, p. 169 nota 11: «GREGORIO NAZIANZENO (Orat. III) rimprovera l'Apostata della sua ingratitudine verso Marco, vescovo di Aretusa, che aveva contribuito a salvargli la vita. Apprendiamo da una fonte meno autorevole (TILLEMONT, Histoire des Empereurs, tomo IV, p. 916), che Giuliano fu nascosto in una chiesa).»

 

[40]Quando infuriati uccisero i soldati / i parenti del morto Costantino, / e per la loro orribile follia / rischiava di perire anche il seienne / figlioletto del Cesare Costanzo, / pietosi i sacerdoti cristiani / lo presero e lo misero al sicuro / nel luogo sacro della chiesa. Là / Giuliano allor seienne fu salvato. // Senonché noi dobbiamo ricordare / che di fonte cristiana è la notizia. / Ma del tutto incredibile non è. / Storicamente nulla di incredibile / presenta il fatto che preti cristiani / salvino bimbi cristiani innocenti. // Se ciò è vero, anche a questo riferiva / il famoso filosofo ed Augusto / la frase «Su quell'error l'oblìo?» (Trad. B. Lavagnini).

 

[41]GIULIANO, Eij" to;n Basileva {Hlion, 131 a.

 

[42]Citato da R. Lavagnini in Unpublished Drafts, p. 76.

 

[43]Ibid., p. 76 ss.; BOWERSOCK, Julian Poems, p. 95. Per quanto riguarda la cura dei dettagli, vi è una poesia, pubblicata nel 1921, Tecnourgo;" krathvrwn (Artefice di crateri), nella quale - forse meglio che in altre liriche di Kavafis - appare chiaro quali effetti egli raggiunge grazie alla meticolosità dedicata ai particolari. Gli ultimi due versi ci offrono la esatta collocazione cronologica (175 a. C.) trasportandoci al regno di Antioco Epifane, ma la poesia è pseudo-storica: un artista contempla un cratere che ha appena modellato nell'argento purissimo e sul quale ha cesellato erbe, ruscelli, splendidi fiori, e nel mezzo ha effigiato un bel giovane, nudo, sensuale, con una gamba immersa nell'acqua. L'artista, però, ha dovuto supplicare la Memoria di aiutarlo affinché egli potesse riprodurre fedelmente il volto del giovane che amò. Tuttavia la difficoltà era grande perché quasi quindici anni eran trascorsi dal giorno in cui quest'ultimo era caduto combattendo sul campo fatale della battaglia di Magnesia.

    Precisamente la solerte attenzione che Kavafis prestò alla funzione dei particolari, per quanto apparentemente insignificanti, conferì a gran parte della sua opera artistica tratti caratteristici inconfondibili.

 

[44]PAPARRIGÒPULOS,  cit., III, pp. 531-32; GIBBON, cit., II, p. 341.

 

[45]I conflitti teologico-disciplinari caratterizzarono il IV e anche il V secolo,. Tra i quattro maggiori movimenti ereticali che turbarono la nascente Ortodossia - arianesimo, donatismo, priscillanesimo e pelagianesimo -, l'arianesimo costituì di gran lunga la corrente più considerevole. Originario della Cirenaica, Ario nacque intorno al 256 e studiò pressò la scuola teologica di Antiochia. Agli albori del IV secolo, Ario, divenuto presbitero, amministrava in Alessandria la chiesa di Bacaulis. Per salvaguardare la originalità e le prerogative del Padre in seno alla Trinità, Ario giunse a subordinare - aderendo così, in certo qual modo, alle teorie neoplatoniche coeve - la figura del Figlio rispetto a quella del Padre al punto di vedere nel Cristo soprattutto l'uomo. Se Ario eliminava in tal modo alcune difficoltà teologico-dottrinarie, egli eliminava anche il mistero centrale dell'incarnazione. Se alla fine del IV secolo l'arianesimo poteva considerarsi battuto sul piano dottrinario, la conversione dei goti a tale forma di cristianesimo non soltanto infuse a essa nuova linfa vitale, ma rappresentò anche una vittoria storicamente assai più importante della precedente e provvisoria  vittoria sancita dai sinodi di Sirmio e di Rimini nel 359. Cf. GIBBON, cit., II, pp. 245 ss.; PAPARRIGÒPULOS, cit., III, p. 482 ss.; OSTROGORSKY, cit, pp. 43-44; S: IMPELLIZZERI, cit., p. 71 ss.

 

[46]GIULIANO, Misopogon, 352 b; GIBBON, cit., II, p. 341 nota 4.

 

[47]GIULIANO,  Misopogon, 351 a; GIULIANO, Lettera al Senato e al popolo di Atene, 274 d.

 

 [48]GIULIANO,  Misopogon, 352 a.

 

[49]GIBBON, cit., II, p. 169.

 

[50]GIULIANO, Lettera al Senato e al popolo di Atene, 271 c-d.

 

[51]PAPARRIGÒPULOS, cit., III, p. 537

 

[52]Nato ad Antiochia nel 314 da una cospicua famiglia curiale, Libanio, terminati gli studi nella città natale, si recò a perfezionarsi ad Atene. Intorno al 340 egli fondò una sua propria scuola a Costantinopoli ma, a causa di contrasti con i retori concorrenti, si trasferì prima a Nicomedia nel 346, quindi, intorno al 354, ad Antiochia, dove la sua scuola fu frequentata da discepoli quali Giovanni Crisostomo. La copiosissima produzione di Libanio pervenutaci (sessantaquattro orazioni e più di mille epistole) fa fede della sua fortuna che fu assai grande durante tutto il periodo bizantino. Nonostante il dichiarato paganesimo, Libanio fu tenuto in grande stima anche dagli imperatori cristiani Costanzo, Valente e Teodosio. Libanio condivise il sogno di restaurazione pagana di Giuliano, e fu da questi elevato al rango di pretore. Alla pari di Giuliano, Libanio aborrì il cristianesimo sia come dottrina che come modus vivendi. Il suo ideale di vita era costituito da una stretta unione tra letteratura e paganesimo, ed egli considerò il trionfo del cristianesimo - della cui irresistibile avanzata, del resto, non seppe cogliere le cause - quale trionfo della barbarie. E infatti nonostante l'effimero sostegno politico di Giuliano, il futuro non sarebbe appartenuto a Libanio e ai suoi seguaci. Cf. CANTARELLA, cit., pp. 324-25; IMPELLIZZERI, cit., pp. 96-99; BECK, cit., pp. 30-33.

 

[53]IMPELLIZZERI, cit., p. 101; GIBBON, cit., II, p. 390.

 

[54]Atti rovinosi e vani. / Celebrazioni, visite ai templi dei pagani. // Lodi per gl'ideali della grecità. / Esaltazioni di divinità. // Colloqui con Crisantio con un ritmo frequente. / E le teorie di Massimo (del resto assai valente). // Ecco la conclusione. Gallo appare / molto inquieto. Costanzo comincia a sospettare. // Ah! Chi lo consigliò non ebbe troppo ingegno. / Questa storia - Mardonio dice - ha passato il segno, // bisogna che finisca sùbito il clamore. / Così Giuliano ritorna lettore // in chiesa, a Nicomedia, e là / a gran voce e con molta pietà // recita le Scritture; e desta ammirazione / nel popolo la sua cristiana divozione.

 

[55]C. KAVAFIS, Poesie, a cura di F. M. Pontani, Milano 1961, pp. 508-509; BOWERSOCK, Julian Poems, pp. 98-99; HAAS, Reading Notes, p. 47 note 65 e 66.

 

[56]LIDDELL, Biography, p. 161.

 

[57]Qui non sono Cleone, rinomato /ad Alessandria (dove stupiscono di rado) / per le mie case splendide, i giardini, / le carrozze, i cavalli, / i gioielli, le mie seriche vesti. / Via! Non sono Cleone. / Si spenga di ventotto anni memoria. / Qui sono Ignazio diacono, tardi tornato in sé. / Assai tardi. Ma vissi dieci mesi felici / nella pace sicura di Gesù.

 

[58]GIBBON, cit., II, p. 170.

 

[59]GIULIANO, Lettera al Senato e al popolo di Atene, 272 a.

 

[60]GIULIANO, ibid., 272 b-c-d-; AMMIANO MARCELLINO, XIV, 11; PAPARRIGÒPULOS, cit., III, p. 532; GIBBON, cit., II, p. 174.

 

[61]GIULIANO, Epistola 79, 13-14.

 

[62]Ibid., 9-12-

 

[63]BOWERSOCK, Julian Poems, p. 96.

 

[64]Ibid., p. 97.

 

[65]R. LAVAGNINI, Unpublished Drafts, pp. 66-67; BOWERSOCK, Julian Poems, p. 97.

 

[66]BOWERSOCK, Julian Poems, p. 96.

 

[67]Entrarono nel bel tempio di Atena / Pegasio, ch'era vescovo cristiano, / e il principe Giuliano, anch'ei cristiano. / Guardavano le statue con amore e rimpianto, / eppure conversavano con qualche esitazione, / per mezzo di allusioni, con ambigue parole / con frasi molto caute e controllate, / perché l'uno dell'altro diffidava, / e perciò di scoprirsi avea timore, / Pegasio falso vescovo cristiano, / Giuliano falso principe cristiano. (Trad. B. Lavagnini)

 

[68]GIBBON, cit., II, p. 175

 

[69]GIULIANO , Lettera al Senato e al popolo di Atene, 272 d, 273 a.

 

[70]PAPARRIGÒPULOS, cit., III, p. 538; GIBBON, cit., p. 176; IMPELLIZZERI, cit., pp. 108, 112.

 

[71]MPG, XXXV, citato da G. W. Bowersock in Julian Poems, p. 21.

 

[72]GIBBON, cit., II, pp. 347-48. Il testo inglese è citato da D. Haas in AiJ jArcai; tou' Cristianismou'.

 

[73]BOWERSOCK, Juliam Poems, pp. 96-97; HAAS, Reading Notes, p. 46.

 

[74]Quando si vide immerso nella tenebra / negli abissi tremendi della terra, / con una scorta d'empi Greci, e vide / fra osanna e grandi luminarie uscire / parvenze immateriali innanzi a sé, / ebbe paura il giovine un istante, / resuscitò un istinto d'anni pii / e si segnò col segno della Croce. / Le parvenze d'un tratto dileguarono, / niente più osanna, si spensero i lumi. / I Greci si guardarono in segreto. / Disse: «Avete veduto che prodigio? / Compagni miei carissimi, ho paura. / Paura, amici. Voglio andare via. / Vedete come sono dileguati / i dèmoni, al vedere ch'io facevo / il sacrosanto segno della Croce?» / Sghignazzarono forte allora, i Greci: «Vergógnati di dire cose simili / a noi che siamo sofisti e filosofi. / Racconta pure queste cose al vescovo / di Nicomedia e ai preti quanto vuoi. / Sono comparsi i più possenti dèi / dell'Ellade gloriosa innanzi a te. / E se sono fuggiti, non t'illudere / che sia stato quel gesto ad atterrirli. / Appena t'hanno visto che abbozzavi / quella figura grossolana, / s'è disgustata l'indole gentile, / sono fuggiti in segno di disprezzo.» / Gli dissero così: dalla paura / divota, tutta sacrosanta unzione, / si riebbe lo stolto, e le blasfeme / parole degli Elleni lo convinsero.

 

[75]HAAS, AiJ jArcai; tou' Cristianismou' , p. 600 ss.

 

[76]GIBBON, cit., II, pp. 367-68 nota 90; HAAS, Reading Notes, p. 42.

 

[77]«Oujdemiva tw'n tou' jIoulianou' diatavxewn hjduvnato na; katafevrh/ eij" to;n cristianismo;n plhgh;n barutevran kai; oujdemiva ejkivnhse pikrovteron th;n ajganavkthsin tw'n cristianw'n. Lamprw'" d'ejxedhlwvqh hJ  ajganavkthsij" au[th uJpo; Grhgorivou tou' Nazianzhnou', dia; th'" perifhvmou aujtou', ejn tw/' sthliteutikw/' a'  kata; jIoulianou'', ajpostrofh'", h{ti" ajrcoumevnh dia; tw'n levxewn pollw'n ga;r kai; deinw'n o[ntwn ejf'  oi|" ejkei'no" misei'sqai dikaivw", oujk e[stin o{, ti ma'llon h] tou'to paranomhvsa faivnetai, ejxakolouqei' mevcri tevlou" tou' 'lovgou, katadeiknuvousa th;n ajparaivthton ajnavgkhn th'" tou' cristianismou' meta; tou' ajrcaivou eJllhnismou' summaciva". Proevkeito tw/ovnti na; kaqierwqh/' to; diazuvgion tou' nevou dovgmato" ajpo; tou' ajrcaivou eJllhnismou' kai; na; ajnatraph/' ou[tw ejk bavqrwn hJ miva tw'n duvo bavsewn ejf'  w|n de;n e[pausen e[ktote ejreidovmeno" oJ newvtero" eJllhnismov".

Pw'" h\to loipo;n dunato;n na; mh; fruavxh/ hJ eujaivsqhto" tou' Nazianzinou' yuchv ; {Oqen eujlovgw" ajnakravzei, pro;" tou;" ejqnikou;" ajpoteinovmeno": ta; me;n a[lla parh'ka toi'" boulomevnoi", plou'ton, eujgevneian, eu[kleian, dunasteivan, a} th'" perifora'" ejsti, kai; ojneirwvdou" tevryew". Tou' 'lovgou de; perievcomai movnou, kai; ouj mevmfomai cersaivoi" te povnoi" kai; qalassivoi", oi} touvtou" moi sunepovrhsan. AiJ duvo ajntivpaloi merivde" ajnthgwnivzonto ou{to tiv" pleovteron th'" a[llh" prosoikeiwqh/' tou;" qhsaurou;" th'" eJllhnikh'" sofiva" kai; ;eujfu:iv:a". Cf. PAPARRIGÒPULOS,  cit., III, pp.  543-44.

 

[78]HAAS, Reading Notes, p. 49.

 

[79]AMMIANO MARCELLINO, XXII, 10, 7 e XXV, 4, 20.

 

[80]BECK, cit., pp. 209-10.

 

[81]GIBBON, cit., II, pp. 177-78; K. PAPARRIGÒPULOS, cit., III, p. 593.

 

[82]GIULIANO, Lettera al Senato e al popolo di Atene, 274 c-d.

 

[83]AMMIANO MARCELLINO, xvi, 10, 18, 19; GIBBON, cit., II, pp. 179-80.

 

[84]GIULIANO, Ad Eusebia, 124 a; E. GIBBON, cit., II, p. 179.

 

[85]AMMIANO MARCELLINO, XV, 8, 22; R. LAVAGNINI, Unpublished Drafts, pp. 84-86; BOWERSOCK, Julian Poems, p. 95.

 

[86]R. LAVAGNINI, Unpublished Drafts, pp. 83-86; BOWERSOCK, Julian Poems, p. 95.

 

[87]Vecchia cieca, eri tu pagana occulta, / o cristiana?  Ed il discorso tuo / che risultò verace, che quei / che tra gli applausi entrava in Vienna, / il glorïoso Cesare Giuliano, / avrebbe degli dèi falsi servito / i santuari, quel discorso tuo / che risultò verace, , tu con pena, / lo proferisti, ovver, trista, con gioia? (Trad. B. Lavagnini)

 

[88]GIULIANO, Lettera al Senato e al popolo di Atene, 279 b-c-; PAPARRIGÒPULOS, cit., III, p 539; GIBBON, cit., II, p. 198.

 

[89]GIULIANO, Lettera al Senato e al popolo di Atene, 284 a-b-c-d, 285 a-b-c-d; AMMIANO MARCELLINO, XX, 4, 17-22; PAPARRIGÒPULOS, cit., III, p. 539; GIBBON, cit., II, pp. 311-12.

 

[90]AMMIANO MARCELLINO, XXI, 8; GIBBON, cit., II, pp. 314, 318-22.

 

[91]AMMIANO MARCELLINO, XXI, 16; GIBBON, cit., II, pp. 325-26.

 

[92]PAPARRIGÒPULOS, cit., III, pp. 540-41.

 

[93]Citato in PAPARRIGÒPULOS, III, p. 541.«Dite al re che la bella dimora è crollata. / Febo Apollo non ha più un asilo, il sacro alloro è appassito, / tace ormai la sua fonte, / s'è ammutolito il mormorio dell'acqua.».

 

[94]PAPARRIGÒPULOS, cit., III, p. 541 nota 1.

 

[95]GIBBON, cit., II, p. 354.

 

[96]AMMIANO MARCELLINO, XXI 9, 3 ss.

 

[97]GIULIANO, Epistola 89 a, 453 c-d; inoltre cf. GIBBON, cit., II, pp. 355-56 nota 41.

 

[98]«Io, constatando molta negligenza / in voi verso gli dei...» - dice con tono grave. / Negligenza. Ma dunque, che sperava? / Poteva riformare il clero nell'organico, / e scrivere al pontefice dei Galati e d'altrove, / dando istruzioni e moniti fin che desiderava. / Positivo: i suoi amici non erano cristiani. / Ma certo non potevano giocare, come lui / (tutto cristiano nell'educazione) / con il sistema d'una chiesa nuova, / grottesco nella pratica e nei piani. / Erano greci, infine. Augusto, non esagerare!

 

[99]CANTARELLA, cit., pp. 343-44, 351-52; IMPELLIZZERI, cit., p. 105.

 

[100]KAVAFIS, Poesie, cit., pp. 512-13, nota a p. 410.

 

[101]GIULIANO, Epistola 157: Sozomen.. V. 18, 7: Tavde ga;r ejpitwqavzwn oJ basileu;" (scil. jIouliano;") toi'" tovte diaprevpousin ejpiskovpoi" ejpevsteilen: «ajnevgnwn, e[gnwn katevgnwn:» tou;" de; pro;" tau'ta ajntigravyai: «ajnevgnw", ajll' oujk e[gnw": eij ga;r evgnw", oujk a]n katevgnw"». Eijsi; de; oi| Basileivw/ tw/' prostavnti tw'n ejn Kappadokiva/ ejkklhsiw'n tauvthn th;n ejpistolh;n ajnatiqevasi, kai; oujk ajpeikov".

 

[102]Atti degli apostoli, 8, 30.

 

[103]Sulle nostre credenze religiose, il fatuo / Giuliano disse: «Ho letto, ho inteso, / ho condannato». Quasi ci avesse annichilito / con quel suo «condannato». che buffone! // Tali motti non hanno presa su noi cristiani. / Sùbito rispondemmo: «Hai letto, inteso, no: / se avessi inteso non avresti condannato».

 

[104]To; o[noma cristianov", wJ" ei[dwmen, ejgennhvqh ejn jAntioceiva/ ijdivw" (...). jAlla; to; Galilai'o" ma'llon wJ" skwptiko;n ejdivdeto uJpo; tou' jIoulianou' kai; uJpo; tw'n ejqnikw'n eij" tou;" cristianou;". To; de; Nazwrai'o" ejdovqh ejn ajrch/' eij" tou;" pisteuvonta" eij" to;n jIhsou'n th'" prwvth" ejn JIerousalh;m ejx jIoudevwn cristianikh'" ejkklhsiva", kai; ajfou' ejpekravthse to; o[noma cristiano;" ajpo; tw'n mevswn h[dh tou' prwvtou aijw'no", to; Galilai'o" kai; Nazwrai'o" h] Nazwrhno;" skwptikw'" ma'llon ejdivdonto eij" tou;" cristianou;" uJpo; tw'n ejqnikw'n. Shmeiwtevon de; o{ti to; o[noma Nazwrai'o" ejpekravthsen eijdikw'" ejn Palaistivnh/ wJ" o[noma ijouda:i:zouvsh" aiJrevsew" megavlh", diadedomevnh" eij" ta;" pevran tou' jIordavnou cwvra", ejnteuqen de; uJpo; tw'n jAravbwn ejdovqh, kai;  divdetai mevcri shvmeron, eij" tou;" cristianou;" uJpo; tuvpon nasravni. jEnnoei'tai o{ti to; Nazwrai'o" tou'to, to; ejk Nazare;t paragovmenon, oujdemivan scevsin e[cei pro;" to; Nazeirai'" h] Nazwrai'o" th'" Pal. Diaq. (id. Kritw'n kef. IG ' ) ejk tou' ejbra:i:kou' Nazivr, o{per dhloi' kurivw" sofov", dunatov", ei[ta a{gio" (ejk tou' eJbr. ejdovqh eij" tavxin tina; leuitw'n ajfwsiwmevnwn tw/'' Qew/', ajpecovntwn oi[nou kai; sikevrwn, oi|o" h\n oJ JSamywvn. To; o[noma tou'to methnevcqh kai; eij" th;n cristianikh;n ejkklhsivan kai; grammateivan shmai'non to;n tw/' Qew/' kecarismevnon kai; ajfierwmevnon, to;n a{gion, to;n ajfwsiwmevnon tw/' Qew/' (ijd. th;n l. para; JHsuc.). Grhgovrio" oJ JQeolovgo" kalei' Nazwraivou" tou;" monacouv" tou;" aujsthro;n monaciko;n bivon biou'nta", ou}" kai; ajpecairevthse peripaqw'", ejn tw/' suntakthrivw/ lovgw/ (caivrete Nazwraivwn corostasiva yalmw/dw'n).

 

[105]GIBBON, cit., II, pp. 386-87;

 

[106]GIULIANO, Misopogon, 357 a-b.

 

[107]KAVAFIS, Poesie, cit., pp. 507-508 nota a p. 330, pp. 508-509 nota a p. 336, p. 511 nota alle pp. 376 e 380, p. 515 nota a p. 474.

 

[108]Professore di apologetica e nel 1936-1937 rettore dell'Università di Atene, G. Papamichaìl trascorse dieci anni ad Alessandria dove fu chiamato nel 1908 dal patriarca Fozio che gli affidò la direzione della Biblioteca Patriarcale. A Papamichaìl è dovuta la fondazione delle riviste jEkklhsiastiko;" Favro" e Pavntaina che diresse fino al 1918. Ad Alessandria Papamichaìl pubblicò quindici delle sue numerose opere, tra le quali le seguenti sono degne di menzione: JO th'" ejn Kwnstantinoupovlei biblioqhvkh" tou' Sera:iv:ou kw'dix th'" jOktateuvcou, jApokaluvyei" peri; th'" Rwsikh'" politikh'" ejn th/' jOrqodovxw/ JEllhnikh/' jAnatolh/', JO {Agio" Grhgovrio" Palama'" jArciepivskopo" Qessalonivkh",  JH kau'si" tw'n nevkrw'n, Peumatismo;" kai; Cristianismov". Inutile dire che tutte queste opere sono scritte in uJperkaqareuvousa. Papamichaìl, tuttavia, collaborò anche alla rivista Gràmmata. L'esemplare del suo libro Chiesa e Teatro, rinvenuto nella biblioteca di Kavafis, reca la seguente dedica: «Sto;n baqu;n th'" tevcnh" Muvsthn K. P. Kabavfhn, gia; th;n krivsin tou, oJ gravya".»

 

[109]Ma possibile mai che rinnegassero / la loro vita splendida, la varietà dei loro / quotidiani diletti, il loro fulgido / teatro, dove l'Arte era una cosa sola / con i trasporti erotici? // Immorali lo erano, non poco (forse molto). / Pure, avevano un vanto: quella vita / era la decantata vita d'Antiochia, / di voluttà, di gusto inimitabile. / E ora, rinnegare tutto? E dove rivolgersi? // Ai vaniloqui sugli dei falsi e bugiardi, / alle sue ciance uggiose su se stesso, alla puerile fobia del teatro, alla sua / austerità sgraziata, alla barba ridicola? // Oh, certo, meglio il Chi. / Oh, certo, meglio il Cappa. Cento volte.

 

[110]PAPARRIGÒPULOS, cit., III, p, 543: GIBBON, cit., II, p. 359 ss.

 

[111]GIULIANO, Epistola 134.

 

[112]GIULIANO, Epistola 80.

 

[113]AMMIANO MARCELLINO, XXII e XXIII.

 

[114]GIULIANO, Misopogon, 362 a.

 

[115]GIBBON, cit., II, p. 372.

 

[116]GIULIANO, Misopogon, 362 a-b.

 

[117]AMMIANO MARCELLINO, XXII, 12.

 

[118]GIBBON, cit., II, pp. 373-74; HAAS, Reading Notes, p. 48.

 

[119]GIULIANO, Misopogon, 346 b, 361 b-c; PAPARRIGÒPULOS, cit., III, p. 544; GIBBON,  cit., II, pp. 373-74.

 

[120]Ad Antiochia c'è venuto il capogiro, / alle nuove prodezze di Giuliano. //Apollo si spiegò direttamente, a Dafni, / con Sua Maestà! Gli oracoli non voleva più darli / (che guaio!) né parlare per bocca dei profeti, / se il suo tempio di Dafni non si purificava. / Gli davano fastidio - disse - i vicini morti. // C'erano, a Dafni, molte tombe. E uno / dei morti là sepolti / era la gloria della nostra chiesa, / il trionfante, mirabile, santo martire Bàbila. // Certo alludeva a lui, il dio falso e bugiardo. / Sentendolo vicino, non aveva coraggio / d'emettere gli oracoli: acqua in bocca. (Paura / hanno dei nostri màrtiri, gli dei falsi e bugiardi). // L'empio Giuliano si diede da fare: / isterico, gridava Prendetelo, levatelo, / trasportatelo via subito, questo Bàbila. / Non lo sentite? Infastidisce Apollo. / Prendetelo, strappatelo via. Disseppellitelo, / e recatelo dove più v'aggrada. / Apollo ha detto di purgare il tempio. // E noi prendemmo e altrove recammo la reliquia. / La prendemmo e recammo via con onore e con amore. // E il tempio? Il tempio ci ha davvero guadagnato. / Non passò molto tempo, e una fiammata / immensa divampò. Terribile fiammata: / andarono bruciati il tempio e Apollo. // Cenere, il simulacro: spazzatura. // È schiattato, Giuliano e ha sparso la voce / - e che poteva fare? - ch'era stato appiccato / da noi cristiani, il fuoco. Dica, dica. /Prove non  ce ne sono: dica, dica. / Ma l'essenziale è questo: ch'è schiattato.

 

[121]KAVAFIS, Poesie, cit., p. 515 nota a p. 474; HAAS, Reading Notes, p. 48

 

[122]AMMIANO MARCELLINO, XXIII, 2; PAPARRIGÒPULOS, cit., III, pp.544-45; OSTROGORSKY, cit., p. 44; GIBBON, cit., II, pp. 389-91.

 

[123]Ibid., p. 391.

 

[124]GIULIANO, Epistola 98, 399 d.

 

[125]GIBBON, cit., II, p. 391 e nota 29.

 

[126]GIULIANO, Epistola 98, 400 d.

 

[127]GIBBON, cit., II, p. 392.

 

[128]AMMIANO MARCELLINO, XXV, 3; PAPARRIGÒPULOS, cit., III, p. 545.; OSTROGORSKY, cit., p. 44: GIBBON, cit., II, p. 415.

 

[129]AMMIANO MARCELLINO, XXV, 3; PAPARRIGÒPULOS, cit., III, p. 545; GIBBON, cit., II, pp. 415-17.

 

[130]AMMIANO MARCELLINO, XXV 3; GIBBON, cit., II, p. 427.

 

[131]Cf. PAPARRIGÒPULOS, III, p. 545

 

[132]KAVAFIS, Poesie, cit., p.511 nota a p. 380.

 

[133]D'ecclesiastici e laici una gran processione / (rappresentate tutte le categorie) / sfila per le strade e piazze e porte / della famosa città d'Antiochia. // In testa all'imponente processione / un efebo bellissimo biancovestito regge / con le mani levate la Croce, / nostra forza e speranza, la Santisima Croce. // I pagani, già tanto tracotanti, / e ora tutti riservati e timidi, / s'allontanano in fretta dal corteo. / E lontano, lontano da noi restino sempre / (fino a che non abiurino il loro errore). Avanza / la Santissima Croce. E per ogni quartiere / dove divotamente  vivono i cristiani / reca conforto e gioia: / escono, i pii, sugli usci / e pieni d'esultanza adorano / la forza, la salute del mondo, la Croce. // È una festa annuale dei cristiani. / Ma oggi, ecco, si celebra con più cospicua pompa. / È libero lo Stato, finalmente! / Il sozzo, abominevole Giuliano / ormai non regna più. // Preghiamo per il piissimo Gioviano.

 

[134]GIBBON, cit., II, p. 428.

 

[135]R. LAVAGNINI, Unpublished Drafts, p. 60.

 

[136]Ibid, pp. 61-63.

 

[137]Dentro una barca, in mezzo al grande Nilo, / assieme a due suoi monaci compagni, / lui pio, lui della ortodossia custode / pregava: i suoi nemici lo inseguivano, / poca speranza aveva di salvarsi. / Contrario il vento. Con difficoltà / avanzava la loro barca fragile. // Come della preghiera giunse al termine / volse uno sguardo triste ai suoi compagni. / Rimase incerto nel vedere il loro / strano sorriso: mentre lui pregava / avevan presentito quello che / nella Mesopotamia succedeva. / In quel momento i monaci conobbero / che Giuliano, quel porco,  era spirato... (Trad. B. Lavagnini)

 

[138]R. LAVAGNINI, Unpublished Drafts, p. 60; BOWERSOCK, Julian Poems, p. 94 nota 14. Infatti l'episodio concernente i due monaci in barca sul Nilo insieme a sant'Atanasio è in MPG, XXVI, coll. 980C-981C.

 

[139]R. LAVAGNINI, Unpublished Drafts, p. 87; BOWERSOCK, Julian Poems, p. 100; HAAS, Reading Notes, p. 50 nota 78.

 

[140]Quindici anni erano passati / ed era di Teodosio l'anno primo. / Nel palazzo paterno, in Alessandria, / un giovane attendeva un caro amico. // Prese, per far passare meglio il tempo, / il primo libro che gli capitò. // Esso era di un sofista assai bilioso / che per umiliazione dei Cristiani / riferiva una frase di Giuliano: / «Certo sì, Matteo prima e Luca prima», / fra sé diceva l'alessandrino giovane. // Sul resto, per la frase leggera di Giuliano, / sopra i poemi di Esiodo e di Omero, / si limitò a sorridere soltanto. (Trad. B. Lavagnini)

 

[141]GIBBON, cit., II, p. 365 nota 83.

 

[142]LIDDELL, Biography, p. 195. Cf. MARCO ANNEO LUCANO, Farsaglia, libro I, vv. 125-128:

Nec quemquam iam ferre potest Caesarue priorem / Pompeiusue parem. Quis iustius induit arma? / scire nefas; magno se iudice quisque tuetur: / uictrix causa deis placuit, sed uicta Catoni.

 

[143]R.RUFOS, JO Kavbavfh" kai; hJ mousikh; th'" parakmh'" in Tetravdia Eujqhvnh", 19, Atene 1992, p. 25.

 

[144]LIDDELL, Biography, p. 197.

 

[145]Ibid., p. 180; D. Clay, cit., p. 157.

 

[146]SAREGIANNIS, cit., p. 47.

 

[147]Manuele Comneno imperatore, / un giorno melanconico di settembre, vicina / sentì la morte. Astrologi di corte / (pagati) blateravano / che sarebbe vissuto a lungo ancora. / Ma, mentre quelli parlano, il sovrano / si sovviene d'antiche consuetudini pie. / Dalle claustrali celle fa recare / vesti sacerdotali, / e le indossa, felice di mostrare / divoto aspetto di monaco o prete. // Fortunati coloro che hanno fede, e finiscono / come il sire Comneno imperatore, / ammantati di fede divotissimamente.

 

[148]R, LAVAGNINI, Eij" to; fw'" th'" hJmevra"; BOWERSOCK, cit., p. 102; HAAS, Aij jArcai; tou' Cristianismou'; HAAS, Reading Notes, pp. 60-61.

 

[149]Se, frantumati i loro simulacri, / noi li cacciammo via dai loro templi, / non sono morti per ciò gli dei. / O terra della Ionia, ancora t'amano, / l'anima loro ti ricorda ancora. / Come aggiorna su te l'alba d'agosto, / nell'aria varca della loro vita un èmpito, / e un'eterea parvenza d'efebo, / indefinita, con passo celere, / varca talora sulle tue colline.