©MAURO
GIACHETTI
COSTANTINO
KAVAFIS
E
BISANZIO
COSTANTINO
KAVAFIS E BISANZIO
CAPITOLO
IV
GIULIANO
L'APOSTATA
NELL'OPERA
POETICA DI
COSTANTINO
KAVAFIS*
In una compagine storica ampia e
variegata quale il Millennio bizantino, vi furono fatalmente periodi di crisi e
di transizione. Precisamente tali periodi, grazie ai quali sono individuabili
in maniera netta non solo gli elementi di vulnerabilità, ma anche quelli che
determinano la stabilità della complessa realtà di un dato periodo,
costituiscono, sia per lo storico accademico che per un poeta come Kavafis, il
quale era solito definirsi poeta storico, le circostanze più propizie tramite
le quali effettuare analisi al fine di penetrare meglio nella vera sostanza di
cui è fatta la storia. E se nella storia dell'umanità vi furono innumerevoli
periodi di crisi, di transizione e di trasformazione, nessuno di essi fu forse
più tragico di quello corrispondente al IV secolo d. C., allorché ebbero luogo
simultaneamente eventi drammatici quali il tramonto del mondo tardoantico, il
conflitto tra paganesimo e cristianesimo e, per di più, conflitti che causarono
dolorose lacerazioni nel tessuto del cristianesimo stesso il quale, però, era
destinato a trionfare sull'idolatria.
Ma quel trionfo fu un fenomeno tutt'altro
che repentino e l'evoluzione delle cose in tale direzione era ormai in atto da
secoli. Gli speciali provvedimenti adottati in misura sempre crescente in
favore del cristianesimo da Costantino il Grande pur nell'ambito del rispetto
formale della religione pagana e, via via, dai suoi immediati successori, a
eccezione di Giuliano l'Apostata, non costituirono un avvenimento estemporaneo,
bensì la coerente soluzione di problemi preesistenti che avevano raggiunto il
momento opportuno per essere risolti in maniera sistematica.[1]
Si trattò del compimento di un processo
storico le cui origini risalivano principalmente alla crisi causata dai
mutamenti prodottisi con il nuovo assetto politico determinato dalle conquiste
territoriali della spedizione panellenica di Alessandro Magno e, dopo la sua
morte, dalla creazione dei regni dei Diadochi. Il declino delle antiche
istituzioni etiche, religiose e politiche peculiari delle povlei", le città-stato, già in atto da tempo, venne
accelerato, e la pressoché totale scomparsa dell'indipendenza dei nuclei urbani
non significò solamente la perdita delle libertà politiche, ma anche lo
smarrimento della dimensione politica,
nel senso più strettamente etimologico del termine. E tutto ciò ebbe profonde
ripercussioni nella sfera della disciplina collettiva del pensiero, delle
emozioni e della religiosità.[2] Già sul finire del IV secolo a. C., ad esempio,
Evemero da Messana era stato accusato di ateismo
a causa della sua dottrina razionalistica
secondo la quale gli dei non erano che uomini eccezionali, divinizzati in virtù
delle grandi gesta compiute.[3]
L'ormai inadeguato collettivismo
religioso degli agonizzanti culti poliadi e la moltitudine sempre più confusa
delle divinità pagane, non riuscivano più ad acquietare i turbamenti spirituali
che, negli uomini, tendevano ad assumere tratti caratterizzati da un
individualismo e da uno scetticismo sempre maggiori. Tale scetticismo fu una
delle cause della rapida diffusione di culti quali quello di Tyche, divinità
incostante per eccellenza, favorito, oltre che dall'affievolirsi del fervore per
le religioni tradizionali, anche dal fatto che prevalse il disorientamento
nell'animo di innumerevoli individui che, sradicati dal ristretto orizzonte
della propria polis e, di conseguenza, privati di elementi apparentemente
rassicuranti quali i miti, il teatro e l' ajgoravv,[4] costituenti
la familiare atmosfera della propria città natale, si trovarono disseminati,
insieme alla Koinh; JEllhnikh; Laliavv, la Comune Lingua Greca, in una immensa diaspora le cui
propaggini si estendevano dall'Egitto fino alla Battriana e all'India.
E dalla spedizione
panellenica, fulgida,
vittoriosa, mirabile,
celebrata, gloriosa,
come nessuna s'ebbe
gloria mai,
da quella incomparabile
spedizione, sortimmo,
novello mondo greco, e
grande, noi.
Kavafis pone queste parole sulle labbra di
un greco della diaspora il quale, nel 200 a. C., contempla quel «nuovo, grande
mondo ellenico» da cui, paradossalmente, Atene e Sparta sono pressoché
totalmente e kavafianamente assenti.
STA 200 p. C.
« jAlevxandro" Filivppou kai; oiJ {Ellhne"
plh;n Lakedaimonivwn -
»
Mporou'me kavllista na; fantasqou'me
pw;" q ’ ajdiafovrhsan pantavpasi sth;n Spavrth
gia; th;n ejpigrafh;n aujthv.«Plh;n
Lakedaimonivwn»,
ma; fusikav. De;n h\san oiJ JSpartia'tai
gia; na; tou;" oJdhgou'n kai; gia; na; tou;"
prostavzoun
sa;n polutivmou" uJphrevta". [Allwste
mia; panellhvnia ejkstrateiva cwri;"
Spartiavth Basileva gi’
ajrchgo;
de;n qa; tou;" faivnontan pollh'"
periwph'".
\A bebaiovtata
«plh;n
Lakedaimonivwn».
Ei\nai ki aujth; mia; stavsi". Noiwvqetai.
[Etsi, plh;n
Lakedaimonivwn sto;n Granikov:
kai; sth;n jIsso; metav: kai; sth;n teleiwtikh;
th;n mavch, o{pou ejsarwvqhv oJ fobero;"
strato;"
pou; st’ [Arbhla
sugkevntrwsan oiJ Pevrsai:
pou; ajp’ t’ [Arbhla
xekivnhse gia; nivkhn, k’ ejsarwvqh.
Ki ajp’ th;n
qaumavsia panellhvnian ejkstrateiva,
th;n nikhfovra, th;n perivlamprh,
th;n perilavlhth, th;n doxasmevnh
wJ" a[llh de;n doxavsqhke kamiav,
th;n ajparavmillh: bghvkam’
ejmei'":
eJllhniko;" kainouvrgio" kovsmo", mevga".
jEmei'":
oiJ jAlexandrei'", oiJ jAntiocei'",
oiJ Seleukei'", k’
oiJ poluavriqmoi
ejpivloipoi {Ellhne" Aijguvptou kai;
Suriva",
k’ oiJ ejn Mhdiva/, k’ oiJ ejn Persivdi, ki o{soi a[lloi.
Me; te;" ejktevtamevne" ejpikravteie",
me; th;n poikivlh dra'si tw'n stocastikw'n
prosarmogw'n.
Kai; th;n Koinh;n JEllhnikh;n Lalia;
wJ" mevsa sth;n Baktrianh; th;n phvramen,
wJ" tou;" jIndouv".
Gia; Lakedaimonivou" na; milou'me twvra![5]
Intensificatosi nelle coscienze
individuali il senso della imprevedibilità di circostanze determinate
fortuitamente dalla sorte, si intensificò anche la costruzione di templi a
Tyche, e mentre le antiche divinità furono sentite sempre più remote, prese a
diffondersi il convincimento che esse fossero divenute indifferenti verso le
aporie degli uomini. Talvolta la fortuna assunse il ruolo di protettrice di
città: rinomata tra tutte la Tyche di Antiochia che Eutichide di Sicione, allievo di Lisippo,
scolpì nel marmo raffigurandola in atteggiamento altero, su di una rupe
simboleggiante il monte Silpio, la testa cinta da una corona turrita, con il
piede sul fiume Oronte domato.[6]
Quando il fervore religioso, non del tutto
estinto, tornò a
prevalere sullo scetticismo, un ardente desiderio di
salvezza spirituale e una grande speranza in una vita eterna dopo la morte si
manifestarono tra le moltitudini. L'antica religione, già mostratasi del tutto
insufficiente a soddisfare le nuove esigenze spirituali, venne sostituita da
altre pratiche a carattere soteriologico e universalistico nelle quali era
tutt'altro che arduo intravedere
sollecitazioni
a tendenza monoteistica. Nel II secolo a. C. Posidonio di Apamea aveva dato il
via a una corrente filosofica con la quale egli si prefiggeva di stimolare la
rinascita della religiosità.[7]
Con l'intensificarsi della decadenza del culto degli antichi dei,
acquisì una importanza sempre maggiore, in ispecie sul finire del periodo
ellenistico, il culto di origine orientale - ereditato da Alessandro -
tributato ai sovrani che, divinizzati da vivi, e quindi immediatamente visibili
e considerati per questo più rassicuranti e affidabili delle tradizionali
divinità poliadi, sostituirono queste ultime su scala statale, assumendo sempre
più sovente epiteti quali swthvr, ejpifanhv", eujergevth", Qeov". I sovrani dei regni
ellenistici, una volta divinizzati, ebbero il proprio posto nel pantheon
divenendo, in tal modo, una sorta di prodromi del Salvatore e del Messia che,
di lì a poco, si sarebbe fatto uomo per redimere l'umanità.[8]
Intorno alla fine del periodo ellenistico l'assuefazione a tali
mescolanze fra divinità e regalità era giunta al punto che quando, nel 41 a.
C., Marco Antonio entrò in Efeso, il popolo inneggiò a lui quale Dioniso
Evergete.[9] Allorché Cleopatra
raggiunse Antonio a Tarso, in Cilicia, essa risalì il fiume Cidno a bordo di
una nave dalla poppa d'oro e con le vele purpuree spiegate al vento; i rematori
vogavano contro corrente con remi d'argento al suono di un flauto, di liuti e
di zampogne; la regina d'Egitto, sdraiata sotto un sopraccielo ricamato d'oro,
era ornata come le Afroditi, e uno sciame di fanciulli schiavi le facevano
vento ai due lati del baldacchino, mentre le più belle delle ancelle,
acconciate come Narcisi e Grazie, stavano le une sui pennoni, le altre sopra la
barra del timone; effluvi meravigliosi d'incenso si spandevano lungo le rive
del fiume gremite di folla intanto che la nave passava, e in mezzo a quella
moltitudine attonita si diffuse la notizia che Afrodite si recava a Tarso per unirsi
a Dioniso per il bene dell'Asia.[10]
E giunti ormai alla vigilia della battaglia di Azio, nella quale Antonio
sarebbe stato definitivamente sconfitto, Plutarco narra che all'improvviso,
verso mezzanotte, in Alessandria si credette persino di udir passare il tiaso
del dio che abbandonava Antonio.
« jEn tauvth/ th'/ nuktiv,
levgetai, mesouvsh/ scedovn, ejn hJsuciva/ kai; kathfeiva/ th'"
povlew" dia; fovbon kai; prosdokivan tou' mevllonto" ou[sh",
aijfnivdion ojrgavnwn te pantodapw'n ejmmelei'" tina" fwna;"
ajkousqh'nai kai; boh;n o[clou meta; eujasmw'n kai; phdhvsewn saturikw'n,
w{sper qiavsou tino;" oujk ajqoruvbw" ejxelauvnonto": ei\nai de;
th;n oJrmh;n oJmou' ti dia; th'" povlew" mevsh" ejpi; th;n puvlhn
e[xw th;n tetrammevnhn pro;" tou;" polemivou", kai; tauvth/ to;n
qovrubon ejkpesei'n plei'ston genovmenon. jEdovkei de; toi'"
ajnalogizomevnoi" to; shmei'on, ajpoleivpein oJ qeo;" jAntwvnion,
w'J/ mavlista sunexomoiw'n kai; sunoikeiw'n eJauto;n dietevlesen.»[11]
Attento lettore di Plutarco, Kavafis trasse ispirazione da questo passo
della Vita di Antonio e, nel 1910,
compose una delle sue liriche più sublimi, “Il dio abbandona Antonio”. Se nel
titolo e nei primi tre versi della lirica riecheggiano pressoché
pedissequamente le parole di Plutarco, il resto della poesia, in cui sono
ravvisabili concetti stoici ed epicurei, costituisce un mirabile inno alla
dignità, specialmente nei momenti di maggiore avversità, i quali non devono
essere un pretesto per rimpiangere le trascorse gioie, bensì una occasione per
mostrar gratitudine persino dell'ultima, dell'estrema gioia che Alessandria - e
la vita - si degnano di concedere. Secondo Seferis, inoltre, in alcuni di
questi versi sono ravvisabili accenti che rimandano ai colloqui di Marco
Aurelio eij" eJautovn.[12]
Sa;n e[xafna w{ra mesavnuct’ ajkousqei'
ajovrato" qivaso" na; perna'
me; mousike;" ejxevsie", me; fwnev" –
th;n tuvch sou pou; ejndivdei piav, ta; e[rga sou
pou; ajpevtucan, ta; scevdia th'" zwh'" sou
pou; bgh'kan o{lla plavne" mh; ajnwfeleta
qrhnhvsei".
Sa;n e{toimo" ajpo; kairov, sa; qarralevo",
ajpocairevta thn, th;n jAlexavndreia pou; feuvgei.
Pro; pavntwn na; mh; gelasqei'", mh;n pei'"
pw;" h\tan
e{na o[neiro, pw;" ajpathvqhken hJ ajkohv sou:
mavtaie" ejlpivde" tevtoie" mh;n
katadecqei'".
Sa;n e{toimo" ajpo; kairo;, sa; qarralevo",
sa;n pou; tairiavzei se pou; ajxiwvqhke" mia;
tevtoia povli,
plhsivase staqera; pro;" to; paravquro,
ki a[kouse me; sugkivnhsin ajll’ o[ci
me; tw'n deilw'n ta; parakavlia kai; paravpona,
wJ" teleutaiva ajpovlausi tou;" h[cou",
ta; ejxaivsia o[rgana tou' mustikou' qiavsou,
ki ajpocairevta thn, th;n jAlexavndreia pou;
cavnei".[13]
È inoltre degno di nota che mentre, in Plutarco,
Antonio viene abbandonato dal dio che era stato suo patrono fino al giorno
innanzi, Kavafis, genialmente, deifica Alessandria facendole assumere il ruolo
di Dioniso precisamente nel momento supremo in cui Antonio viene abbandonato
dal proprio nume protettore, diserzione messa ancor più in risalto
dall'improvviso passare dell'invisibile tíaso di baccanti e di musici. Con tale
poesia Kavafis sembra voler suggerire che Alessandria ha posseduto sempre il
divino potere di commuovere e di turbare - per mezzo di immagini poetiche - gli
animi di coloro che la Città ha ritenuto degni di ricevere tale dono che,
tuttavia, essa può sottrarre in qualsiasi momento, nello stesso modo inopinato
con cui lo aveva concesso.[14]
“Il dio abbandona Antonio” fu
scritta nel 1910 e pubblicata l'anno successivo. Kavafis selezionò
meticolosamente le poesie composte anteriormente a tale data, rifiutò la
maggior parte di esse, corresse e rielaborò - talvolta anche a distanza di anni
dall'epoca della prima stesura - le poche che decise di serbare finché esse
assumevano la forma definitiva. Tutto ciò avveniva non solo per motivi di
natura stilistica o linguistica ma, come vedremo, per una scrupolosità davvero
inaudita, trattandosi di un poeta, rispetto all'esattezza delle fonti storiche
da cui egli traeva ispirazione e che verificava con grande zelo.[15]
Giorgio Seferis per primo, nel 1946, aveva intuito che gli anni intorno
al 1910 avevano costituito un periodo cruciale per lo sviluppo poetico di
Kavafis, e suggerì che, a partire dalle liriche composte in tale epoca, l'opera
dell'Alessandrino doveva esser letta non come una sequela di poesie
indipendenti le une dalle altre, bensì come un “work in progress” che
solo la morte avrebbe suggellato. Seferis riteneva inoltre che Kavafis fosse il
poeta più difficile della letteratura greca contemporanea e invitava, per
capirlo meglio, a leggerlo senza perdere mai di vista la sostanziale integrità
della sua opera.[16]
Il sistema filosofico-religioso degli stoici venne sviluppato
ulteriormente, nel III secolo dell'era cristiana, da Giamblico di Calcide in
Celesiria, allievo di Porfirio, e una delle opere di Giamblico pervenutaci, il
trattato De mysteriis (Sui misteri), opera filosofico-teologica
degna di grande attenzione, dimostra che Giamblico intendeva dar vita a una
organizzazione ecclesiastica pagana per combattere quella cristiana.
Tra il 1892 e il 1989, Kavafis compose sei poesie e ne registrò i
titoli nel capitolo tematico “Gli Inizi
del Cristianesimo”.[17] Soltanto una di esse ci è pervenuta, l'inedita “Giuliano ai Misteri”, mentre “La croce”, composta nel settembre
1892 e revisionata nel marzo 1917, costituiva verosimilmente la prima stesura
di “Gran processione d'ecclesiastici e laici”), che sarà pubblicata nel 1926. I titoli
delle altre quattro liriche sono “Il ritorno di Knos”
(composta giugno 1892), “La tentazione
del monaco siriano Taddeo” (composta luglio 1892, revisionata dicembre 1902),
“Porfirio” (composta settembre 1892), “Santo Stefano” (composta gennaio 1898).[18]
Nel periodo in cui Kavafis componeva “Porfirio”, aveva certamente dimestichezza con la fonte storico-letteraria
riguardante tale filosofo, vale a dire la Vita
di Porfirio di Eunapio, giacché
nella biblioteca del Poeta alessandrino vi è l'edizione Boissonade del
1878 delle Vite dei filosofi e dei
sofisti che comprende anche le Vite
dei filosofi di Filostrato.[19] Kavafis, inoltre, aveva
accennato a tale opera in un articolo
intitolato Dotti greci i case romane,
pubblicato il 27 ottobre 1896 sulla rivista alessandrina O Kosmos: « JO
Filovstrato" kai; oJ Eujnavpio" kai; a[lloi ajrcai'oi
suggrafei'" ma'" divdoun mivan ijdevan th'" megavlh"
qevsew" h}n katei'con oiJ {Ellhne" lovgioi ejn Rwvmh/, kai; tw'n
uJyhlw'n politikw'n ajxiwmavtwn a{tina
polu; sucna; ejpedayivleuen eij" aujtou;" hJ Rwma:i:kh; politeiva.»[20]
G. Paputsakis, che nel 1963 ripubblicò ad Atene il suddetto articolo,
osservò che Kavafis nutriva grande ammirazione per Filostrato di Lemno e per
Eunapio di Sardi, queste due grandi figure rappresentative dell'estremo
splendore del mondo antico. Eunapio, in ispecie, che fu colui che vivendo nel
nostalgico ricordo e con la speranza della restaurazione del culto degli dei e
dell'antica bellezza ellenica, tratteggiò le immagini maggiormente suggestive
del mondo pagano. È nelle opere di Filostrato e di Eunapio che troveremo le
fonti che ispirarono a Kavafis liriche quali
“I sapienti ciò che s'avvicina, “Apollonio di Tiana a Rodi/, “Se pure è morto”, “Teatro di Sidone (400 d. C.)”, e due
poesie di cui
abbiamo già parlato nel precedente saggio, “Sacerdote di Serapide” e “Miris. Alessandria,
340 d. C.”.[21]
Oltre a un commento al Decline and
Fall di Gibbon, in cui il sofista di Sardi è nuovamente oggetto
dell'attenzione di Kavafis, questi scrisse un altro articolo intitolato Alcune pagine sui
sofisti[22] il cui contenuto, frutto dell'attenta lettura
delle opere di Eunapio e di Filostrato, indica chiaramente quanto profonda
fosse la dimestichezza di Kavafis con la temperie delle scuole neoplatoniche
nella quale si mosse non solo Porfirio, ma anche Giuliano, e che, come vedremo,
pervade intimamente la sostanza che costituisce l'episodio della lirica
“Giuliano ai Misteri”.
Non sappiamo quale sia stato il preciso tratto della personalità di
Porfirio che indusse Kavafis a dedicargli una poesia. Scolaro di Longino ad
Atene e, successivamente, pertinace discepolo di Plotino a Roma, Porfirio
(233-304) - commentatore di numerose opere di Platone
e di Aristotele -, difese la logica dello Stagirita contro le confutazioni di
Plotino con una sorta di catechismo delle Categorie
e, in ispecie, con la jIsagwghv, detta anche AiJ pevnte fwnaivv. Scritta con lo scopo di far allignare nel
neoplatonismo la componente più significativa del sistema speculativo di
Aristotele, la jIsagwgh;
avrebbe influito profondamente, per mezzo di numerose traduzioni, sul pensiero
medievale arabo e cristiano.
Vi è inoltre da osservare che se da un lato Porfirio scrisse opere quali
Trattato sugli oracoli, Trattato sul
ritorno dell'anima a Dio, Trattato sull'astinenza, Immagini degli dei, opere
nelle quali egli non sola egli non solamente formulò i suoi concetti
riguardanti i Misteri e la salvezza, ma elaborò anche una complessa liturgia teurgica di magia
purificatrice, dall'altro egli, in un secondo tempo, conformò le
proprie elucubrazioni alla mistica di Plotino e redasse un'opera in quindici
libri intitolata Contro i cristiani, alla
quale avrebbe abbondantemente attinto Giuliano l'Apostata e che fu finalmente
bruciata dai cristiani nel 448. Le inquietudini di natura morale dominarono a
tal punto Porfirio che, in questa parte della sua produzione egli raccomandò la
castità quale pratica ascetica per giungere alla catarsi.[23]
Che sia stato lo slight angle su cui Porfirio era situato rispetto all'evolversi del
neoplatonismo, uno slight angle
collocato in un punto intermedio tra le speculazioni relativamente razionali
del suo maestro Plotino e le suggestioni create dai nuovi orientamenti in senso
teurgico dei successori di Plotino, quali Giamblico, e i mentori spirituali di
Giuliano ad attrarre Kavafis, o che sia stata la tendenza al misticismo e
all'ascetismo, fenomeno diffuso tanto tra i pagani che tra i cristiani del
tempo di Porfirio e che costituiva un elemento di avvicinamento piuttosto che
di diversificazione delle due parti, si trattò comunque di una posizione ejn mevrei... ejn mevrei..., in parte... in parte.
Ormai però i patrocinatori dell'idolatria, quale il divino Giamblico,
arrancavano faticosamente e inutilmente sulla via tracciata dal cristianesimo,
e malgrado tutti gli sforzi intrapresi al fine di riunire i confusi culti
teurgici pagani in un sistema teologico organico, ogni loro tentativo era
destinato a un esito infelice. È al contrario assai degno di nota che già gli
Apostoli e, dopo di essi, i Padri della Chiesa, si servirono con mirabile
successo, fin dall'inizio dell'era volgare, della terminologia filosofica
ellenica per definire le categorie concettuali e i dogmi della dottrina
cristiana.[24]
Soffermiamoci brevemente sul termine lovgo": volendo esplorare
l'intricato itinerario semantico percorso da tale termine nel corso della sua
evoluzione, dovremmo - per non smarrirci - guardare sempre con la massima
attenzione a Eraclito secondo il quale lo xuno;"
lovgo"
è la legge universale della realtà. Ma poiché ogni scuola filosofica dà una
definizione affatto diversa della realtà, di conseguenza anche il termine logos assumerà, via via,
significati dissimili. Per i pitagorici sono i numeri gli elementi costituenti
tutto ciò che esiste, l'intero universo è numero e armonia, il numero è il logos
di tutto,
l'origine e la meta finale, la causa immanente e la sostanza di ogni cosa. Per
Platone il logos è ciò che, articolandosi nell'ordine dialettico delle idee,
diviene pensiero discorsivo, diavnoia. Gli stoici definiscono lovgo" spermatikov", ragione seminale, la legge universale originata da un soffio aereo
infiammato. Per il mistico Plotino il
logos è l'ipostasi universale che dà a sé stessa la sostanzialità, è
l'Intelletto o, più precisamente, l'Essere enunciante il suo essere e pensante,
in tal modo, sé stesso. L'alessandrino Filone l'Ebreo (30 a. C.-50 d. C.), fu
l'ermeneuta della forma più significativa assunta dal sincretismo filosofico
della sua epoca; il giudaismo si era ellenizzato già da molto tempo ad
Alessandria e Filone, servendosi della filosofia razionalistica ellenica - in
ispecie del platonismo e dello stoicismo - stabilì, per mezzo
dell'interpretazione allegorica, che il logos
costituiva l'ipostasi intermedia tra l'uomo e il Dio trascendente.[25] Il significato
religioso acquisito con l'andar del tempo dal termine logos, raggiunse forse la capacità espressiva più profondamente
mistica e misterica nell'esordio del quarto Vangelo ove si legge:
jEn ajrch/' h\n oJ Lovgo", kai; oJ
Lovgo" h\n pro;" to;n Qeovn, kai; Qeo;" h\n
oJ Lovgo"... Kai; oJ Lovgo" sa;rx ejgevneto kai; ejskhvnwsen ejn
hJmi'n, kai; ejqeasavmeqa th;n dovxan aujtou', dovxan wJ" monogenou'"
para; Patrov", plhvrh" cavrito" kai; ajlhqeiva".[26]
È chiaro che il Cristo è già identificato con lo stesso logos divino
divenuto uomo tra gli uomini per portare a compimento il mistero della
redenzione. Tutte le dispute cristologiche sorte intorno al dogma trinitario
che occuparono i Padri della Chiesa fino al Concilio di Nicea (325) e oltre,
furono principalmente dirette a come dovesse essere interpretato il concetto di
oJmoousiva, consustanziazione, tra Dio e il Suo
Logos.
Un primo tentativo, fallito, volto a restaurare il paganesimo, fu
compiuto da Massimino Daia (305-313), «a[nqrwpo"
pantavpasi koino;" kai; bavrbaro"»,[27] il
quale, sebbene dominasse solamente la parte orientale dell'Impero, era
sicuramente avvantaggiato dal fatto di operare prima che l'editto di Milano,
emanato nel 313 da Costantino e da Licinio,[28] ponesse fine alla situazione di clandestinità
catacombale in cui versava il cristianesimo. Quanto al dottissimo Giuliano,
egli era fatalmente ostacolato nel portare a termine con successo il proprio
tentativo di restaurazione pagana - nonostante dominasse tutto l'Impero - dal
fatto che tale suo tentativo avveniva allorché il cristianesimo era ormai da
tempo una istituzione assai ben consolidata, e i cui elementi di solidità, non
solo religiosa, ma anche sociale e politica, erano dovuti a dei fattori
determinanti che Giamblico, a suo tempo,
aveva ben indicato: il totale universalismo unito a una struttura
amministrativa assai efficiente.[29]
Giuliano, inoltre, scegliendo
di combattere il cristianesimo
usando le armi intellettuali del cristianesimo stesso e, per di più, volendo
istituire una Chiesa pagana imitando la gerarchia e l'organizzazione della
Chiesa cristiana, non solo mise in luce lo stato di irreversibile esaurimento
in cui si dibatteva l'idolatria, ma evidenziò inconsapevolmente la superiorità
morale ed istituzionale della religione di Cristo. Tuttavia, che il paganesimo
dovesse tentare una ultima volta di reagire e di dar battaglia al cristianesimo,
costituiva l'ineluttabile e naturale ottemperamento a una legge storica,
all'essenza stessa della storia: sarebbe antistorico pretendere che
consuetudini e riti del culto pagano invalsi da secoli si fossero dissolti ex abrupto. Come Kavafis dimostra con la
lirica “La malattia di Clito”, le consuetudini e gli antichi
costumi, così come il ricordo di riti pagani aviti, erano soltanto sopiti negli
animi della gente e, lungi dal dissolversi totalmente, molti di essi sarebbero
giunti fino a noi mimetizzati da una patina
cristiana.[30]
Se, dunque, nel periodo che va da Costantino il
Grande a Teodosio I (379-395) le misure adottate dagli imperatori in materia
religiosa conferiscono all'impero una fisionomia sempre più cristiana, il
cristianesimo, a sua volta, assorbe innumerevoli elementi della cultura pagana
ellenistica. Il pagano Libanio ci informa che Costantino non apportò alcun
mutamento al culto degli dei. Costanzo II (337-361), invece, che con i sinodi
convocati a Sirmio e a Rimini nel 359 aveva fatto proclamare l'arianesimo
religione di stato, adottò provvedimenti assai duri verso il paganesimo. La sua
politica antipagana, tuttavia, sarebbe stata interrotta dall'ascesa al trono di
Giuliano.[31]
In questa compagine sociale, culturale e
religiosa - nella quale paganesimo e cristianesimo erano ancora in uno stato
piuttosto fluido - e che fece da sfondo sia alla formazione adolescenziale di
Giuliano che al resto della sua breve vita e alla sua ancor più breve avventura
quale imperatore, Kavafis ambienta una poesia, pubblicata nel 1911, e
intitolata “Rischi”.[32]
Sebbene nel testo della lirica non sia specificato quali siano
precisamente i pericoli cui allude il titolo, è tuttavia sottinteso che essi
risiedono proprio nella pretesa del giovane siriano, verosimilmente ancora
disorientato nell'Alessandria del IV secolo dove si è recato a studiare -
pretesa secondo la quale egli, dopo essersi dedicato alla ricerca dei piaceri
sensuali, sarà capace di ritrovare lo spirito ascetico in virtù della sola forza
di volontà.
Ei\pe oJ Murtiva" (Suvro" spoudasth;"
sth;n jAlexandreia: ejpi; basileiva"
aujgouvstou Kwvnstanto" kai; aujgouvstou Kwnstantivou:
ejn mevrei ejqniko;", k’ ejn
mevrei cristianivzwn):
«Dunamwmevno" me; ;qewriva kai; melevth,
ejgw; ta; pavqh mou de;n qa; fobou'mai sa; deilov".
To; ;sw'ma mou ste;" hjdone;" qa; dwvsw,
ste;" ajpolauvsei" te;" ojneiremevne",
ste;" tolmhrovtere" ejrwtike;" ejpiqumive",
ste;" lavgne" tou' ai{matov" mou oJrmev",
cwri;"
kanevna fovbo, giati; o{tan qevlw -
kai; qa[cw qevlhsi, dunamwmevno"
wJ" qa\mai me; qewriva kai; melevth -
ste;" krivsime" stigme;" qa; xanabrivskw
to; pneu'ma mou, sa;n privn, ajskhtikov.»[33]
Con questa poesia decisamente autobiografica in cui Myrtìas esita - come
tanti giovani - tra ascetismo ed
edonismo, Kavafis rivela per la prima volta la propria sensualità, e benché
tale lirica non sia ancora esplicita come lo saranno altre composte più tardi,
essa costituisce una pietra miliare significativa per la vita e l'opera del Poeta
alessandrino, perché con “Rischi” assistiamo al perfetto fondersi degli
interessi storici di Kavafis con la apologia della propria sensualità.
Il poeta situa Myrtìas in Alessandria, regnanti Costanzo augusto e
Costante augusto: ci troviamo, quindi, precisamente tra il 340 e il 350 d. C.,
vale a dire, negli anni dell'adolescenza di Giuliano, nel corso dei quali egli,
educato cristiano, diviene pagano. Kavafis fu attratto assai sollecitamente
dalla drammatica personalità dell'imperatore Giuliano il quale
è il personaggio storico più
largamente presente nella sua opera poetica. Se, infatti,
aggiungiamo alle sei liriche giulianee
appartenenti al corpus
riconosciuto l'inedita “Giuliano ai
misteri”, e le cinque liriche lasciate
incompiute dal poeta, ricostruite in base agli abbozzi che si
sono salvati e pubblicate nel 1981,[34] avremo un totale di
dodici poesie che costituiscono il ciclo poetico più significativo di tutta
l'opera kavafiana. Possiamo quindi affermare che l'inedita “Giuliano ai Misteri”, composta nel novembre 1896, oltre a
essere la prima lirica del ciclo giulianeo, coincide anche con l'esordio della
“tematica bizantina” nell'opera poetica di Kavafis. Il conoscere la data di
composizione di ogni poesia è un dato assai significativo.
1. “Giuliano
ai Misteri”, scritta novembre 1896, inedita.
2. “Gran
processione d'ecclesiastici e laici”, scritta marzo 1917 (?), quale
revisione di una poesia composta nel settembre 1892; pubblicata agosto 1926.
3. “Atanasio”, scritta aprile 1920, incompleta.
4. “Il vescovo Pegasio”, scritta maggio
1920, incompleta.
5. “Giuliano, constatando negligenza”,
data di composizione (?), pubblicata settembre 1923.
6. “Giuliano tratto in salvo”, scritta
dicembre 1923, incompleta.
7. “Giuliano a Nicomedia”, data di
composizione (?), pubblicata gennaio 1924.
8. “Hunc deorum templa reparaturum”,
scritta marzo 1926, incompleta.
9. “Giuliano e gli antiocheni”, data di
composizione (?), pubblicata novembre 1926.
10. “Inteso, no”, data di composizione
(?), pubblicata gennaio 1928.
11. Sine
titulo, che inizia con il verso: «Quindici anni già erano passati», data di
composizione (?), incompleta.
12. “Dintorni d'Antiochia”, scritta tra
il novembre 1923 e l'aprile 1933, pubblicata postuma.[35]
Il fatto che il poeta alessandrino abbia dedicato dodici liriche a uno
stesso personaggio, nella fattispecie Giuliano, significa che alcuni aspetti
della sua difficile personalità e alcuni eventi della sua vita, segnata da
vicende assai tristi all'insegna della ragion di Stato, attraevano e nel
contempo ossessionavano Kavafis. Ma quali furono gli aspetti della personalità
e gli avvenimenti della vita di Giuliano che inquietarono così profondamente
Kavafis? A questo punto riteniamo doveroso tratteggiare sommariamente gli
spunti biografici dell'ultimo imperatore pagano, soffermandoci in modo
particolare su quelli che furono fonte di ispirazione per il poeta.
Flavio Claudio Giuliano nacque a Costantinopoli intorno alla metà del
331 da Giulio Costanzo, fratellastro di Costantino il Grande, e da Basilina.
Quando Giuliano aveva soltanto pochi mesi di età, essa morì giovanissima[36] e, da buona cristiana, lasciò le proprie
cospicue sostanze alla Chiesa.[37] Morto Costantino il Grande, il 22 maggio 337,
allorché Giuliano aveva sei anni, scoppiò una rivolta militare alla quale seguì
un eccidio - che Costanzo II non seppe o non volle impedire -, nel quale
trovarono la morte la maggior parte dei discendenti maschi di Costantino.[38] Soltanto Giuliano e il
suo dodicenne fratellastro Gallo, nato dal primo matrimonio di Giulio Costanzo
con Galla, furono sottratti al furore della soldataglia sia perché, data la
loro giovanissima età, non costituivano alcuna minaccia per l'imperatore, sia
perché furono aiutati da taluni cristiani quali Marco, vescovo di Aretusa.[39] A questo episodio si riferisce la poesia di
Kavafis “Giuliano tratto in salvo”.
{Otan mainovmenoi skovtwsan oiJ
stratiw'tai
tou;" suggenei'" tou' ajpoqanovnto" Kwnstantivnou:
kai; teleutaivw" kinduvneuen ajp’ th;n
frikth;
paraforav twn w}" kai; to; mikro; paidiv - e{xi cronw' -
tou' Kaivsaro" jIoulivou Kwnstantivou,
oiJ Cristianoi; iJerei'", oiJ eu[splacnoi,
to; brh'kan, kai; to; phvgane sto; a[sulon
th'" ejkklhsiva". jEkei' to;n dievswsan, to;n eJxaeth' jIoulianou'.
Plh;n ejpibavlletai na; pou'men o{ti
ei\nai cristianikh'" phgh'" plhroforiva.
Ma; diovlou ajpivqanon na; ei\n’ ajlhqinovn.
Tivpote to; paravdoxon iJstorikw'"
de;n parousiavzei: tou' Cristou' iJerei'"
diaswvzonte" ajqw'a Cristianovpaida.
]An ei\nai ajliqhnov - a[rage oJ
polu;" filovsofo"
Au[gousto" kai; s’ aujto;
na; ;ejxevfraze
to; «lhvqh de; e[stw tou' skovtou" ejkeivnou»;[40]
La parte principale di questa lirica è costituita dall'antinomia
esistente tra il salvataggio di Giuliano effettuato dai cristiani e
l'ingratitudine che egli dimostrò successivamente verso questi ultimi,
ingratitudine espressa, nell'ultimo verso, da una frase che il poeta attinse
alla orazione Eij" to;n basileva
{Hlion
redatta da Giuliano ad Antiochia intorno alla fine del dicembre del 362. La
frase citata testualmente da Kavafis nella poesia allude alla adolescenza
cristiana di Giuliano:
«
JAlla; tiv tau'ta ejgwv fhmi, meivzw e[cwn eijpei'n, eij fravsamai o{pw"
ejfrovnoun
to;
thnikau'ta peri; qew'n; lhvqh de; e[stw tou' skovtou" ejkeivnou.»[41]
L'episodio costituente il nucleo tematico della lirica è narrato da P.
Allard nel suo Julien l'Apostat, nel
modo seguente: «Mais cette protection n'aurait peut-être pas suffi à les
sauver: d'après le même récit, des hommes dévoués enlevèrent secrètement
Julien. Saint Grégoire cite parmi eux Marc, évêque d'Aréthuse: il résulte d'un
autre document que des prêtres chrétiens prirent part à ce sauvetage: c'est
dans une église, près d'un autel, que l'enfant fut conduit.»[42]
Kavafis, conoscendo direttamente anche la narrazione di tale avvenimento
fatta da Gregorio di Nazianzo (Or. IV
21), cercò di collegare l'episodio con la sopraccitata dichiarazione di
Giuliano circa il proprio passato quale cristiano. Il poeta, inizialmente,
credendo che entrambi i fratellastri fossero stati salvati, intitolò la lirica
in un primo tempo «Diavswsi" tou'
Gavllou kai; tou' jIoulianou» (Salvataggio
di Gallo e di Giuliano), quindi « JH
diavswsi" tw'n mikrw'n paidiwvn', tou' jjIoulivou Kwnstantivou» (Il salvataggio dei figlioletti di Giulio Costanzo). Ma dopo aver
esaminato con maggior attenzione la narrazione fatta da Allard, e resosi conto
che, conformemente alle testimonianze di quest'ultimo, soltanto Giuliano era
stato tratto in salvo grazie all'intervento di alcuni cristiani, Kavafis annotò
su una delle pagine su cui era abbozzata la poesia: « JO Allard milei' movnon
gia; to;n jIoulianovn»
(Allard parla solo di Giuliano), e mutò, quindi, il titolo della lirica in “Il
salvataggio di Giuliano”. Questo è solo uno degli innumerevoli esempi che
dimostrano fino a qual punto Kavafis anelasse a essere storicamente
irreprensibile e quanto tenesse alla cura dei particolari.[43] Fu anche i virtù di ciò che egli poté dirsi a
pieno diritto poeta-storico. Ma ritorniamo all'Apostata.
Orfano di entrambi i genitori, Giuliano fu inviato da Costanzo II a
Nicomedia per essere educato cristianamente e, soprattutto, per essere
sorvegliato dal vescovo ariano di quella città, Eusebio, il quale gli era parente
per parte di madre e che - a quanto pare - era stato tutt'altro che estraneo
all'eccidio del 337.[44] Fu
quindi da parte dei suoi più temibili
nemici che Giuliano ricevette i primi insegnamenti del cristianesimo, ed è
quindi verosimile che sia i tratti polemici del suo carattere che le cause
della sua apostasia risalgano a questo primo periodo della sua adolescenza
allorché, rimasto orfano e sentendosi completamente sottoposto all'arbitrio degli assassini della sua famiglia,
associò ben presto i nomi di Cristo e di Costanzo con in concetti di
oppressione e di cristianesimo. È inoltre degno di nota che Giuliano entrò in
contatto con tale religione in un periodo in cui essa gli si mostrava sotto
forma di inesauribili controversie tra i sostenitori dell'ortodossia e i
fautori dell'arianesimo.[45]
Come apprendiamo dal Misopogon,
fu determinante, per lo sviluppo intellettuale di Giuliano in questa prima fase
della sua formazione, uno schiavo
scita, un eunuco di nome Mardonio il quale era stato, a suo tempo, incaricato
di guidare anche Basilina nella lettura di Omero e di Esiodo.[46] Fervente amante della cultura classica, Mardonio
- verso il quale Giuliano si esprime con accenti di simpatia e di commossa
gratitudine -, abituò il giovane principe a tenere lo sguardo rivolto al suolo
nel recarsi a scuola,[47] e lo esortava
continuamente a non comportarsi come la maggior parte dei suoi coetanei i quali
si recavano ad agitarsi nei teatri, bensì a preferire le corse descritte nei
poemi omerici a quelle della realtà che avevano luogo nell'ippodromo:
«Mhv se paratieiqevtw to; plh'qo" tw'n hJlikiwtw'n
ejpi; ta; qevatra ferovmenon ojrecqh'naiv pote tauthsi; th'" qeva".
JIppodromiva" ejpiqumei'"; e[sti par JOmhvrw/ dexiwvtata pepeoihmevnh: labw;n ejpevxiqi
to; biblivon. Tou;" pantomivmou" ajkouvei" ojrchstav"; e[a caivrein
aujtouv": ajndrikwvteron para; toi'" Faivaxin ojrcei'tai ta;
meiravkia: su; de; e[cei" kiqarw/do;n to;n Fhvmion kai; w/jdo;n to;n
Dhmovdokon. [Esti kai; futa; par'aujtw/' pollw/' terpnovtera ajkou'sai tw'n oJrwmevnwn:
Dhvlw/ dhvv pote toi'on jApovllwno" para; bwmo;n
Foivniko" nevon e[rno" ajnercovmenon ejnovhsa:
kai; hJ dendrhvessa th'" Kaluyou'"
nh'so", kai; ta; th'" Kivrkh" sphvlaia kai; oJ jAlkinovou
kh'po": eu'j i[sqi, touvtwn oujde;n o[yei terpnovteron.»[48]
Morto Eusebio nel 342, Costanzo inviò
Gallo e Giuliano a continuare gli studi nella villa imperiale di Makellon, in
Cappadocia, dove essi sarebbero rimasti segregati per sei anni, costantemente
tenuti d'occhio da eunuchi e precettori cristiani che riferivano a
Costantinopoli.[49] Giuliano
medesimo narra di come lui e Gallo erano costretti a vivere «ajpokeklismevnoi panto;" me;n maqhvmato"
spoudaivou, pavsh" de; ejleuqevra" ejnteuvxew", ejn tai'"
lamprai'" oijketeivai" trefovmenoi kai; toi'" hJmw'n aujtw'n
douvloi" w{sper eJtaivroi" suggumnazovmenoi; prosh/vei ga;r
oujqei;" oujde; ejpetrevpeto tw'n hJlikwtw'n.»[50]
Giuliano, tuttavia, molto dissimile per
carattere da Gallo, trovò ugualmente il modo di dedicarsi agli studi e, incline
per natura al misticismo, acquietò le sue sollecitazioni in tale direzione nei
riti e nelle liturgie della Chiesa cristiana, fu battezzato e lesse
pubblicamente in chiesa le sacre Scritture; tutto questo lasciò inevitabilmente
profonde impronte sia nella sfera della sua vita che nelle sue opere. La
segregazione dei due fratellastri ebbe termine inopinatamente intorno al 351,
allorché Costanzo II, pressato dalle vicende politico-religiose, non avendo
eredi, richiamò Gallo a Costantinopoli e, nominatolo cesare, lo inviò ad
Antiochia affinché governasse l'Oriente. Anche Giuliano trascorse a
Costantinopoli un breve periodo durante il quale studiò presso vari retori
cristiani e pagani. Egli, però, si guadagnò assai per tempo una reputazione
tale che finì per suscitare le gelosie del sospettoso Costanzo al punto che
questi, per allontanarlo dagli ambienti politici e religiosi della capitale,
decise di trasferire nuovamente in Bitinia e nella Ionia il giovane principe le
cui simpatie per il paganesimo, intanto, avevano assunto tratti sempre più
definiti.
«Th;n
de; toiauvthn tou' jIoulianou' diavqesin uJpevqalpon, ejnnoei'tai, oiJ
poluavriqmoi eijsevti ejqnikoi; kai; ijdivw" oiJ neoplatwnikoiv, tw'n
oJpoivwn oiJ kat ejkei'no tou' crovnou korufai'oi, oJ Aijdevsio",
oJ Crusavnqio", oJ Mavximo", diatrivbonte" eij" Pevrgamon
kai; eij" [Efeson, ei\con peristoicivsei to;n nevon basilovpaida kai;
hjgwnivzonto na; prosoikeiwqw'sin aujto;n ejk panto;" trovpou.»[51]
Sia Crisantio che Massimo saranno citati
da Kavafis. Questo secondo soggiorno di Giuliano a Nicomedia coincise inoltre
con il breve periodo durante il quale il retore pagano Libanio[52] vi aveva aperto una propria scuola e, sebbene
Costanzo avesse esplicitamente proibito a Giuliano di seguirne le lezioni, il
problema fu risolto facilmente: Giuliano prezzolò un uomo affinché seguisse in
sua vece le lezioni di Libanio, prendesse appunti e glieli consegnasse segretamente.[53] Ma le frequenti conversazioni con Crisantio, le
teorie del filosofo Massimo di Efeso (uomo assai valente del resto), le
teurgie, le visite ai templi pagani, l'entusiasmo per gli antichi dei, la
glorificazione degli ideali ellenici, questo pericoloso comportamento di
Giuliano non tarda a sortire degli effetti: Gallo manifesta grande inquietudine
e anche Costanzo comincia a sospettare. Certamente coloro che fino allora
avevano dato consigli a Giuliano non erano stati molto accorti. Mardonio dice che
questa storia ha passato ogni limite e che è necessario porre immediatamente
fine a ogni clamore. Giuliano, quindi, ritorna lettore in Nicomedia, nella
basilica ariana di san Maurizio dove, a voce alta e ostentando grande
devozione, legge le sacre Scritture. E il popolo ammira la sua pietà
cristiana.
La poesia “Giuliano a Nicomedia”, di cui non conosciamo l'esatta data di
composizione e pubblicata da Kavafis nel 1924, ci riconduce precisamente agli
avvenimenti appena accennati, e il nucleo tematico della lirica è costituito
dal fatto che Giuliano, sebbene sempre più coinvolto con le dottrine
neoplatoniche, continua ipocritamente a leggere le Scritture cristiane.
[Astoca pravgmata kai;
kindunwvdh.
OiJ e[penoi gia; tw'n JEllhvnwn ta; ijdewvdh.
JH qeourgive" k' hJ
ejpiskevyei" stou;" naou;"
tw'n ejqnikw'n. OiJ ejnqousiasmoi; gia; tou;"
ajrcaivou" qeouv".
Me; to;n Crusavnqion hJ sucne;" sunomilive".
Tou' filosovfou - tou' a[llwste deinou' - Maxivmou hJ qewrive".
Kai; ; na; to; ajpotevlesma. JO Gavllo" deivcnei
ajnhsuciva
megavlhn. JO Kwnstavntio" e[cei kavpoian uJpoyiva.
\A oiJ sunbouleuvsante"
de;n h\san diovlou aunetoi.
Paravgine - levgeiv oJ Mardovnio" - hJ iJstoriva
aujthv,
kai; prevpei ejx
a{panto" na; pauvsei oJ qovrubov" th".-
JO jIouliano;" phgaivnei
pavlin ajnagnwvsth"
sth;n ejkklhsiva th'" Nikomhdiva",
o{pou megalofwvnw" kai; met eujlabeiva"
pollh'" te;" iJere;" Grafe;" diabavzei,
kai; th;n cristianikhv tou eujsevbeia oJ lao;" qaumavzei.[54]
Sebbene l'episodio centrale si trovi in Gregorio di Nazianzo (MPG, XXXV, coll. 551, 632), è tuttavia
assai verosimile che la fonte primaria di questa poesia sia costituita da
Gibbon, e che le notizie concernenti i maestri di Giuliano provengano da
Eunapio e da storici ecclesiastici quali Socrate e Sozomeno. È inoltre degno di
nota che mentre soltanto in Sozomeno (Hist.
Eccl., V, 2) Giuliano svolge il ruolo di lettore a Makellon, sia in
Gregorio di Nazianzo che in Gibbon tale ruolo viene svolto a Nicomedia. È
sicuramente questa la ragione per cui Kavafis, dopo aver esaminato varie fonti
storiche, non solo collocò Giuliano quale lettore di chiesa a Nicomedia, ma,
ritenendo che la lirica fosse storicamente fondata, decise anche che essa
poteva essere pubblicata.[55]
Vorremmo inoltre far osservare che “Giuliano a Nicomedia” possiede un
tratto peculiare che, se da un lato rimanda ad alcune poesie di cui abbiamo
avuto occasione di occuparci precedentemente, quali “La malattia di Clito”,
“Miris, Alessandria 340 d. C.” e “Rischi”, dall'altro lato rimanda a due
liriche entrambe appartenenti alla piena maturità dell'opera artistica
kavafiana: la poesia bizantina
“Manuele Comneno”, scritta nel 1905, pubblicata nel 1916, e “Tomba d'Ignazio”,
composta nel 1916, pubblicata un anno più tardi e che pare costituire l'anello
di congiunzione tra il mondo ellenistico e quello bizantino nell'universo
poetico di kavafiano.[56]
jEdw' de;n ei\mai oJ Klevwn
pou; ajkouvsqhka
sth;n jAlexavndreia (o{pou duvskola xipavzontai)
gia; ta; lamprav mou spivtia, gia; tou;" khvpou",
gia; t a[loga kai; gia; t ajmavxia mou,
gia; ta; diamantika; kai; ta; metavxia
pou; forou'sa.
[Apage: ejdw' de;n ei\mai
oJJ Klevwn ejkei'no":
ta; eijkosioktov tou crovnia na; sbhsqou'n.
Ei\m oJ jIgnavtio", ajnagnwvsth", pou; polu;
ajrga;
sunh'lqa: ajll' o{mw"
k' e[tsi devka mh'ne" e[zhsa eujtucei'"
me;" sth;n galhvnh kai; ;me;" sth;n ajsfavleia tou'
'Cristou'.[57]
Ottenuti da Gallo gli onori, almeno nominali, del proprio rango, la
restituzione di un cospicuo patrimonio e la licenza di viaggiare liberamente,
Giuliano si recò nella Ionia presso i più rinomati esponenti del neoplatonismo,
a Pergamo e a Efeso, dove si compì la solenne apostasia di Giuliano.[58] Gallo intanto, fatto uscire da una prigione e
posto su un trono, dimostrava di non possedere né la riflessione né la docilità
che sarebbero state utili a supplire alla mancanza di doti intellettuali e di
esperienze; egli non fu capace di governare, ma Giuliano fu clemente verso
la memoria del fratellastro, asserendo
che il cesare meritava di vivere pur se appariva incapace di regnare:
«kaivtoi tou' zei'n gou'n a[xio", eij mh; basileuvein ejfaivneto
ejpithvdeio"».[59]
Ma sobillato a taluni cortigiani,
specialmente dall'eunuco Eusebio, il sospettoso Costanzo, intorno alla fine del
354, convocò Gallo presso di sé nella residenza imperiale di Milano, lo spogliò
delle insegne di cesare e, inviatolo a Pola, in Istria, lo fece decapitare.[60]
Consumata la tragedia di Gallo, anche
Giuliano ricevette l'ordine di recarsi presso l'imperial cugino.[61] Prima di raggiungere Milano, tuttavia, il
giovane principe, passando per la Troade di ritorno da Efeso dove egli ormai
convertitosi al paganesimo, era stato iniziato alle segrete dottrine del
neoplatonismo, all'arte della divinazione e alle teurgie per entrare in
contatto con gli dei, colse l'occasione per intraprendere un vero e proprio
pellegrinaggio ai santuari della antica Ilio. Tale pellegrinaggio coincise con
uno dei periodi più significativi della vita di Giuliano, un periodo nel quale
egli dovette avere la netta sensazione di aver iniziato una esistenza
radicalmente rinnovata, e durante il quale egli intravide, verosimilmente per
la prima volta, una qualche possibilità di restaurazione pagana. Giuliano
stesso, anni più tardi, ormai imperatore, narrò le vicende di quel
pellegrinaggio in una delle sue epistole più vive e suggestive.
Essendo, dunque, stato convocato a corte
da Costanzo, Giuliano, mentre era in cammino attraverso la Troade, giunse a
Ilio sul finire della mattinata, quando l'agorà si riempiva di gente; e là, gli
si fece incontro il vescovo Pegasio il quale, saputo che il principe desiderava
visitare la città, gli si offrì quale guida. Trovate delle are ancora
illuminate, pressoché sfavillanti, con evidenti tracce di culto recente, chiese
a quest'ultimo simulando stupore, se mai era possibile che gli abitanti di Ilio
offrissero ancora sacrifici a dei ed eroi. Il vescovo, ambiguamente, replicò
che non vi era alcunché di strano nel fatto che i cittadini di Ilio
tributassero un culto a un loro cittadino dabbene - nella fattispecie Ettore -,
così come non vi era alcunché di strano nel fatto che loro due tributassero un
culto ai martiri cristiani. Tale paragone non poteva certo parer giusto al
neoplatonico Giuliano il quale, tuttavia, considerando la temperie
politico-religiosa del momento, vi colse una sottile allusione. Quindi
Giuliano:
«“Badivswmen” e[fh ejpi; to; th'"
jIliavdo" jAqhna'" tevmeno"". JO
de; ;kai; mavla proquvmw" ajphvgahev me kai; ajnevw/xe to;n newvn, kai;
w{sper marturovmeno" ejpevdeixev moi pavnta ajkribw'" sw'a ta;
ajgavlmata...».[62]
Benché l'epistola di Giuliano nella quale è descritto il suo incontro
con il vescovo Pegasio fosse nota a Kavafis, questi trovò più congeniali, quale motivo ispiratore, le considerazioni
fatte su tale episodio da P. Allard in Julien
l'Apostat, pubblicata a Parigi nel 1900: «On peut, sans un trop grand
effort d'imagination se figurer l'état des deux personnages que le hasard avit
ainsi mis en présence. Julien, aux allures de l'évêque, a surpris ses pensées
secrètes: il attache sur lui un regard pénétrant et lui pose des questions
captieuses. Pégase connaissait sans doute par la renommé les vrais sentiments
de Julien (...).»[63] La vicenda, dominata sia dall'ambiguità dei
sentimenti religiosi che dal comportamento ipocrita dei due protagonisti, era
estremamente appropriata a suscitare l'interesse di Kavafis. Questi, però,
mettendo in evidenza gli elementi di ambiguità e di circospezione adottati
dall'uomo e dal ragazzo, elementi dei quali essi erano entrambi coscienti e
quindi pressoché complici, conferì alla poesia che compose nel 1920 una
palpabile atmosfera di pedofilia.[64] Kavafis, tuttavia, dieci
anni dopo aver composto la lirica, volle verificarne l'autenticità storica
dell'episodio verificandolo nella versione che ne dava J. Bidez nella sua Vie de l'Empereur Julien, pubblicata per
i tipi de Les Belles Lettres nel
1930,[65] rimanendo in tal modo fedele sia al suo voler
essere poeta-storico, sia alle fonti storico-letterarie da cui aveva tratto
ispirazione. Secondo Bowersock, questa è la più memorabile delle cinque poesie
incomplete ricostruite da Renata Lavagnini.[66]
O EPISKOPOS PHGASIOS
Eijsh'lqan sto;n perikallh' nao; th'" jAqhna'"
oJ Cristiano;" ejpivskopo" Phgavsio"
oJ JCristiano;" hJgemonivsko" jIoulianov".
jEkuvttazan me; povqon kai;
storgh;n t'
ajgavlmata -
o{mw" sunomilouvsane distaktikw'",
me; uJpainigmouv", me; ;lovgia diforouvmena,
me; fravsei" plhvrei" profulavxew",
giati; de;n h\san bevbaioi oJ e{na" gia; ;to;n a[llon
kai; sunepw'" fobou'ntan na; mh; ejkteqou'n,
oJ yeuvth" Cristiano;" ejpivskopo" Phgavsio"
oJ yeuvth" Cristiano;" hJgemonivsko" jIoulianov".[67]
Giunto finalmente a Milano, Giuliano fu
costretto ad attendere sette mesi prima che Costanzo, sobillato da eunuchi e
cortigiani e sempre più sospettoso, gli concedesse udienza. Durante quella
lunga attesa. Giuliano languì nel terrore di subire la stessa sorte del
fratellastro Gallo e, se non fosse stato per l'intercessione della bella e
virtuosa imperatrice Eusebia, egli non si sarebbe salvato:[68]
«ejmev
de; ajfh'ke movgi" eJpta; mhnw'n o{lwn eJlkuvsa" th'/de kajkei'se
kai; poihsavmeno" ejmfrouvrion, w{ste, eij mh; qew'n ti"
ejqelhvsa" me swqh'nai th;n kalh;n kai; ajgaqh;n to; thnikau'tav moi
parevscen eujmenh', th;n touvton gamethvn, Eujsebivan, oujd' a]n ejgw;
ta;" cei'ra" aujtou' tovte dievfugon.»[69]
Allorché l'imperatore acconsentì a ricevere il cugino, la benevola
mediazione di Eusebia prevalse sui tentativi dei nemici di Giuliano i quali
intendevano farlo apparire come un potenziale vendicatore di Gallo, e si
concluse di inviare Giuliano in onorevole esilio ad Atene, città, allora, priva
di qualsiasi importanza politica, e dove egli giunse intorno al mese di maggio
del 355. Qui tutto contribuì a corroborare la entusiastica adesione del giovane
principe al paganesimo: lo splendore degli antichi monumenti, le lezioni dei
più abili retori pagani, i Misteri eleusini le cui cerimonie incutevano ancora
rispetto. Lontano dalla opprimente atmosfera della corte, Giuliano trascorse
sei mesi tra i boschetti dell'Accademia, ascoltando con fervore i retori e i
filosofi più noti del suo tempo. Egli nascondeva ancora la sua adesione al
paganesimo, ma fu verosimilmente durante questo soggiorno ateniese che assunse
forma sempre più netta nella sua mente ala visione di restaurare, al momento
opportuno, la religione antica. Il fato volle che Giuliano, ad Atene, avesse
per condiscepoli due giovani destinati a divenire non solo i pilastri del
cristianesimo, ma anche due dei più grandi santi della cristianità: Gregorio di
Nazianzo e Basilio il Grande.[70] Ma essi, a differenza di
Giuliano, si erano recati in Attica per attingere dalla filosofia e dalla
facondia antiche tutti quegli elementi che sarebbero loro serviti per difendere
e arricchire la nuova fede, non per combatterla. E intanto che si trovava ad
Atene, Giuliano ebbe cura di recarsi anche presso i più venerati luoghi di
culto dell'Attica. Nel capitolo XXXIII del Decline
and Fall, Gibbon, parafrasando un passo di Gregorio di Nazianzo,[71] afferma che Giuliano fu solennemente iniziato ai
Misteri, ma fu Gibbon a stabilire arbitrariamente che l'iniziazione del giovane
principe ebbe luogo a Eleusi:
«La sua permanenza ad Atene confermò questa
innaturale alleanza di filosofia e di superstizione. Egli ottenne il privilegio
di essere iniziato solennemente nei misteri eleusini, che nella generale
decadenza della religione greca conservavano ancora qualche traccia della loro
antica santità (...). Siccome queste cerimonie si svolgevano nella profondità
delle caverne e nel silenzio della notte, e il riserbo degli iniziati manteneva
il segreto inviolabile dei misteri, io non presumo di descrivere le orribili
voci o le spaventose apparizioni che furono presentate ai sensi o
all'immaginazione del credulo aspirante finché non comparvero visioni
consolatrici e rivelatrici in un alone celeste. Nelle caverne di Efeso e di
Eleusi la mente di Giuliano fu penetrata da un sincero, profondo e inalterabile
entusiasmo, benché talvolta mostri quelle alternative di pia frode e d'ipocrisia
che si possono serbare o almeno sospettare nel carattere dei più coscienziosi
fanatici. 24
--------------------------------
(24) Quando Giuliano, in un momentaneo
panico, si fece il segno della croce, i demoni immediatamente scomparvero
(GREGORIO NAZIANZENO, Orat. III).
Gregorio suppone che si fossero spaventati, ma i preti dichiararono che erano
indignati. Il lettore potrà decidere questa profonda questione secondo il grado
della sua fede.»[72]
Risale al novembre 1896,
anno in cui Kavafis cominciò a studiare sistematicamente Gibbon, una lirica inedita che il poeta alessandrino
intitolò inizialmente “Giuliano a Eleusi” e che registrò nel capitolo tematico
“Gli inizi del cristianesimo”. Ma Kavafis, dopo aver letto in
Allard il brano in cui lo studioso francese metteva in dubbio la supposta
iniziazione misterica di Giuliano a Eleusi, [73] mutò il titolo iniziale della lirica in quello
più generico di “Giuliano ai Misteri”.
O IOULIANOS EN TOIS MUSTHRIOIS
Plh;n sa;n eujrevqhke mevsa sto; skovto",
mevsa sth'" gh'" ta; fobera; ta; bavqh,
suntrofeumevno" m' [Ellhna"
ajqevou",
k'
ei\de me; dovxai" kai;
megavla fw'ta
na; bgaivnoun a[ulai" morfai;" ejmprov" tou,
fobhvqhke gia; mia; stigmh;n oJ nevo",
k'e{na
e[nstikto tw'n eujsebw'n tou crovnwn
ejpevstreye, k' e[kame
to;n staurov tou.
[Amevsw" h/J Morfai;"
ajfanisqhvkan:
h/J dovxai" cavqhkan - sbuvsan ta; ;fw'ta.
OiJ {Ellhne" ejkrufokuttacqh'kan.
Ki'
oJ nevo" ei\pen: «Ei[date to;
qau'ma;
jAgaphtoiv mou suvntrofoi,
fobou'mai.
Fobou'mai, fivloi mou, qevlw na; fuvgw.
De;n blevpete pw'" cavqhkan ajmevsw"
oiJ daivmone" sa;n m' ei[dane
na; kavnw
to; sch'ma tou' 'staurou' to; ;aJgiasmevno;»
OiJ {Ellhne" ejkavgcasan megavla:
«Ntrophv, ntroph; na; le;" aujta; ta; ;lovgia
se; ;ma'" tou;" sofista;" kai; filosovfou".
Tevtoia sa;n qe;" eij" to;n Nikomhdeiva"
kai; stou;" pappavde" tou mporei'" na; lev".
Th'" e[ndoxh" JEllavdo" ma" ejmprov" sou
oiJ megaleivteroi qeoi;
fanh'kan.
Ki'
a]n fuvgane na; mh;
nomivzh/" diovlou
pou; fobhqh'kan mia; ceironomiva.
Monavca sa;n se; ei[dane na; kavnh/"
to; potapovtaton, ajgroi'kon sch'ma
sucavqhken hJ eujgenhv" twn fuvsi"
kai; fuvgane kai; se; perifronh'san».
[Etsi to;n ei[pane ki' ajpo; to;n fovbo
to;n iJero;n kai; to;n eujloghmevnon
sunh'lqen oJ ajnovhto", k' ejpeivsqh
me; tw'n JEllhvnwn t' a[qea ta; lovgia.[74]
Il palese sentimento di ostilità che pervade questa poesia non è rivolto
solo alla superstiziosa codardia di Giuliano, al suo perdersi d'animo dinanzi a
fenomeni dalla natura misteriosa, terrificante e affascinante a un tempo
propria del sacro, ma anche alla equivocità insita nell'attaccamento più o meno
consapevole al cristianesimo in cui era stato allevato. Sebbene la maggior
parte degli elementi tematici costituenti la lirica provengano principalmente
da Gibbon, altri provengono in parte da Gregorio di Nazianzo e in parte da
Sozomeno.[75] Il già citato articolo I poeti bizantini non è l'unico testo in prosa in cui il poeta
alessandrino manifestò la sua ammirazione per il Nazianzeno; infatti, tra le
note di lettura apposte al Decline and
Fall, ve n'è una in cui Kavafis esterna grande ammirazione per Gregorio. A
proposito del noto editto promulgato da Giuliano al fine di proibire ai
cristiani di insegnare la grammatica e la retorica, Gibbon afferma che
l'imperatore apostata abusò dell'ambiguità semantica di un termine che si
adattava in maniera indifferente tanto alla lingua quanto alla religione degli elleni fino al punto di decretare
sprezzantemente che coloro che rifiutavano gli dei di Omero, di Esiodo e di
Demostene dovevano accontentarsi di spiegare Luca e Matteo nelle scuole dei
galilei; lo storico inglese invita, inoltre, a confrontare l'imperiale editto
con le “loose invectives” di Gregorio e termina asserendo che se ai cristiani
fu direttamente proibito di insegnare, indirettamente fu loro proibito di
apprendere dal momento che essi non avrebbero più potuto frequentare le scuole
dei pagani.[76]
Attingendo a un passo
della Storia della nazione greca in
cui Paparrigòpulos citava a sua volta il Nazianzeno,[77] Kavafis replicò:
«Some of these “loose invectives” are very
noble and lofty - “Pollw'n ga;r kai;
deinw'n o[ntwn ejf oi'J" ejkeivno" misei'sqai divkaio",
oujk e[stin o{ti ma'llon h] tou'to” - the edict - “paranomhvsa" faivnetai”.
And also,
“Ta;
me;n a[lla parh'ka toi'" boulomevnoi" plou'ton, eujgevneian,
eu[kleian, dunasteivan, a} th'" kavtw perifora'" esti, kai;
ojneirwvdou" tevryew". Tou' lovgou perievxomai movnou.”
No artist - the word is not misplaced here - had spoken so boldly before
- “a} th'" kavtw perifora'"
esti.”- C.»[78]
Tra tutti i decreti emanati da Giuliano,
quello sui maestri era l'unico che potesse infliggere una ferita veramente
mortale al cristianesimo e, di conseguenza, nessun decreto, più di questo,
suscitò tanta indignazione tra i cristiani. Una riforma così settaria
dell'insegnamento pubblico, tuttavia, non aveva alcuna possibilità di successo
e se lo stesso Ammiano Marcellino - pagano e amico di Giuliano -, la definì una
misura tirannica che meritava di venir sepolta in un eterno silenzio,[79] era naturale che un
uomo cristiano e dall'animo sensibile come il Nazianzeno, fremesse di collera e
le sue invettive contribuirono più di ogni altra cosa a conferire a Giuliano la
reputazione del malevolo riformatore. Gregorio, che fu la figura
rappresentativa più importante delle aspirazioni culturali dei cristiani del
suo tempo e che meglio di chiunque altro portò a compimento, e nella maniera
più completa, la fusione della cultura classica con la fede cristiana, contestò
a Giuliano e a coloro che, come lui, propugnavano l'antica mitologia, il
diritto di riservarsi il monopolio dell'ellenismo. Meritano di esser citate,
quale chiara illustrazione della posizione di Gregorio nei confronti di
Giuliano, poche, ma esplicite, parole di H. G. Beck, con le quali Kavafis non
potrebbe esser stato che d'accordo: «Gregorio rimproverava indignato a Giuliano
di menare un turpe gioco con le parole
{Ellhn ed JEllhnivzein. {Ellhn, l'Elleno, in base alla
sua origine non designa una disposizione religiosa, ma indica il rappresentante
di una lingua. Allo stesso modo
JEllhnivzein
non significa “esser pagano”, bensì “parlar greco”. Rendendosi colpevole di
questo doppio senso, Giuliano tenta di sbarrare ai Cristiani non soltanto
l'accesso alla letteratura pagana, ma anche nel contempo l'accesso alla propria
lingua.»[80]
E precisamente quel
grande fenomeno storico-culturale noto con il nome di ellenismo che - prendendo
le mosse dalla tradizione omerica è giunto fino a noi attraverso le età
classica, ellenistica e bizantina e che, a dispetto dei molteplici mutamenti
causati dal trascorrer dei secoli, possiede indiscutibili elementi di grande
continuità, dovuta soprattutto alla Koinh;
JEJllhnikh; Laliav, alla «Comune Lingua Greca», per usare una
espressione kavafiana -, fu la principale fonte che ispirò al Poeta
alessandrino la parte più significativa della sua inconfondibile opera
artistica.
Intanto le continue invasioni dei barbari in Gallia e la rinnovata
minaccia persiana che rendeva indispensabile la presenza dell'imperatore in
Oriente, riportarono alla ribalta la irrisolta questione della successione.
Eusebia convinse Costanzo che la persona più adatta era Giuliano: un giovane
apparentemente mite e privo di ambizioni, egli avrebbe potuto occupare una
carica subalterna senza mettere in discussione gli ordini dell'augusto. Così,
nel settembre 355 Giuliano fu strappato al suo amato ritiro ateniese a
richiamato a Milano. Egli fece il suo ingresso a corte atterrito né Eusebia
riuscì a vincere i suoi timori con la propria tenerezza. Per di più, come narra
Giuliano stesso, gli fu rasa la barba e gli fu fatta indossare una clamide
cosicché, goffo e impacciato, divenne per alcuni giorni il ludibrio dei fatui
cortigiani:[81]
«
jArnoumevnou gavr mou th;n sunousivan sterew'" ejn toi'"
basileivoi", oiJ me;n w{sper ejn koureivw/ sunelqovnte" ajpokeivrousi
to;n pwvgwna, clanivda de; ajmfiennuvousi kai; schmativzousin, wJ" tovte
uJpelavmbanon, pavnu geloi'on stratiwvthn. Oujde;n gavr moi tou' kallwpismou'
tw'n kaqarmavtwn h{rmozen: ejbavdizon de; oujc w{sper ejkei'no
periblevponte" kai; sobou'nte", ajll'eij" gh'n blevpwn, w{sper eijqivsmhn uJpo; tou'
qrevyantov" me paidagwgou'.»[82]
Nel mese di novembre
355, Giuliano veniva nominato cesare e, poco dopo, sposava la ormai non molto
più giovane sorella di Costanzo, la quale mise al mondo un figlio che subito
morì ma che, secondo testimoni attendibili, quali Ammiano Marcellino, «obstetrix
corrupta mercede, mox natum praesecto plusquam umbilicum necavit».[83] Proibitogli di condurre con sé i suoi
fedeli servitori, Giuliano partì per la Gallia senza alcun ordine specifico sul
da farsi, con un seguito di schiavi e di coadiutori il cui incarico era di
sorvegliarlo piuttosto che di servirlo, e con una preziosa collezione di libri
- opere di buoni filosofi e storici, di oratori e di poeti -, donatagli da
Eusebia.[84] Durante l'inverno del
356, mentre Giuliano entrava in Vienne, città a sud di Lione, tra la
moltitudine di coloro che osservavano l'ingresso del cesare nella città, vi era
una vecchia donna cieca - ignoriamo se pagana o cristiana -, la quale, appreso
chi fosse il personaggio, profetizzò che Giuliano era designato a divenire il restauratore dei templi degli
dei. Il vaticinio si avverò; non sapremo mai, però, se nella voce della vecchia
cieca di Vienne vi fosse un tono di
gioia oppure di dolore. Questo episodio, nella narrazione di Ammiano Marcellino,
attrasse l'attenzione di Kavafis: «tunc anus quaedam orba luminibus cum
percotando quinam esset ingressus, Iulianum Caesarem comperisset, exclamavit
hunc deorum templa reparaturum».[85]
Ispirandosi a questo brano, nel marzo 1926 Kavafis compose una lirica
che erroneamente intitolò “Hunc deorum templis”. Più tardi il poeta, che
verosimilmente nel 1926 aveva citato il brano di Ammiano Marcellino a memoria,
verificò scrupolosamente la fonte e resosi conto dell'errore commesso, corresse
il titolo da “Hunc deorum templis” a “Hunc deorum templa”. Tale rigore
scientifico nel verificare l'esattezza del titolo di una poesia consultando le
fonti storico-letterarie, costituì sempre uno dei tratti caratteristici più
singolari del poeta-storico Kavafis al lavoro.[86] Tra tutti gli episodi
che costellano gli anni trascorsi da Giuliano in Gallia, quello della vecchia
cieca di Vienne fu l'unico che suscitò l'interesse di Kavafis. Questi, cantore
della sconfitta, ignorò totalmente i successi conseguiti da Giuliano in campo
amministrativo e militare, preferendo trarre ispirazione altrove.
HUNC DEORUM TEMPLA
Gerovntissa tuflhv, h[soun krufh; ejqnikhv;
h] h[soun cristianhv; To;n lovgon sou
pou; bgh'ke ajliqhno;" - pou; aujto;" pou; eijshvrceto
ejpeufhmouvmeno" sth;n Bievnnh, oJ e[ndoxo"
Kai'sar jIoulianov", h\tan prowrismevno"
na; uJphrethvsei ta; temevnh tw'n (yeutw'n) qew'n -
to;n lovgon sou pou; bgh'ke ajlhqinov",
gerovntissa tuflhv, to;n ei\pe" me; ojduvnhn
wJ" qevlw to; na; uJpoqevtw, h], fauvlh! me; caravn;[87]
Nel frattempo, però, il
mite filosofo Giuliano che, come è già stato osservato, era stato nominato
cesare più per esser comandato che per comandare, prese a dare incontestabili
prove di inopinate virtù militari come nella vittoriosa campagna contro gli alamanni
presso Argentoratum - l'attuale Strasburgo -, campagna tanto gloriosa per
Giuliano e di cui egli stesso ci parla,[88] quanto ignorata da
Kavafis. Ingelosito a causa dei successi del cugino, Costanzo decise di
trasferire in Oriente, contrariamente agli accordi stipulati al momento
dell'arruolamento, le legioni stanziate in Gallia le quali, nel frattempo,
avevano preso ad amare e stimate Giuliano. Finché una notte della primavera del
360, a Lutetia Parisiorum, la Parigi di oggi, i soldati insorsero contro
Costanzo e il mattino seguente, per la prima volta nella storia, in quel pronunciamiento un imperatore romano fu
alzato sugli scudi conformemente all'uso germanico e, in mancanza del
diadema, il novello augusto venne
incoronato con una austera collana militare recepita all'uopo.[89] Kavafis, che si sarebbe
commosso dalla parca incoronazione di Giovanni VI Cantacuzeno, traendo spunto
per una delle sue più belle liriche
bizantine, ignorò completamente quella di Giuliano.
Se Costanzo avesse accettato di venire a patti ragionevolmente, Giuliano
si sarebbe verosimilmente accontentato del possesso delle province galliche; ma
i negoziati si protrassero tra alterne vicende per vari mesi finché, radunate
le sue legioni nei pressi di Basilea, Giuliano le divise in tre armate che,
percorrendo vie diverse, avrebbero dovuto riunirsi in una unica armata nella
penisola balcanica. Due corpi, composti ciascuno da alcune migliaia di uomini,
si misero in marcia rispettivamente il primo sotto il comando del generale
Nevitta attraverso il Norico e la Rezia, mentre il secondo, sotto il comando di
Giovio e di Giovino, percorrendo un tragitto lungo le Alpi. Giuliano riservò
per sé il tragitto più difficile: raggiunto il Danubio attraverso monti e
foreste con il suo contingente, navigò il fiume fino a Sirmio dove la
popolazione lo accolse con entusiasmo. Giunto a Naisso, la odierna Niš, inviò
alle più importanti città dell'Impero delle epistole contenenti una apologia
assai accurata delle proprie azioni, come quella indirizzata al senato e al
popolo di Atene.[90] Ma la notizia della inopinata morte di
Costanzo, avvenuta il 3 novembre 361, raggiungeva intanto Giuliano al quale
veniva consegnato in tal modo tutto l'Impero, senza che una sola goccia di
sangue fosse versata. Entrato in Costantinopoli l'11 dicembre 361, Giuliano
partecipò alle esequie del cugino seguendo il corteo funebre a piedi, vestito a
lutto e senza corona, fino alla chiesa dei Santi Apostoli.[91] È degno di nota che
nessuno di questi episodi, per quanto ricchi di pathos e di episodi suggestivi,
ispirarono la musa di Kavafis, neppure
l'episodio
dei funerali di Costanzo, episodio avvenuto, a differenza degli altri, in un
ambiente incontestabilmente greco e carico di tensione emotiva.
Giuliano diede immediatamente il via a una serie di riforme atte a
modificare vari settori della vita dell'Impero: dalla corte alle finanze
pubbliche, all'amministrazione della giustizia, alla difesa delle frontiere. Ma
ciò che più di ogni altra cosa caratterizzò in maniera peculiare il breve regno
di Giuliano fu costituito dalla sua politica religiosa.[92] E questo fu anche
l'elemento che attrasse maggiormente Kavafis.
Lo ierofante di Eleusi, insieme ai vecchi maestri dell'imperatore,
Crisantio e Massimo, ricevettero l'incarico di attendere agli affari religiosi
in Grecia; Oribasio, medico e amico di Giuliano, fu inviato a Delfi affinché
restaurasse l'oracolo di Apollo. Ma la irreversibile decadenza di quel
santuario, già tanto ricco e glorioso, venne illustrata in maniera assai
esplicita nel vaticinio consegnato all'inviato dell'imperatore, e il cui testo
ci è pervenuto grazie a Gregorio Cedreno, uno storico bizantino del XII secolo:
Ei[pate tw'/
basilei', camai; pevse daivdalo" aujlav.
Oujkevti Foi'bo"
e[cei kaluvban, ouj mavntida davfnhn,
Ouj paga;n lalevousan.
jApevsbeto kai; lavlon u{dwr.[93]
Karolidis, il curatore
della Storia di Paparrigòpulos, ci
informa che l'autenticità di tale vaticinio è stata respinta dagli studiosi
moderni i quali vedono in esso una invenzione
cristiana risalente ai secoli posteriori a Giuliano.[94] Vero o falso che sia, il
testo del responso costituisce una testimonianza assai paradigmatica di quella
che doveva essere la condizione di Delfi nella seconda metà del IV secolo, e a
quest'epoca si riferisce la poesia di Kavafis intitolata “Giuliano, constatando
negligenza”.
Ma la potenza di Giuliano non si dimostrò sufficiente a portare a
compimento l'impresa della restaurazione di una religione che, oltre a non
possedere elementi ideologici e precetti morali, era ormai già avviata verso
una rapida decadenza che nessuna riforma avrebbe potuto arrestare. Dagli
scritti di Giuliano, specialmente da quelle che Gibbon definì, con una
espressione assai felice, vere e proprie lettere pastorali,[95] appare chiaro che
l'Apostata invidiava l'organizzazione ecclesiastica cristiana che egli
conosceva così intimamente e che si proponeva di sottrarre ai galilei le benemerenze da essi acquisite
tramite opere di carità ed enti filantropici. Le Epistole 84, 88, 89a, così come l'esteso frammento 89b al quale
mancano l'inizio e la fine, costituiscono saggi assai interessanti di quali
fossero i propositi di Giuliano in materia politica e religiosa. Lo spirito di
emulazione lo spinse ad accogliere quelle istituzioni cristiane che, per il
loro buon funzionamento e per il credito di cui godevano, costituivano la
chiave di volta della Chiesa cristiana.
Intorno al solstizio d'estate dell'anno 362 Giuliano, lasciata
Costantinopoli, intraprese un lungo viaggio alla volta di Antiochia al fine di
preparare la guerra contro i persiani. Egli passò per Calcedonia, per Libyssa -
nei cui pressi si mostrava la tomba di Annibale-, quindi per Nicomedia.
Superata Nicea, si recò in pellegrinaggio all'antico tempio di Cibele, la
Grande Madre degli dei, a Passinunte e, raggiunta quindi Ancira, In Galazia,
attraversò gli altipiani cappadoci.[96] Ovunque si trovasse,
Giuliano cercava anche negli altri il fervore che egli nutriva verso gli dei.
Tuttavia, in mezzo alle moltitudini che lo acclamavano egli, forse, cominciava già a sentire che l'irresistibile
impeto religioso che lo animava, faceva di lui una persona estremamente sola e,
per di più, tale zelo che appariva stravagante agli stessi pagani, lo portava a
compiere eccessi che difficilmente potevano essere emulati. La maggior parte
dei pagani, infatti, continuavano a vivere secondo i prediletti costumi aviti e
non apprezzavano affatto l'irruzione di tanto ascetismo nel loro piacevole modus vivendi.
Risale all'incirca al mese di gennaio del 362 una epistola inviata
dall'imperatore all'amico Teodoro, gran sacerdote dei galati, e concernente le
radicali riforme che Giuliano si studiava di introdurre nella vita e nei
costumi del clero pagano. Quale pontifex maximus, l'imperatore conferiva
a Teodoro l'autorità di sorvegliare tutti i culti e tutti i sacerdoti della
provincia d'Asia, lamentandosi sovente della mancanza di fervore del proprio
partito.
« JOrw'n ou\n pollh;n me;n ojligwrivan ou\san hJmi'n
pro;" tou;" qeouv", a[pasan de; aujlavbeian th;n eij"
tou;" kreivttona" ajpelhlamevnhn uJpo; th'" ajkaqavrtou kai;
trufh'", ajei; me;n ou\n wjduravmhn ejgw; kat' ejmauto;n ta; toiau'ta, tou;"
men.....wn.....eiva" scolh/' prosevconta" ou{tw diapuvrou"
wJ" aiJrei'sqai me;n uJpe;r aujth'" qavnaton, ajnevcesqai de; pa'san
e[ndeian kai; limovn, uJeivwn o{pw" mh; geuvsainto nhde; krevw" tou
mh; paracrh'ma ajpoqlibevnto", hJma'" de; ou{to rJa/quvmw"
ta; pro;" tou;" qeou;" diakeimevnou", w{ste
ejpilelh'sqai me;n tw'n patrivwn, ajgnoei'n de; loipo;n eij kai; ejtavcqh
pwvpotev ti toioi'ton.»[97]
O IOULIANOS, ORWN OLIGWRIAN
« JOrw'n ou\n pollh;n me;n ojligorivan ou\san
hJmi'n pro;" tou;" qeou;"» - levgei me; u{fo" sobarovn.
jOligwrivan. Ma; tiv
perivmene loipovn;
{Oso h[qelen a]" e[kamnen
ojrgavnwsi qrhskeutikhv,
o{so h[qelen a]" e[grafe sto;n ajrciereva Galativa",
h] eij" a[llou" toiouvtou", parotruvnwn ki oJdhgw'n.
OiJ fivloi tou de;n h\san Cristianoiv:
aujto; h\tan qetikovn. Ma; de;n mporou'san kiovla"
na; paivzoun sa;n ki aujtovna (to;n Criastianomaqhmevno)
me; suvsthma kainouvria" ejkklhsiva",
ajstei'on kai; sth;n sullhyi kai; sth;n ejfarmoghv.
{Ellhne" h\san
ejpi; tevlou". Mhde;n a[gan, Aujgouste.[98]
Risale press'a poco a
questo medesimo periodo un diverbio avvenuto fra Giuliano e alcuni vescovi
cristiani, verosimilmente i sue Apollinari di Laodicea,[99] diverbio tramandatoci
da Sozomeno.[100] Per mettere in ridicolo la letteratura
cristiana, Giuliano scrisse ai vescovi più noti del suo tempo asserendo di aver
letto le loro opere, di averle capite e di averle anche condannate.[101] È degno di nota osservare che i vescovi,
nella loro lapidaria risposta all'imperatore, usarono anch'essi verbi derivati
di gignwvskw, ispirandosi inoltre,
almeno in parte, a reminiscenze scritturarie.[102] Si riferisce a tale episodio della vita di
Giuliano la poesia «Oujk e[gnw"» (“Inteso, no”), di cui
non conosciamo la data di composizione e che Kavafis pubblicò nel 1928.
Gia; ;te;" qrhskeutikev" ma" doxasive" -
oJ kou'fo" jIouliano;" ei\pen « jAnevgnwn, e[gnwn,
katevgnwn». Tavcate" ma'" ejkmhdevnise
me; to; «katevgnwn» tou, oJ geloiwdevstato".
Tevtoie" xupnavde" o{mw" pevrasi de;n e[coune s' ejma'"
tou;" Cristianouv". « jAnevgnw", ajll'oujk e[gnw": eij ga;r e[gnw",
oujk a]n katevgnw"» ajpavnthsen ajmevsw".[103]
Dietro l'intraducibile gioco verbale costituente l'epigrammatica
risposta dei cristiani a Giuliano riecheggia palesemente la voce stessa del
Poeta, e le parole, specialmente gli aggettivi, che questi pone sulle labbra
dei vescovi per qualificare l'Apostata, non lasciano alcun dubbio sui
sentimenti nutriti da Kavafis per Giuliano. L'incontro-scontro fra l'effimero
restauratore del paganesimo e i cristiani educati nella tradizione classica,
riflette in maniera assai paradigmatica l'affascinante e assai difficile
questione riguardante gli intricati rapporti fra cristianesimo e cultura
ellenica nel periodo più critico del divenire della fusione della cultura
classica con la fede cristiana, questione che suscitò in Kavafis un interesse
che lo avrebbe accompagnato per tutta la vita.
Durante il suo soggiorno in Antiochia, Giuliano non si occupò solo degli
affari concernenti l'amministrazione civile e i preparativi militari, ma volle
anche portare avanti i suoi piani per la restaurazione dell'antica religione in
mezzo a un popolo maldisposto sia verso la sua persona che verso il suo
paganesimo ascetico, e fu precisamente in questa città che i rapporti fra
l'imperatore e gli antiocheni subirono un irreversibile processo di
esacerbazione. Gibbon, di cui Kavafis - come abbiamo già osservato -, fu un
attentissimo lettore, descrisse in maniera assai suggestiva il temperamento
degli antiocheni: secondo lo storico inglese, se da un lato il calore del clima
li rendeva inclini ai godimenti più sfrenati, dall'altro si fondeva in essi la mollezza dei siri con la libertà dei greci;
inoltre per gli antiocheni la moda era la sola legge, il piacere l'unico scopo
e lo splendore delle vesti e degli arredi il loro unico tratto caratteristico;
le rappresentazioni nei teatri e nell'ippodromo costituivano la loro più
ardente passione ed essi consideravano la magnificenza di tali spettacoli, la
gloria più sublime e la felicità
assoluta di Antiochia. L'imperatore filosofo, che con il suo
ascetico modus vivendi disprezzava la
gloria in genere e soprattutto quel tipo di felicità, non tardò a urtare la
suscettibilità dei suoi sudditi i quali non erano né in grado di emulare né
tanto meno di amare la severa e sovente ostentata semplicità dell'augusto. La
gran maggioranza degli antiocheni, sebbene tenacemente attaccati alla parola
«cristiano», concepita per la prima volta dai loro antenati,[104] e pur rimanendo scrupolosamente attaccati alle
dottrine speculative cristiane, non esitavano a trasgredirne, all'evenienza, i
precetti morali. Deriso dagli antiocheni a motivo della sua austerità di vita,
oltre che per la sua incolta barba da filosofo, Giuliano reagì scrivendo il Misopogon, una pungente satira contro
l'effeminatezza e la libertà di costumi degli abitanti di Antiochia i quali
professavano ingegnosamente la loro predilezione per il C e per il K - lettere greche
iniziali rispettivamente di Cristo e di Costanzo -, vale a dire per il
cristianesimo, some scrisse lo stesso Giuliano:[105]
«To;
Ci', fasivn, oujde;n hjdivkhse th;n povlin oujde; to; Kavppa... Tucovnte" de; hJmei'" ejxhghtw'n....
ejdidavcqhmen ajrca;" ojnomavtwn ei\nai ta; gravmmata, dhlou'n de;
ejqevlein to; me;n Cristovn, to; de; Kwnstavntion.»[106]
Nonostante questo brano dal Misopogon
citato in exergo da Kavafis nella
sua poesia “Giuliano e gli antiocheni” ne costituisca la fonte primaria, e
sebbene vi sia la possibilità che il Poeta abbia attinto direttamente a
Giovanni Crisostomo, Libanio, Ammiano Marcellino e Sozomeno,[107] sappiamo che fu Gibbon il motivo
ispiratore di questa poesia di cui non conosciamo l'esatta data di composizione
e che fu pubblicata soltanto nel novembre 1926. Nel 1918 la rivista letteraria
alessandrina Grammata pubblicò una
recensione di Kavafis al libro jEkklhsiva
kai; Qevatron (Chiesa e teatro) di Gregorio Papamichaìl,[108] recensione in cui il Poeta - riferendosi a
quella parte del XXIV capitolo del Decline
and Fall in cui si allude agli antiocheni e al loro ejnhvdono" bivo" - asseriva:
«Meta;
th;n megavlhn, th;n qaumasivan jAlexavndreian, aujto; ;to; kevntro tou'
JEllhnismou' eJlkuvei th;n fantasiva mou.(³)
________
-------------------
(3) JO Gkivmpon levgei o{ti gia; ;tou;"
jAntiocei'" (th'" ejpoch'" tou'
jIoulianou' '
«fashion was the only law, pleasure the
only pursuit, and the splendor of dress and furniture was the only distinction.»
O IOULIANOS KAI OI ANTIOCHEIS
[Htane dunato;n pote; n'ajparnhqou'n
th;n e[morfhv tou" diabivwsi: th;n poikiliva
tw'n kaqhmerinw'n tou" diaskedavsewn: to; lamprov tou"
qevatron o{pou mia; e{nwsi" ejgevnontan th'" Tevcnh"
me; te;" ejrwtikev" th'" savrka" tavsei"!
jAnhvqikoi mevcri tino;" - kai; piqano;n
mevcri pollou' -
h\san. jAll'ei\can th;n ijkanopoivhsi pou; oJ bivo"
tou"
h\tan oJ p e r i l av l h t o
" bivo" th'" jAntioceiva",
oJ ejnhvdono", oJ ajpovluta kalaivsqhto".
Na; t'ajrnhqou'n aujta;, gia; ;na; prosevxoun kiovla"
tiv;
Te;" peri; tw'n yeudw'n qew'n ajerologive" tou,
te;" ajniare;" periautologive":
th;n paidariwvdh tou qatrofobiva:
th;n a[cari semnotufiva tou: ta; geloi'a tou gevneia.
\A bevbaia protimouvsane to;
Ci',
a\ bevbaia protimouvsane to; Kavppa: eJkato; forev".[109]
In quel satirico messaggio noto come Misopogon
e destinato non solo al popolo di Antiochia, ma anche ai curiali della città, oiJ ejn tevlei, per usare la definizione di Giuliano, questi
deplora incessantemente la generale indifferenza verso i suoi tentativi di
restaurazione pagana. Il piano verosimilmente più sensazionale concepito dal
barbuto imperatore filosofo con l'occulto scopo di favorire tali suoi tentativi
- e che nonostante la sensazionalità non suscitò la benché minima ispirazione
in Kavafis -, contemplava la riedificazione del tempio giudaico di Gerusalemme
che era stato distrutto dalle legioni di Tito e di Adriano.[110] Ci è pervenuto un minuscolo
frammento dell'epistola che l'Apostata inviò agli ebrei disseminati nelle varie
province dell'Impero, con la quale egli assicurava che avrebbe posto tutto il
suo zelo per mandare a effetto tale piano.[111] Ma più che riedificare l'antico tempio
mosaico, Giuliano, in verità, mirava a dimostrare l'infondatezza della profezia
cristiana secondo la quale il tempio non sarebbe mai risorto.
La precaria situazione esistente fra l'imperatore e i suoi sudditi si
aggravò allorché alla loro indifferenza verso gli dei, venne ad aggiungersi una
sacrilega calamità che, inopinatamente,
colpì Apollo nel suo santuario situato nel sobborgo di Dafne, nei dintorni di
Antiochia. Al fine di stimolare il ritorno delle moltitudini siriane in seno
all'antica religione pagana e per esorcizzare le iniquità insite nel
cristianesimo, Giuliano, ancor prima di
giungere in
Antiochia provenendo da Costantinopoli, aveva inviato una epistola al conte
dell'Oriente Giulio Giuliano, fratello di Basilina, e quindi suo zio, oltre che
suo omonimo, incaricandolo di provvedere sollecitamente affinché si riportasse
all'antico splendore l'inclito santuario del dio della luce a Dafne:
«Peri;
de; w|n ejpevsteilav" moi, pavnta ejpainw', pavnta qaumavzw, ejnoi'" oujdevn
ejstin ajpovblhton ejx ejkeivnwn: i[sqi ou\n o{ti kai; pavnta pravxw su;n
qeoi'". Tou;" kivona" tou;" Dafnaivou" qou' pro; tw'n
a[llwn: tou;" ejk basileivwn tw'n pantacou' labw;n ajpokovmison:
uJpovsthson de; eij" ta;" ejkeivnwn cwvra" tou;" ejk tw'n
e[nagco" kateilhmmevnwn oijkiw'n: eij de; kajkei'qen ejpileivpoien, <sth'son>
ojpth'" plivnqou kai;; kovnew", e{w" e{xwqen marmarwvsante"
ejntelestevroi" crhswvmeqa. To; de; o{sion o{ti poluteleiva" ejsti;
krei'tton kai; toi'" eu\ fronou'sin hJdonh;n ejn bivw/ kai; th'/ crhvsei
e[con pollhvn, aujto;" oi\da".»[112]
A poche miglia di
distanza a ovest di Antiochia, i re Seleucidi avevano edificato un tempio al
cui interno si ergeva una grande statua - opera dell'ateniese Bryaxis -,
dedicata ad Apollo. In prossimità del tempio, che divenne rapidamente uno dei
luoghi di culto più celebri del mondo pagano, sorse, con l'andar del tempo, un
villaggio; santuario e villaggio erano situati in una vasta selva di lauri e di
cipressi tutelati da un decreto che ne proibiva la recisione, e numerosi
ruscelli d'acqua perenne provvedevano a mantenere ubertoso il terreno e a
mitigare la calura.[113] Alcune settimane dopo il
suo arrivo ad Antiochia, Giuliano decise di presiedere, in veste di pontefice
massimo, alla festa annuale di Apollo e, mentre aspettava, tutto pervaso di
fervore religioso, si figurava nelle mente incensamenti, libagioni ed ecatombi
di pingui buoi, lunghe processioni di giovinette e di efebi biancovestiti e la
commossa partecipazione delle moltitudini.[114] Ma una grande delusione era in attesa del
pio augusto: giunto al santuario di Dafne, a Giuliano non rimase che constatare
che le cerimonie per la festa annuale di Apollo venivano celebrate da un solo
sacerdote e che non ecatombi di pingui buoi sarebbero state sacrificate, bensì
una sola oca, personale oblazione dell'unico sacerdote rimasto quale cereo,
solingo custode di quel tempio in totale decadenza:[115]
« JW" de; ei[sw parh'lqon tou' temevnou",
ou[te qumiavmata katevlabon ou[te povpanon ou[te iJerei'on. Aujtivka me;n ou\n
ejqauvmasa kai; w/[mhn e[xw tou' 'temevnou" ei\nai, perimevnein de;
uJma'", ejme; dh; timw'nta" wJ" ajrciereva, to; suvnqhma par’ ejmou'. jEpei' ;de; hjrovmhn tiv mevllei quvein hJ
povli" ejniauvsion eJorth;n a[gousa tw/' qew/', oJ iJereu;" ei\pen: ejgw; me;n h{kw fevrwn oi[koqen tw/'
qew/' ch'na iJerei'on, hJ povli" de; ta; nu'n oujde;n hujtrevpistai.
jEntau'qa oJ filapecqhvmwn ejgw; pro;" th;n boulh;n ajnepieikei'"
pavnu dielevcqhn lovgou", w|n i[sw" oujk a[topon kai; nu'n
mnhmoneu'sai.»[116]
Ma per quale ragione il
santuario di Apollo era stato abbandonato dal dio, e perché l'onda profetica
del suo oracolo si era interrotta? menzionato da Eusebio nella successione dei
vescovi di Antiochia, aveva reso l'anima a Dio dopo la persecuzione voluta da
Decio intorno alla fine della prima metà del III secolo d. C., e i resti del
martire cristiano giacquero nel loro avello fino al giorno in cui l'ariano
fratellastro di Giuliano, Gallo, non ne ordinò la traslazione fra i cipressi
della selva di Dafne. Moltiplicatesi con il trascorrer degli anni le tombe dei
cristiani che desideravano dormire il sonno eterno presso il sepolcro del loro
santo vescovo, la maggior parte dei sacerdoti di Apollo e i loro adepti avevano
abbandonato, iracondi, il sacro suolo profanato. Giuliano si adoperò
freneticamente affinché Apollo non fosse più disturbato dalla esecrabile
presenza dei cristiani, vivi o morti che fossero, poiché erano stati
sicuramente loro la causa che aveva indotto l'oracolo al silenzio. Ipso facto, le tombe dei cristiani furon
trasferite nel cimitero di Antiochia, e il terreno venne purificato secondo gli
antichi rituali eseguiti dagli ateniesi sull'isola di Delo.[117] Quanto alle reliquie di
san Babila, esse ricevettero un trattamento che irritò ancor di più Giuliano: i
cristiani le raccolsero con amore e con onore e, riuniti in lunga processione
dietro l'alto carro su cui erano state
poste, le scortarono fino al cimitero di Antiochia intonando quei salmi di
Davide che maggiormente esprimevano disprezzo per gli dei e per i pagani.[118] Il 22 ottobre, nel cuor
della notte, il tempio di Apollo a Dafne andò in fiamme e, insieme al tempio,
fu ridotto in cenere anche il simulacro del dio. Ma com'era avvenuta l'immane
calamità? L'incendio era stato causato da una negligenza o da un fulmine - come
sostenevano i cristiani -, oppure da un atto doloso? Nonostante i risultati
negativi emersi dalle indagini svolte, Giuliano volle credere alla seconda
ipotesi, sebbene uno storico assai affidabile quale Ammiano Marcellino definì
«levissimus rumor» le voci che attribuivano ai galilei la reità del sacrilego
incendio.[119]
Si riferisce a questi
avvenimenti storici una lirica in forma di monologo drammatico composta nel
1932 o 1933, e che è fra l'altro anche l'estrema poesia scritta da Kavafis,
quella con la quale egli salutava Alessandria che se n'andava La drammaticità è
assai intensa, e anche in questo l'elemento dominante è costituito dal
conflitto tra paganesimo e cristianesimo, nella fattispecie fra Giuliano e le
moltitudini di Antiochia. Il carattere fortemente colloquiale delle espressioni
usate dall'anonimo interlocutore del monologo, non solo rivela in maniera
chiara il risentimento dei cristiani nei confronti di Giuliano, ma conferisce
simultaneamente sia una grande naturalezza narrativa al monologo stesso, che
una immediatezza assolutamente insolita al remoto avvenimento storico.
STA PERICWRA THS ANTIOCEIAS
Sastivsame sth;n jAntiovceian o{tan mavqame
ta; neva kamwvmata tou' jIoulianou'.
JO jApovllwn ejxhghvqhke
me; lovgo tou, sth;n Davfnh!
Crhsmo; de;n h[qele na; dwvsei (skotiqhvkame!),
skopo; de;n to[ce na; milhvsei mantikw'", a]n prw'ta
de;n kaqarivzontan to; ejn Davfnh/ tevmenov" tou.
To;n ejnoclou'san, dhvlwsen, oiJ geitoneuvonte" nekroiv.
Sth; Davfnh brivskontan tavfoi polloiv.
{Ena" ajp tou;" ejkei' ejntafiasmevnou"
h\tan oJ qaumastov", th'" ejkklhsiva" ma" dovxa,
oJ a{gio", oJ kallivniko" mavrtu" Babuvla".
Aujto;n aijnivttontan, aujto;n fobou'ntan oJ yeutoqeov".
{Oso to;n e[noiwqe konta; de;n
kovtae
na; ;bgavlei tou;" crhsmouv" tou: tsimoudiav.
(Tou;" trevmoune tou;" mavrturav" ma" oiJ
yeutoqeoiv).
jAnaskoumpwvqhken oJ
ajnovsio" jIoulianov",
neuvriase kai; xefwvnize: Shkw'ste, metafevrte ton,
bgavlte ton tou'ton to;n Babuvla ajmevsw".
jAkou'" ejkei'; JO jApovllwn
ejnoclei'tai.
Shkw'ste ton, aJrpavxte ton eujquv".
Xeqavyte ton, pavrte ton o{pou qevte.
Bgavlte ton, diw'xte ton. Paivzoume twvra;
JO jApovllwn ei\pe na;
kaqarisqei' to; tevmeno".
To; phvrame, to; phvgame, to; a{gio leivyano ajllou'.
To; phvrame, to; phvgame ejn ajgavph/ k' ejn
timh/'.
Ki wJrai'a twovnti provkoye to; ;tevmeno".
De;n a[rghse kaqovlou, kai; ;fwtia;
megavlh kovrwse: mia; brafoberh; fwtiav:
kai; kavhke kai; to; tevmeno" ki oJ jApovllwn.
Stavcth to; ;ei[dwlo: gia; savrwma, me; ;ta; skoupivdia.
[Eskase oJ jIuoliano;"
kai; de;n dievdose -
tiv a[llo qa; ;e[kamne - pw;" hJ fwtia; h\tan balth;
ajpo; tou;" Cristianou;" ejma'". ]A" pavei na;
; levei.
De;n ajpodeivcqhke: a]" pavei na; levei.
To; oujsiw'de" ei\nai pou; e[skase.[120]
Oltre alla dettagliata e
drammatica descrizione della distruzione del santuario di Apollo a Dafne
narrata da Gibbon, sembra pressoché certo che Kavafis abbia avuto presenti
anche altre fonti quali Giovanni Crisostomo, Libanio, Socrate, Ammiano
Marcellino e, naturalmente, lo stesso Giuliano.[121] Kavafis, dunque,
continuò fino all'ultimo a rivolgersi a Gibbon per attingere informazioni sia
su Giuliano che sulla temperie socio-culturale del IV secolo in generale.
Intorno all'inizio della primavera del 363, prima di intraprendere le
operazioni militari contro Sapore, Giuliano fece affiggere il testo del
Misopogon alle porte del proprio palazzo e, per punire ulteriormente Antiochia,
nominò governatore dell'ingrata città Alessandro di Ierapoli, individuo avido e
insolente, assai noto per le sue poco edificanti prerogative e che,
precisamente per questo, aveva ritenuto degno di governare gente come gli
antiocheni. Al momento della partenza per la guerra, una moltitudine variegata
circondò l'amareggiato sovrano per augurargli una spedizione propizia e un
trionfale ritorno, oltre che per supplicarlo di mitigare l'asprezza del
carattere. Giuliano tuttavia, memore delle contumelie degli antiocheni, li
assicurò che quella sarebbe stata l'ultima volta che essi lo vedevano.
L'augusto, infatti, aveva deciso che subito dopo la campagna contro i persiani,
avrebbe stabilito i quartieri d'inverno a Tarso, e aveva scrittoi a Memorio,
governatore di quella città, affinché si provvedesse agli opportuni
preparativi.[122]
Ci è pervenuta una
elegante epistola, redatta da Giuliano a Ierapoli e destinata all'amico
Libanio, nella quale l'imperatore - come in un diario - fornisce al sofista di
Antiochia una particolareggiata esposizione dei fatti avvenuti durante la
spedizione militare: le disillusioni causate senza tregua dagli affari
religiosi, i sacrifici offerti agli dei, i presagi ottenuti, gli stupori e le
delusioni di un viaggio attraverso una regione in parte deserta, in parte
disseminata di città ridenti. Narra Giuliano che dopo due giorni di difficile
marcia, il terzo giorno sostò a Berea, o Aleppo, dove si recò a visitar
l'acropoli e, dopo aver immolato un bianco toro a Zeus, si intrattenne con il
senato della città intorno al culto degli dei; ma i membri del senato erano
pressoché tutti cristiani e gli applausi palesemente freddi e formali che essi
tributarono all'eloquente discorso di Giuliano costituirono un motivo di
profondo avvilimento per l'apostolo del paganesimo:[123]
« jEpimeivna" de; hJmevran ejkei', th;n
ajkrovpolin ei\don, kai; e[qusa tw'/ Dii; basilikw'" tau'ron leukovn,
dielevcqhn de; ojlivga th'/ boulh'/ peri; qeosebeiva". jAlla; tou;" lovgou"
ejph/vnoun me;n a[pante", ejpeivsqhsan de; aujtoi'" ojlivgoi pavnu,
kai; ou\toi oi| kai; pro; tw'n ejmw'n lovgwn ejdovkoun e[cein uJgiw'", eujlabou'nto de; w{sper
parrhsiva" ajpotrivyasqai th;n aijdw' kai; ajpoqevsqai.»[124]
Prima che Giuliano
ripartisse da Berea alla volta di Batne, l'odierna Tell Batnân, accadde un
episodio assai appropriato - apparentemente - a suscitare l'ispirazione di
Kavafis ma che questi, tuttavia, decise di ignorare, episodio cui allude
Giuliano stesso nella sua epistola a Libanio e che fu narrato più ampiamente da
Teodoreto e da Gibbon. Un giovane - figlio di una eminente personalità
cristiana residente in Berea -, convertitosi forse per interesse al paganesimo,
era stato diseredato dal genitore; venuto a conoscenza di ciò, Giuliano invitò
alla propria mensa padre e figlio e, sedutosi, in mezzo a essi, li esortò alla
tolleranza ma non riuscì che a risvegliare lo zelo del vecchio cristiano il
quale sembrava totalmente dimentico sia dei sentimenti di un padre verso il figlio,
che del rispetto dovuto da un suddito verso il proprio sovrano. Rivolgendosi a
tal punto al triste giovane, Giuliano esclamò: «Giacché hai perduto un padre
per causa mia, spetta a me farne le veci.»[125]
Batne che, nonostante il
toponimo barbaro, era una località - mi si consenta l'espressione -
kavafianamente ellenica, accolse Giuliano in maniera solo in apparenza più
consona alle sue sollecitazioni religiose:
«Ai{ ge mh;n Bavtnai (barbariko;n o[noma tou'to)
cwrivon ejsti;n JEllhnikovn, prw'ton me;n o{ti dia; pavsh" th'"
pevrix cwvra" ajtmoi; libanwtou' pantacovqen ajnh/'san, iJerei'av te
ejblevpomen eujtreph' pantacou'. Tou'to me;n ou\n eij kai; livan eujfranev
me, qermovteron o{mw" ejdovkei kai; th'" eij" tou;" qeou;"
eujsebeiva" ajllovtrion (...).»[126]
Tuttavia, a dispetto della solennità dei riti sacrificali celebrati dai
cittadini di Batne, il poco riverente tumulto dei loro applausi offese la
devozione dell'imperatore il quale intese assai chiaramente che i vapori
innalzantisi da quelle are non erano incensamenti ispirati dalla pietà, bensì
dalla adulazione.[127]
Ma Giuliano, avendo
assunto quale modello Alessandro, avanzò verso Ierapoli e successivamente verso
Carre, o Harrân, antica residenza dei sabei e di Abramo, e dove il tempio della
Luna attrasse la devozione dell'augusto. A Carre, luogo in cui si biforcavano
due importati strade, Giuliano divise l'esercito in due parti: una, sotto il
comando di Procopio e di Sebastiano, avrebbe marciato lungo il Tigri fino a
Nisibi, mentre l'altra, al comando di Giuliano medesimo, avrebbe proceduto
lungo le sponde dell'Eufrate. Le cose sembravano andare nella maniera più
favorevole: attraversato il fiume Abora, un affluente dell'Eufrate, che segnava
la frontiera fra i due grandi imperi nemici, Giuliano, al fine di persuadere i
suoi legionari che la loro salvezza sarebbe dipesa esclusivamente dal trionfo
delle loro armi, fece distruggere immediatamente il ponte sull'Abora. Indi
l'imperatore, a mano a mano che penetrava sempre più all'interno del territorio
nemico, espugnò alcune importanti cittadelle persiane grazie ad assedi condotti
con raffinata scienza strategica, memorabili fra tutti quelli che permisero la
conquista di Pirisabora e di Maogamalca, fortezza, quest'ultima, assai vicina
al cuore della Persia. Giuliano avanzava con l'esercito e i suoi legionari
continuavano a infliggere ragguardevoli perdite ai nemici allorché - in un
nuovo scontro -, egli fu trafitto da un giavellotto lanciato da mano ignota.[128]
Soccorso da alcuni
soldati e trasportato nella sua tenda, l'imperatore trascorse gli istanti che
gli rimanevano da vivere mostrando la forza d'animo che, in simili frangenti, è
prerogativa dei saggi; gli amici e i filosofi che lo avevano accompagnato in
quella fatale spedizione - Sallustio e Oribasio, Prisco e Massimo -,
ascoltarono con riverente dolore l'orazione funebre che l'augusto, morendo,
pronunciò con voce ferma e serena, e pervenutaci grazie alla minuziosa
relazione della morte di Giuliano eseguita da Ammiano Marcellino. Terminata l'orazione
funebre e distribuiti con un testamento militare i propri beni privati,
l'imperatore intraprese una discussione metafisica sulla natura dell'anima
insieme ai filosofi Prisco e massimo, ma intorno alla mezzanotte,
verosimilmente stremato dagli sforzi fisici e morali, spirò alzando il grido: «Nenivkhka" Cristev: korevsqhti Nazwrai'e».[129] Con la inopinata quanto prematura
scomparsa del pagano Giuliano, l'impero si trovò privo di una guida e di un
erede, ma l'esercito acclamò ben presto augusto Gioviano che, sebbene «edax et
vino Venerique indulgens», faceva grande sfoggio della sua devozione cristiana.[130]
Secondo gli ultimi
desideri espressi da Giuliano prima di partire da Antiochia, il suo corpo,
onorevolmente imbalsamato, fu sepolto a Tarso, in Cilicia, e sulla sua tomba
venne inciso il seguente epigramma:
jIouliano;" meta; Tivgrin ajgavrroon ejnqavde kei'tai,
ajmfovteron
basileuv" t’ ajgaqo;" kraterov" t’ aijcmhthv".[131]
Lo storico ecclesiastico Teodoreto narra che appena la morte di Giuliano
raggiunse Antiochia, i vendicativi abitanti di quella città - da tempo antico
ellenica e adesso prevalentemente
cristiana -, si abbandonarono a manifestazioni di giubilo, e una grande
processione alla testa della quale vi era una grande croce sfilò per le vie.
Elaborando, forse, liberamente la versione che di tale episodio redasse
Teodoreto, e attingendo verosimilmente alcuni altri particolari alla
descrizione della processione pagana vagheggiata dallo stesso Giuliano e nella
quale egli aveva immaginato un lungo corteo di fanciulle e di efebi
biancovestiti che sfilava a Dafne in occasione della festa annuale di Apollo,
Kavafis compose una poesia che pubblicò nell'agosto 1926 con il titolo di «Gran
processione d'ecclesiastici e laici». Tale lirica, tuttavia potrebbe essere,
stando ad alcune affinità tematiche, la rielaborazione di una poesia del 1892 e
della quale ci è pervenuto solo il titolo, “La croce”. Inoltre il poeta
alessandrino potrebbe aver attinto a Gregorio di Nazianzo e a Sozomeno certi
dettagli concernenti le manifestazioni di giubilo che accompagnarono la morte
di Giuliano l'Apostata.[132]
MEGALH SUNODEIA EX IEREWN KAI LA:I:KWN
jEx iJerevwn kai; la:i:kw'n
mia; sunodeiva,
ajntiprosopeumevna pavnta ta; ejpaggevlmata,
dievrcetai oJdouv", plateev", kai; puvle"
th'" periwnuvmou povlew"
jAntioceiva".
Sth'" ejpiblhtikh'", megavlh" sunodeiva" th;n
ajrch;
wJrai'o", leukontumevno" e[fhbo" basta'
me; ajnuywmevna cevria to;n Staurovn,
th;n duvnamin kai; th;n ejlpivda ma", to;n a{gion Staurovn.
OiJ ejqnikoiv, oiJ pri;n tosou'ton uJperfivaloi,
sunestalmevnoi twvra kai; deiloi; me; bivan
ajpomakruvnontai ajpo; th;n sunodeivan.
Makra;n hJmw'n, makra;n hJmw'n na; ;mevnoun pavnta
(o{so th;n plavnh tou" de;n ajparnou'ntai). Procwrei'
oJ Ja{gio" Staurov". Eij" kavqe sunoikivan
o{pou ejn qeosebeiva/ zou'n oiJ Cristianoi;
fevrei parhgorivan kai; carav:
bgaivnoun, oiJ eujlabei'", ste;" povrte" tw'n pistw'n
tou"
kai; plhvrei" ajgalliavsew" to;n proskunou'n -
th;n duvnamin, th;n swthrivan th'" oijkoumevnh", to;n
Staurovn.-
Ei\nai mia; ejthvsia eJorth; Cristianikhv.
Ma; shvmera telei'tai, ijdou', pio; ejpifanw'".
Lutrwvqhke to; ;kravto" ejpi; tevlou".
JO miarovtato", oJ
ajpotrovpaio"
jIouliano;" de;n
basileuvei piav.
JUpe;r tou' eujsebestavtou
jIobianou' eujchqw'men.[133]
Le ultime due poesie
giulianee di cui ci occuperemo, lasciate incompiute da Kavafis, sono state
ricostruite nel 1981 da Renata Lavagnini. La prima, risalente all'aprile 1920,
è intitolata «Atanasio» e allude a un episodio avvenuto presumibilmente in
Egitto, nello stesso istante in cui l'Apostata passava a miglior vita. Narra
Gibbon che, morto Giuliano, se da un lato i pagani lo annoverarono nel numero
di quelle divinità il cui culto egli così ferventemente aveva tentato di
restaurare, dall'altro le invettive dei cristiani seguirono l'anima del nipote
di Costantino il Grande fino all'inferno e la sua salma fino al magnifico
sepolcro che gli era stato preparato sulle rive del fresco e limpido Cidno.
Mentre i cristiani glorificavano la portentosa affrancazione della loro Chiesa,
i pagani si condolevano per la immane catastrofe che si era abbattuta sulle are
dei loro dei; i cristiani, resi tracotanti dalla vendetta divina che aveva
folgorato l'empio Apostata, affermavano
che la morte del tiranno nel momento stesso in cui egli era spirato al di là
del Tigri, era stata rivelata ai santi d'Egitto, della Siria e della
Cappadocia, e lo storico inglese aggiunge - con illuministica ironia -, che, in
effetti, precisamente in quella notte fu notato che un qualche santo o un
qualche angelo era assente per compiere una segreta missione.[134]
Tuttavia, l'etiologia
della lirica “Atanasio” fu indicata da Kavafis medesimo, poiché il fascicolo
F57 dell'Archivio Kavafis contiene, oltre all'abbozzo della lirica e a un
appunto assai importante, anche un brano che il Poeta alessandrino trascrisse,
secondo il proprio abituale sistema tachigrafico, da The Story of the Church in Egypt di E. L. Butcher, opera pubblicata
a Londra nel 1897:
«Ath[anasius] st[ayed] s[o]m[e] ti[me] in
Hermopolis and Antinoe, preaching / and op[en]ly perf[orming] h[is] du[ties],
as if on an or[inary] vis[itation] tour; but at / m[id]sum[mer] he rec[eived]
fr[esh] warning that he was in d[an]g[er], and Theodore ca[me] ag[ain] w[ith]
an[o]ther abbot to entreat h[im] to conceal / h[im]sel[f] in Tabenna. He
embarked in a cov[ered] boat w[ith] / t[he] 2 monks; but t[he] wind was
[a]g[ain]s[t] th[em], and it b[e]ca[me] nec[essary] to tow / t[he] b[oat]
w[ith] painful slowness. Ath[anasius] was for s[ome] ti[me] absorbed / in
prayer, and did n[ot] obse[rve] t[he] f[a]c[es] of h[is] 2 co[mpanions]. At
length he / turned to th[em] and beg[an] “If I am killed” - but / broke off as
a cur[ious] smile p[a]ss[ed] b[e]tween t[he] 2 monks, who / thereupon
inf[ormed] h[im] that ev[en] whi[le] he prayed they had rec[eived] / a
sup[er]nat[ural] intim[ation] that Julian was no mo[re]. J[ulian] was in fact,
/ slain on t[he] field of bat[tle] on June 26, 363.
Mrs
Butcher
The Story of the Church of Egypt
pages,
184, 185»[135]
L'aneddoto narrato da E. L. Butcher,
riguardante i due monaci che mentre stavano in barca sul Nilo insieme a
sant'Atanasio, avevano appreso, tramite percezione extrasensoriale la notizia
della morte di Giuliano, possedeva indubbiamente tratti caratteristici assai
appropriati a stimolare l'ispirazione di Kavafis, e tale aneddoto è palesemente
la fonte della poesia intitolata “Atanasio”, composta nell'aprile 1920.[136]
AQANASIOS
Mevsa se; bavrka ejpavnw sto;n megavlo Nei'lo,
me; duo; pistou;" suntrovfou" monacouv",
fuga;" kai; talaipwrhmevno" oJ jAqanavsio",
- oJ ejnavreto", oJ eujsebhv", oJ Jth;n
ojrqh;n pivsthn thrw'n -
proseuvcontan. To;n katadivwkan oiJ ejcqroi
kai; livgh ejlpi;" uJpu'rce na; swqei'.
\Htan oJ a[nemo"
ejnavntio":
kai; duvskola hJ saqrh; bavrka tou" procwvrei.
Sa;n ejteleivwse th;n proseuvch,
e[streye to; qlimmevno blevmma tou
pro;" tou;" suntrovfou" tou - ki ajpovrhse
blevponta" to; paravxeno meidivasmav tou".
OiJ monacoiv, ejnw' proseuvcontan ejkei'no",
ei\can sunaisqanqei' tiv ejgivnontan
sth;n Mesopotamiva: oiJ monacoi;
ejgnwvrisan pou; ejkeivnh th;n stigmh;
to; kavqarma oJ jIouliano;" ei\cen ejkpneuvsei.[137]
L'abbozzo di questa
lirica è scritto sul recto-verso del
foglio numero 2 del fascicolo F57, mentre
sul recto-verso del foglio 3 è
scritta la citazione tachigrafica attinta a The
Story of the Church in Egypt di Butcher. Ma il foglio numero 4 dello stesso
fascicolo, oltre a contenere varianti di alcuni versi, contiene anche una
annotazione che, sebbene straordinaria per la maggior parte dei poeti,
costituisce, nel caso del poeta-storico Kavafis, una ulteriore dimostrazione di
quanto fosse costante in lui la sollecitazione a verificare una stessa notizia
storica in varie fonti primarie, e indica nella mancata verifica di tali fonti
una delle cause più probabili per cui la poesia “Atanasio” venne lasciata
incompleta. Nel novembre 1929 Kavafis, nove anni dopo la prima stesura della
lirica, Kavafis non essendo riuscito a localizzare l'aneddoto narrato da
Butcher né nel volume LXVII, né nel volume LXXXII della Patrologia di Migne - alla quale il poeta alessandrino aveva
evidentemente accesso intorno al 1929 -, annotò sul foglio numero 4 del
fascicolo concernente la poesia in questione che, a meno che egli non fosse
riuscito a rintracciare la fonte anche altrove, la poesia era priva di
fondamento:
«SHM
(EIWSEIS )
Sto;n Migne 67
(Swzomeno;" kai; Swkravth") kai; 82 (Qeodwvrhto") de;n uJpavrcei
hJ paravdosi" th'" Butcher. JEa;n de;n eujreqei' ajllou', se; kanevnan bivo tou'
JAg. jAqanasivou, to; poivhma de;n stevketai.
Noevmbrio", 29.»[138]
Se il nucleo tematico di
“Gran processione d'ecclesiastici e laici” e di “Atanasio” è costituito dalla
immediata reazione suscitata dalla notizia della morte dell'Apostata, con
l'ultima poesia del ciclo giulianeo che rimane da esaminare, Kavafis, per mezzo
di una semplice allusione al numero di anni trascorsi dalla morte dell'ultimo
imperatore pagano, ci trasporta nel 379, vale a dire al primo anno di regno di
Teodosio (379-395). La scena descritta in questa lirica è totalmente
immaginaria, e la voce che vi riecheggia è quella di un anonimo giovane
alessandrino che, per ingannare il tempo mentre attende l'arrivo di un caro amico,
si mette a leggere il primo libro che gli viene alla mano. Il commento del
giovane, richiamando ironicamente l'attenzione sull'editto promulgato da
Giuliano il 17 giugno 362, con il quale si proibiva ai cristiani di insegnare
le opere di Omero e di Esiodo, mette oltre tutto in evidenza la rapidità con
cui l'atteggiamento assunto dall'Apostata in materia politico-religiosa divenne
obsoleto. Non conosciamo la data di composizione di questa poesia sine titulo, incompleta e ricostruita da
R. Lavagnini, tuttavia possiamo supporre che risalga all'estremo periodo della
creatività artistica kavafiana.[139]
Ei\can peravsei devka pevnte crovnia.
\\Htan oJ prw'to"
crovno" tou' Qeodosivou.
Sth;n ai[qousa tou' patrikou' megavrou tou
perivmene e{na" nevo" ajlexandrino;"
miva ejpivskeyin ajgaphmevnou fivlou.
Gia; na; pernavei pio; eu[kola oJ kairo;"
ph're k'ejdiavbase to; prw'to pou; e[tuce biblivo.
]Htane sofistou' polu;
ojrgivlou,
pouv, gia; tapei;nwsin tw'n Cristianw'n,
paravqete tou' jIoulianou' th;n fravsi.
«Bebaivw"» yiquvrisen oJ nevo" ajlexandrinov",
«pw'ta oJ Matqai'o", prw'ta oJ Louka'"».
Gia; t' a[lla,
o{mw", ta; ejlafra; tou' jIoulianou',
{Omhron kai; JHsivodo,
ejmeidivasen monavca.[140]
Sarebbe tutt'altro che opportuno
riflettere troppo a lungo sugli avvenimenti storici eventualmente ignorati
dalla maggior parte dei poeti, ma nel caso specifico di Costantino Kavafis -
poeta-storico per sua stessa ammissione e, per di più, perseguitato dall'ombra
di Giuliano -, tale riflessione è stata non solo opinabile ma viepiù
necessaria. Ed è assai degno di nota che, sebbene Kavafis abbia composto
addirittura dodici liriche sull'Apostata, numero molto elevato se pensiamo alla
esiguità quantitativa delle poesie costituenti la totalità dell'opera artistica
kavafisiana, il poeta alessandrino prese in considerazione soltanto tre periodi
fra tutti quelli che potevano essere attinti alla biografia dell'ultimo
imperatore pagano, nella fattispecie episodi riguardanti l'adolescenza di
Giuliano, il suo spiacevole soggiorno in Antiochia e la sua tragica morte. Già
vedemmo che l'ispirazione di Kavafis non fu stimolata dai momenti più brillanti
della carriera politico-militare di Giuliano nelle Gallie, dalla sua inopinata
acclamazione a imperatore a Lutetia Parisiorum oppure dalle brillanti
operazioni che caratterizzarono l'inizio della campagna contro i persiani di
Sapore II. Nei versi del poeta alessandrino è totalmente assente il periodo
trascorso da Giuliano a Costantinopoli,
nonostante la indiscussa temperie greca di quella città, ed è anche
clamorosamente assente il tentativo intrapreso dall'Apostata negli ultimi sei
mesi della sua breve vita, volto a restaurare il tempio giudaico di
Gerusalemme, tentativo il cui drammatico epilogo venne narrato, ironicamente ma
efficacemente, da Gibbon il quale, oltre a descrivere le reazioni suscitate da
tale disastro nei sensibili animi di sant'Ambrogio e di Gregorio di Nazianzo, citava, per di più, un breve ma assai
suggestivo brano di Ammiano Marcellino, riferentesi a tale calamità:
«Cum itaque rei fortiter instaret Alypius,
iuvaretque provinciae rector, metuendi globi flammarum prope fundamenta crebris
assultibus erumpentes fecere locum exustis aliquoties operantibus inaccessum;
hocque modo elemento destinatius repellente, cessavit inceptum.»[141]
Cantore della sconfitta,
Kavafis rimase fedele a sé stesso e il senso di tutto ciò fu espresso assai
eloquentemente da Robert Liddell il quale, parafrasando Lucano, ha scritto il
seguente epigramma stoico che,
verosimilmente, sarebbe piaciuto molto allo stesso Kavafis:
«Victrix causa deis placuit, sed victa Cavafi».[142]
Come dimostrano alcune
delle liriche lette precedentemente, è chiaro che Kavafis non fu mai settario
rispetto alle conflittualità religiose. Se egli si turbò al cospetto della
vecchia nutrice che nell'estremo tentativo di salvare la vita al morente Clito
recò furtivamente offerte sacrali a un demone nero, il poeta alessandrino si
emozionò anche per il giovane cristiano che pianse la morte del proprio padre
che era stato sacerdote di Serapide, così come si turbò per il giovane pagano
che, straziato dalla notizia della morte del prediletto amico Myris e recatosi
nella sua casa, sopraffatto dalla inconsueta atmosfera, fuggì da quella casa
piena di vecchie donne in gramaglie e dove quattro preti cristiani recitavano
preghiere a Gesù o forse a Maria: il giovane pagano, «non conoscendo bene le
pratiche dei cristiani, non poteva sapere a chi fossero rivolte le suppliche di
quei preti». Sia con i personaggi pagani che con quelli cristiani,
l'atteggiamento di Kavafis[143] è caratterizzato da un profondo sentimento di
solidarietà, un sentimento in virtù del quale egli poté gioire delle loro gioie
e addolorarsi delle loro pene, a seconda di ciò che gli avvenimenti costituenti
l'ordito drammatico delle sue poesie richiedevano.
Non sappiamo quanto fosse profondo il sentimento religioso di Kavafis ma
almeno in apparenza era conforme alle istanze ufficiali della Chiesa ortodossa
anche se, più che di vera fede religiosa, si trattò assai verosimilmente di
irresistibile ammirazione per la tradizioni e per la magnificenza delle
liturgie bizantine. Il poeta alessandrino non fu mai un cristiano osservante,
ma sappiamo che portò al collo per tutta la vita la catenella d'oro e la croce
che gli furono donati dalla sua madrina il giorno del battesimo, e ogni Venerdì
Santo lo si poteva vedere in strada, con il cappello in mano, ad aspettare che passasse l'Epitaffio di Cristo
recato in solenne processione per le vie di Alessandria e proveniente dalla
chiesa patriarcale di San Saba.
Nel 1907 Kavafis trasferì la sua residenza dall'appartamento di Rue
Rosette a quello che sarebbe divenuto tanto noto grazie alle testimonianze di
alcuni illustri visitatori, e
dove il
poeta avrebbe trascorso gli ultimi ventisette anni della sua vita e situato al
secondo piano di un immobile al numero 10 di Rue Lepsius, in un quartiere
piuttosto malfamato e conosciuto in Alessandria con il nome di Massalìa
(Marsiglia). Quell'edificio in cui andò ad abitare Kavafis era sempre stato
occupato da persone rispettabili, ma, non sappiamo esattamente quando, al piano
terreno vi fu aperto un postribolo.[144]
Le prostitute si
affacciavano alle finestre e invitavano i passanti. Esse si comportavano
educatamente con Kavafis. «Poverette!» egli disse una volta a un amico che una
sera lo aveva accompagnato fino a casa. «Bisogna compatirle. Fanno entrare
gente veramente disgustosa, dei mostri, ma (e a quel punto la sua voce assunse
un tono profondo e caloroso) qualche volta ricevono anche degli angeli, certi
angeli!» L'edificio era situato nel vecchio quartiere greco di Alessandria:
dirimpetto si trovava l'ospedale e, girato l'angolo, vi era la chiesa
patriarcale greca di San Saba. Kavafis era solito dire: «Dove potrei vivere
meglio che qui? Giù al piano terreno, il bordello provvede ai bisogni della
carne. E là c'è la chiesa che perdona i peccati. E c'è l'ospedale dove si va a
morire.» Talvolta diceva: «Io sono lo spirito, sotto di me c'è la carne»,
oppure: «Solo, quassù, eroe e vittima.»[145]
Sebbene ciò che veniva
offerto al piano terreno del numero 10 di Rue Lepsius non sopperì mai
all'appagamento dei trasporti erotici di Kavafis, la Chiesa ne perdonò i
peccati ed egli morì nell'ospedale della comunità greca. Poco prima che il
Poeta morisse, il patriarca di Alessandria si recò, a sua insaputa, da lui per
impartirgli gli estremi conforti religiosi. Kavafis che non aveva richiesto
tale visita, sulle prime rifiutò di riceverlo, andò in collera, si ostinò, ma
alla fine cedette a quanti, intorno a lui, facevano opera di persuasione. O
piuttosto cedette all'idea che sarebbe stato assai sconveniente rifiutarsi di
ricevere un patriarca della grande città di Alessandria. E allorché l'alto
prelato entrò nella stanza dell'infermo, trovò Kavafis seduto, compunto, il
volto pervaso da una grave serietà, pronto ad adempiere a tutte le formalità
richieste dalle circostanze. In tale scena, secondo I. Saregiannis, sono
ravvisabili alcuni elementi che caratterizzano una lirica bizantina, composta da Kavafis nel 1905.[146]
MANOUHL KOMNHNOS
JO basileu;" ku;r Manouh;l
Komnhno;"
mia; mevra melagcolikh; tou' Septembrivou
aijsqavnqhke to;n qavnato kontav. OiJ ajstrolovgoi
(oiJ plhrwmevnoi) th'" aujlh'" ejfluarou'san
pou; a[lla polla; crovnia qa; zhvsei ajkovmh.
jEnw' o{mw" e[legan
aujtoiv, ejkei'no"
palhe;" sunhvqeie" eujlabei'" quma'tai,
ki ajp' ta;
kellia; tw'n monacw'n prostavzei
ejnduvmata ejkklhsiastika; na; fevroun,
kai; ta; forei', k' eujfraivnetai
pou; deivcnei
o[yi semnh;n iJerevw" h] kaloghvrou.
Eujtucismevnoi o{loi pou; pisteuvoun,
kai; sa;n to;n basileva ku;r Manouh;l teleiwvnoun
ntumevnoi me;" sth;n pivsti twn semnovtata.[147]
Se da un lato equivarrebbe a una esemplificazione viepiù arbitraria
della realtà asserire che Kavafis era turbato dal cristianesimo al punto di
esserne intimorito, dall'altro lato, a giudicare da talune poesie, egli non si
sarebbe sentito maggiormente a suo agio col paganesimo quale lo proponeva
l'Apostata. Grazie, tuttavia, a una finissima sensibilità, Kavafis capì di
possedere - per diritto ereditario -, entrambi i retaggi religiosi fusi in una
lega indissolubile. Egli fu, come abbiamo visto, cristiano almeno in parte,
oppure lo fu persino più profondamente, stando ai risultati delle ricerche di
Renata Lavagnini e di Diana Haas.[148] Ma l'aspetto più significativo di questa
questione risiede nel fatto che Kavafis non fu mai schiavo, non fu mai
sostenitore ottuso né dell'una né dell'altra religione, giacché le prese
entrambe in visione.
Durante il periodo protocristiano Alessandria era un crocevia in cui
razze, culture e religioni convivevano proficuamente: greci, ebrei e altre
etnie, dottrine neoplatoniche e cristianesimo, informavano lo spirito
cosmopolita di quella città così come nell'Alessandria del XX secolo voluta da
Muhammed Alî lo spirito cosmopolita era dovuto alla presenza di numerose
comunità straniere, fra le quali eccelleva quella greca. Far prevalere una
religione su di un'altra significava sconvolgere nel suo intimo l'ordito
socio-culturale costituente ciò che, in definitiva, interessava veramente sia
agli alessandrini e agli antiocheni del IV secolo d. C., che a Kavafis.
Il poeta-storico Kavafis, diversamente dalla maggior parte degli storici
che non sono poeti, intese molto bene tutto ciò, e non fu un caso se la
cristiana Antiochia divenne per lui, dopo Alessandria, il tipo di città nella
quale egli stesso avrebbe amato vivere. Ciò che Kavafis aborriva non era il
paganesimo antico, tradizionale, bensì il paganesimo riformatore, intollerante
e anticristiano dell'Apostata. Ed è assai degno di nota osservare che risale
precisamente al 1896, vale a dire al medesimo anno in cui fu composta la prima
lirica del ciclo giulianeo, “Giuliano ai Misteri”, una poesia rifiutata intitolata “Mnhvmh”, e ambientata in Tessaglia. Successivamente Kavafis -
quale ellenico - rielaborò questa
lirica e, abbandonata la Tessaglia, uscì dagli angusti confini della Grecia
propriamente detta per approdare sui colli della Ionia.
IWNIKON
Giati; ta; spavsame t' ajgavlmatav twn,
giati; tou;" diwvxamen ajp' tou;" naouv" twn,
diovlou de;n pevqanan gi'aujto; oiJ qeoiv.
\W gh' th'" jIwniva",
sevna ajgapou'n ajkovmh,
sevna hJ yucev" twn ejnqumou'ntai ajkovmh.
Sa;n xhmerwvnei ejpavnw sou prw:i;: aujgoustiavtiko
th;n ajtmosfai'ra sou perna' sfri'go" ajp' th;n zwhvn twn:
kai kavpot' aijqeriva ejfhbikh; morfhv,
ajovristh, me; diavba grhvgoro,
ejpavnw ajpo; tou;" lovfou" sou perna'.[149]
Pubblicata nel fatidico 1911, questa lirica costituisce uno splendido
inno al paganesimo libero e tradizionale e a tutto ciò di cui Kavafis - a
dispetto degli editti di Giuliano - avrebbe potuto ancora fruire in una città
come l'Antiochia del IV secolo d. C., e nelle altre città ellenistiche della
sua anima.
MAURO GIACHETTI
[12]G.
SEFERIS, Dokimev",
Atene 1984, I, pp. 418-19: « JO
Kabavfh" moiavzei na; e[cei ajfomoiwvsei polu; Mavrko Aujrhvlio: e[zhse
to;n kairo; th'" uJpomonh'": l.c.
Sa;n e{toimo"
ajpo; kairov, sa; qarralevo"...
- «Oi{a
ejsti;n hJ yuch; hJ e{toimo", eja;n h[dh ajpoluqh'nai devh/
tou' swvmato"... (IA', 3).
Sa;n pou; pairiavzei se pou;
ajxiwvqhke" mia; tevtoia povli...
[14]«. M. YOURCENAR, Présentation critique de Constantin Cavafy, 1863-1933, suivie d'une traduction des Poèmes par Marguerite Yourcenar et Constantin Dimaras, Paris 1978, pp. 27-28: «Laissant de côté les poèmes historiques d'inspiration érotique, trop voisin des poèmes personnels, (...) j'en viens enfin à ces belles pièces mi-gnomiques, mi-lyriques, que j'appellerais volontiers les poèmes de réflexion passionnée. La notion de politique, celle de caractère, et celle de destin semblent s'y fondre en un concept plus ample de destinée, de nécessité à la fois extérieur et interne, associée à une liberté implicitement divine. Tel (...) ce poème intitulé Les dieux désertent Antoine, plein de la mystérieuse musique de la relève des dieux protecteurs abandonnant à la veille du combat leur favori d'hier, fanfare sortie de Plutarque qui aussi traversé Shakespeare (...).
Alexandrie... Alexandrie... Dans le poème Antoine semble voir s'éloigner, non pas ses dieux protecteurs comme dans Plutarque, mais la ville qu'il a peut-être aimée plus que Cléopâtre. Pour Cavafy, en tout cas, Alexandrie est un être aimé.» Cf. anche C. M. BOWRA, The Creative Experiment, London 1967, p. 35; E. KEELEY, Cavafy's Alexandria. Study of a Myth in Progress, Cambridge Massachusetts 1977, pp. 40-41, 77-78.
[24]Già
il filosofo-martire Giustino, morto intorno al 165 d. C., riteneva che fra gli
insegnamenti di Platone e quelli di Cristo non vi fossero divergenze eccessive,
e scorgeva nella filosofia pagana analogie con il concetto del Cristo-Logos
come lo espresse Giovanni nel prologo del suo Vangelo. Clemente di Alessandria
(150 circa - 215), direttore del Didaskalei'on
alessandrino, vedeva il Lovgo"
spermatiko;" in tutti gli aspetti dell'esistenza umana e
considerava la filosofia pagana greca come una propa:i:deiva
Cristou'. Cf. PAPARRIGÒPULOS, cit., III, p. 557; CANTARELLA,
cit., pp. 270, 273-75; HEILER, cit.,
II, pp. 116-17. Assai esplicito a questo riguardo è Paparrigòpulos nella sua JIstoriva, vol. IV, pp. 37-38, quando
afferma che: « jAxioshmeivwto"
mavlista ei\nai hJ stenhv, hJ ajdelfikhv, dunavmeqa na; ei[pwmen,
scevsi", eij" h|n perih'lqen ejpi; ijkano;n crovnon hJ uJyhlotavth
tw'n ejpisthmw'n, hJ filosofiva, pro;" to; cristianiko;n dovgma. JH
eJllhnikh; filosofiva sunw/keiwvqh ejk prwvth" ajfethriva" meta; tou'
nevou qrhskeuvmato". Polloi; tw'n newtevrwn sofw'n ijscirivsqhsan o{ti aiJ
neoplatwnikai; qewrivai kai; oiJ neoplatwnikoi; o{roi ejpenhvrghsan oujk
ojlivgon eij" th;n suvntaxin tou' kata; jIwavnnhn tetavrtou Eujaggelivou,
tou' perievconto" to;
filosofikovn, to; metafusiko;n mevro" th'" cristianikh'"
pivstew". jAlla; paraleivponte" ta; peri; touvtou, kavqo;
ajmfisbhthvsima kai; ajmfisbhtouvmena, ejrcovmeqa eij" gegonovta
bebaiovtera. [Hdh oJ jApollwv", peri; ou| givnetai lovgo" ejn
th/' pro;" Korinqivou" A' ejpistolh/' tou' ajpostovlou
Pauvlou, h[rcise na; qewrh/' ejpi; to; filosofikwvteron to;n cristianismovn, oJ
de; ajpostovlo", eij kai; yevgwn ta;" ejk touvtou proelqouvsa"
diairevsei", ajfh'ken o{mw" eij" to;n crovnon na; ajpokaluvyh/
th;n ajxivan tw'n filosofikw'n ejkeivnwn didaskaliw'n o{sai ejpw/kodomou'nto
ejpi; tou' qemelivou th'" cristianikh'" pivstew". Kai; plei'stoi
me;n h[kmasan cristianoi; filovsofoi kata; ta;" trei'" prwvta"
eJkatontaethrivda", oJ jIousti'no" oJ mavrtu", oJ
jAqhnagovra", oJ Tatianov", oJ Pavntaino", oJ Mavximo" kai;
a[lloi. jIdivw" d'a[xia mneiva" eijsi;n o{sa ejn th/'
deutevra/ eJkatontaethrivdi oJ jIousti'no" oJ mavrtu" levgei peri;
filosofiva". «Oujk ajllovtriav ejsti pavnth o{moia, w{sper
oujde; ta; tw'n a[llwn stw:i:kw'n te kai; poihtw'n kai; suggrafevwn:
e{kasto" gavr ti" ajpo; mevrou" tou' spermatikou' qeivou lovgou
to; ;suggene;" oJrw'n kalw'" ejfqevgxato (...) o{sa ou\n para; pa'si
kalw'" ei[rhtai hJmw'n tw'n cristianw'n ejstiv». Kai; ajxiomnhmovneuto"
ei\nai wJsauvtw" oJ Jtrovpo" di’ ou| w{rizen ejn th'/ trivth/
[43]Ibid., p. 76 ss.; BOWERSOCK, Julian Poems, p. 95. Per quanto riguarda la cura dei dettagli, vi è una poesia, pubblicata nel 1921, Tecnourgo;" krathvrwn (Artefice di crateri), nella quale - forse meglio che in altre liriche di Kavafis - appare chiaro quali effetti egli raggiunge grazie alla meticolosità dedicata ai particolari. Gli ultimi due versi ci offrono la esatta collocazione cronologica (175 a. C.) trasportandoci al regno di Antioco Epifane, ma la poesia è pseudo-storica: un artista contempla un cratere che ha appena modellato nell'argento purissimo e sul quale ha cesellato erbe, ruscelli, splendidi fiori, e nel mezzo ha effigiato un bel giovane, nudo, sensuale, con una gamba immersa nell'acqua. L'artista, però, ha dovuto supplicare la Memoria di aiutarlo affinché egli potesse riprodurre fedelmente il volto del giovane che amò. Tuttavia la difficoltà era grande perché quasi quindici anni eran trascorsi dal giorno in cui quest'ultimo era caduto combattendo sul campo fatale della battaglia di Magnesia.
Precisamente la solerte attenzione che Kavafis prestò alla funzione dei particolari, per quanto apparentemente insignificanti, conferì a gran parte della sua opera artistica tratti caratteristici inconfondibili.
[77]«Oujdemiva
tw'n tou' jIoulianou' diatavxewn hjduvnato na; katafevrh/ eij" to;n cristianismo;n
plhgh;n barutevran kai; oujdemiva ejkivnhse pikrovteron th;n ajganavkthsin tw'n
cristianw'n. Lamprw'" d'ejxedhlwvqh hJ
ajganavkthsij" au[th uJpo; Grhgorivou tou' Nazianzhnou', dia;
th'" perifhvmou aujtou', ejn tw/' sthliteutikw/' a' kata; jIoulianou'', ajpostrofh'",
h{ti" ajrcoumevnh dia; tw'n levxewn ‘pollw'n
ga;r kai; deinw'n o[ntwn ejf' oi|"
ejkei'no" misei'sqai dikaivw", oujk e[stin o{, ti ma'llon h] tou'to
paranomhvsa faivnetai’,
ejxakolouqei' mevcri tevlou" tou' 'lovgou, katadeiknuvousa th;n
ajparaivthton ajnavgkhn th'" tou' cristianismou' meta; tou' ajrcaivou
eJllhnismou' summaciva". Proevkeito tw/ovnti na; kaqierwqh/' to;
diazuvgion tou' nevou dovgmato" ajpo; tou' ajrcaivou eJllhnismou' kai; na;
ajnatraph/' ou[tw ejk bavqrwn hJ miva tw'n duvo bavsewn ejf' w|n de;n e[pausen e[ktote ejreidovmeno" oJ
newvtero" eJllhnismov".
[109]Ma possibile mai che rinnegassero / la loro vita splendida, la varietà dei loro / quotidiani diletti, il loro fulgido / teatro, dove l'Arte era una cosa sola / con i trasporti erotici? // Immorali lo erano, non poco (forse molto). / Pure, avevano un vanto: quella vita / era la decantata vita d'Antiochia, / di voluttà, di gusto inimitabile. / E ora, rinnegare tutto? E dove rivolgersi? // Ai vaniloqui sugli dei falsi e bugiardi, / alle sue ciance uggiose su se stesso, alla puerile fobia del teatro, alla sua / austerità sgraziata, alla barba ridicola? // Oh, certo, meglio il Chi. / Oh, certo, meglio il Cappa. Cento volte.
[142]LIDDELL, Biography, p. 195. Cf. MARCO ANNEO LUCANO, Farsaglia, libro I, vv. 125-128:
Nec quemquam iam ferre potest Caesarue priorem / Pompeiusue parem. Quis iustius induit arma? / scire nefas; magno se iudice quisque tuetur: / uictrix causa deis placuit, sed uicta Catoni.
[149]Se, frantumati i loro simulacri, / noi li cacciammo via dai loro templi, / non sono morti per ciò gli dei. / O terra della Ionia, ancora t'amano, / l'anima loro ti ricorda ancora. / Come aggiorna su te l'alba d'agosto, / nell'aria varca della loro vita un èmpito, / e un'eterea parvenza d'efebo, / indefinita, con passo celere, / varca talora sulle tue colline.