COSTANTINO KAVAFIS E LA TRASFIGURAZIONE POETICA  DELL'ELLENISMO*

 

 

    Kavafis fu sempre orgogliosamente memore della discendenza fanariota che gli derivava dalla famiglia materna, ma non dimenticò mai le origini asiatiche che gli derivavano da quella paterna. Resosi assai presto conto della realtà delle proprie origini e della propria condizione, e lungi dall'essere intimorito o dal sentirsi sminuito da questa bastardy, il poeta reagì a essa trasformandola in una delle principali fonti di ispirazione per i propri versi. Tale reazione non influì solo sulla sua creazione artistica, ma anche sul suo concetto dell'ellenismo, sul volersi e sentirsi non e{llhn (elleno) ma eJllhnikov" (ellenico) e, di conseguenza, sul modo di guardare alla Grecia. Tuttavia, per approdare a una simile coscienza di sé, Kavafis doveva scoprire una visuale appropriata, una prospettiva peculiare dalla quale, al momento opportuno, sarebbe stato in grado di scorgere, in una città di antica fondazione ellenica, sì, ma i cui legami con il passato ellenistico e bizantino erano stati violentemente recisi da secoli, cose precluse ai non iniziati. Ma per Kavafis era sufficiente desiderarlo, e nello scenario cittadino di Alessandria, “ejn mevrei” europeo e “ejn mevrei” orientale, era avvertibile uno “slight angle”, uno squilibrio tra apparenza e realtà, come se una prodigiosa lente d'ingrandimento avesse avvicinato la visione del presente a quella del passato, una lente grazie alla quale l'occhio del Poeta avrebbe messo a fuoco, insieme ai luoghi, anche l'animo dell'uomo quando è solo con se stesso.[1] Era sufficiente desiderarlo, e l'alessandrinismo[2] sussisteva a ogni svolta di viuzza, nelle equivoche taverne del porto, nei crepuscoli orgiastici di San Stefano[3] e nei bordelli misti del Quartier Attarine, il bazàr dei profumi.[4]

 

Sth'" hJdonh'" to; spivti o{tan mph'ka,

de;n e[meina sth;n ai[qousan o{pou giortavzoun

me; kavpoia tavxin ajnagnwrimevnoi e[rwte".

Ste;" kavmare" ejph'fa te;" krufe;"

ki ajkouvmphsa kai; plavgiasa ste;" klive" twn.

 

Ste;" ka;mare" ejph'ga te;" krufe;"

pou; tw[coun gia; ntroph; kai; na; te;" ojnomavsoun.

Ma; o[ci ntroph; gia; mevna giati; tovte

tiv poihth;" kai; tiv tecnivth" qa[moun;

Kallivtera n ajskhvteua. Qa\tan pio; suvmfwno

polu; pio; suvmfwno me; th;n poivhsiv mou:

para; me;" sth;n koinovtophn ai[qousa na; carw'.[5]

 

(“Ki ajkouvmphsa kai; plavgiasa ste;" kli'ne" twn,1915)

 

     Kavafis fu il primo contemporaneo a percepire tale squilibrio che altri dopo di lui  avrebbero percepito. Quel prodigio avvenne allorché il poeta, aristocratico fanariota esule in Alessandria, affacciandosi al balcone del suo appartamento al numero 10 di Rue Lepsius, riuscì a trasfigurare ciò che vedeva della vita dell'Alessandria contemporanea.

 

Kai; bgh'ka sto; mpalkovni melagcolika;

bgh'ka n ajllavxw skevyei" blevponta" toulavciston

ojlivgh ajgaphmevnh politeiva,

ojlivgh kivnhsi tou' drovmou kai; tw'n magaziw'n.[6]

 

(“ jEn eJspevra/”, 1917)

 

    Identificando con gli occhi della sua anima la nostra epoca vacillante con la triste decadenza del mondo antico,[7] fece rispecchiare la storia nelle proprie liriche come quel suo antico “specchio nell'ingresso” che, accogliendo per alcuni fugaci minuti le armoniose sembianze di un ragazzo bellissimo, non aveva rispecchiato che l'alienazione umana, l'immagimne della nostra stessa rovina. La storia, allusivamente trasfigurata, diventò per il poeta lo specchio su cui si rifletteva la sua propria vita confondendosi totalmente con la storia di Alessandria e dell'ellenismo.[8]

 

To; plouvsio spivti ei\ce sth;n ei[sodo

e{nan kaqrevpth mevgisto, polu; palaiov:

toulavciston pro; ojgdovnta ejtw'n ajgorasmevno.

 

 {Ena ejmorfovtato paidiv, uJpavllhlo" se; ravpth

(te;" Kuriake;", ejrasitevcnh" ajqlhtthv"),

stevkontan m e{na devma. To; parevdose

se; kavpoion tou' spitiou', ki aujto;" to; ph'ge mevsa

na; ;;fevrei th;n ajpovdeixi. JO uJpavllhlo" tou' ravpth

e[meine movno", kai; perivmene.

Plhsivase sto;n kaqrevpth kai; kuttavzontan

k e[siaze th;n krabavta tou. Meta; pevnte lepta;

tou' fevran th;n ajpovdeixi. Th;n ph're k e[fuge.

 

Ma; oJ palaio;" kaqrevpth" pou; ei\ce dei' kai; dei',

kata; th;n u{parxivn tou th;n polueth',

ciliavde" pravgmata kai; provswpa:

ma; oJ paliao;" kaqrevpth" twvra caivrontan,

k ejpaivrontan pou; ei\ce decqei' ejpavne tou

th;n a[rtian ejmorfia; gia; merika; leptav.

 

( JO kaqrevpth" sth;n ei[sodo, 1930)[9]

 

    Solo a questo punto egli riuscì a contemplare la storia, l'arte e la sensualità di una città che – per i più – era tutt'altro che una città dello spirito, una città dalle strade tormentate dalla polvere, infestate dalle mosche, gremite di mendicanti e frequentate da quanti conducevano una esistenza intermedia tra le une e gli altri. Una città con una dozzina di religioni, cinque razze e cinque lingue, ma dove vi erano più di cinque sessi che solo il peculiare greco demotico delle liriche di Kavafis era in grado di distinguere.[10]    

    Ma Alessandria poteva riserbare anche gradite sorprese, come imbattersi in quel signore greco con la paglietta, il quale, se gli andava, ti chiamava per nome con voce ferma e insieme meditativa e che, più che attendere una risposta, sembrava rendere omaggio al principio di individualità. Ti voltavi e vedevi Kavafis immobile, in piedi, su uno slight angle rispetto all'universo. Ti tendeva le braccia e capitava che cominciasse una frase  lunga e complicata, benché strutturata con attenzione meticolosa, e ricca di parentesi che non inciampavano mai una nell'altra, ma anche di pudori che erano veri ritegni. Una frase che procedeva logicamente verso una conclusione facile da indovinare, sì, ma al tempo stesso del tutto imprevista. Poteva darsi che trattasse dei dialetti greci parlati nell'interno dell'Asia Minore o del prezzo delle olive, o delle perfide azioni perpetrare da Alessio Comneno nel 1096. Oppure di George Eliot. Ed era enunciata con la stessa disinvoltura in greco, in inglese, in francese. E si capiva che, nonostante la ricchezza intellettuale e la qualità umana dell'interlocutore, nonostante la misurata benevolenza dei suoi giudizi, anch'essa, la frase, si teneva su uno slight agle rispetto all'universo. Era la frase di un poeta.[11]

    È precisamente questo slight angle di cui parla Forster, lo squilibrio, la prospettiva che Kavafis scoprì e dalla quale prese a contemplare Alessandria e la storia della nazione greca, quella storia di cui per tanti anni, nel corso della sua vita, egli aveva udito il delirio senza capirvi nulla. E questa peculiare visione della città si ampliò fino a includere il variegato mondo dell'ellenismo e la sua storia che assunsero, per Kavafis, dimensioni impensabilmente più vaste di quelle proposte dai programmi politici della Megali Idea (la Grande Idea), offrendogli possibilità di sviluppo, libertà di azione e una familiarità inaudite. Il concetto del compimento di tale metamorfosi è espresso in una lirica del 1929, nella quale la città reale, contemporanea, appare già trasformata in una città altra, in una entità che, prendendo le mosse dalla città reale e dal suo passato, si era trasformata in una essenza poetica, storica, culturale e geografica che sarebbe divenuta – una volta filtrata a goccia a goccia attraverso la immaginazione del poeta –, puro sentimento.

 

Oijkiva" peribavllon, kevntrwn, sunoikiva"

pou; blevpw ki o{pou perpatw': crovnia kai; crovnia.

 

Se; dhmiouvrghsa me;" se; cara; kai; me;" se; luvpe":

me; tovsa peristatikav, me; tovsa pravgmata.

 

K aijsqhmatopoihvqhke" oJlovklhro, gia; mevna.[12]

 

(“Sto;n i[dio cw'ro”, 1929)

 

    Il prodigio era avvenuto: l'angustia e la soggettività che caratterizzavano le prime liriche erano superate e ora l'intero mondo dell'ellenismo, e con esso la sua storia, erano completamente a disposizione di Kavafis.

    L'intricato caso della preminenza tra storia e poesia fu affrontato con molta fermezza già da Aristotele quando affermò che la poesia è di maggiore fondamento teorico e più importante della storia, giacché la poesia dice gli universali, la storia i particolari.[13]

    Che la poesia sia più profonda e più filosofica della storia è evidente, sia perché il vero poeta possiede doti che, comunemente, lo storico non ha, sia perché la poesia ha il potere di creare sensazioni ed effetti assai più sublimi di quelli della storia. La poesia può rendere irreale la realtà, può conferire alle cose vicine il distanziamento onirico di ciò che ormai appartiene al passato, e può avvicinarci al passato come se  fosse a portata di mano.

    Kavafis è stato forse uno dei massimi studiosi dell'ellenismo. Con il suo sguardo esaminatore ed erudito ne percorse tutti i periodi, attingendo a essi, con grande perizia, alcuni momenti significativi. Ma creò anche, con la propria fantasia, epoche di gloria o di sconfitta, donandocene, con il suo linguaggio semplice ma suggestivo, un gusto tanto intenso da farci avere la sensazione di trovarci là, compartecipi degli avvenimenti o delle situazioni che egli faceva abilmente emergere dai recessi dell'ellenismo. Dell'ellenismo, non della romiosìni, cioè la Grecia propriamente detta. Per Kavafis la Grecia non esisteva, esisteva il mevga panellhvnion, l'immenso spazio greco dello spirito, che fu per molto tempo il sale della terra.[14]

    Premesso ciò, vorrei richiamare l'attenzione su due brevi dichiarazioni – registrate da autorevoli testimoni –, pronunziate da Kavafis nella libreria Grammata di Stefano Pargas[15] la quale era, nel periodo in questione, il luogo di ritrovo prediletto dagli intellettuali alessandrini. La prima fu udita da G. Lechonitis tra il 1923 e il 1933, la seconda dalla signora Eftichìa Zelita, lunedì 8 aprile 1929. Entrambe le affermazioni, quindi, risalgono agli ultimi anni della vita del Poeta, ed entrambe esprimono pressoché gli stessi concetti, il più rilevante dei quali è costituito dall'affermazione: «Ei\mai poihth;" iJstorikov"[16]    

    Nel 1930 la rivista letteraria Alexandrinì Techni pubblicò una nota non sottoscritta, ma suggerita ai redattori della rivista da Kavafis stesso, con la quale egli divideva la propria opera artistica in poesie filosofiche, storiche ed erotiche, avvertendo, tuttavia, che le poesie storiche sovente si intrecciano con quelle erotiche al punto da renderne la classificazione difficile ma non impossibile.[17] E in realtà, molte liriche appartengono simultaneamente a tutte e tre le categorie. Il fatto che questa nota, così come i due brani di conversazione cui aabiamo accennato poc'anzi, risalgano tutti agli ultimi anni di vita del poeta, mette in evidenza tutta la tenacia con cui egli cercò la propria strada e quanto tempo gli occorse per trovarla. Kavafis, infatti, cosciente di ciò, soleva ripetere: «Ei\mai poihth;" tou' ghvrato".»[18] Ed è vero che se Kavafis, nelle poesie giovanili e anche in molte di quelle scritte intorno alla quarantina, non è originale,  mostrerà tutta la propria originalità in quelle della vecchiaia.[19]

    A questo punto sono necessarie alcune precisazioni sulle poesie cosiddette storiche di Kavafis. Nel corso degli anni gli studiosi della sua opera hanno coniato numerosi termini per cercare di classificare ulteriormente tali liriche usando, di volta in volta, termini quali poesie storiche, semi-storiche, para-storiche, apparentemente storiche, storiogeniche, per menzionarne solo alcuni.[20] Poiché a mio parere  questa molteplicità terminologica, oltre a essere eccessiva, non giova affatto a illuminare la categoria di queste liriche, proponiamo di usare esclusivamente due termini: poesie storiche e poesie pseudo-storiche. Il primo termine, come abbiamo visto, fu coniato da Kavafis medesimo, mentre il secondo fu usato per la prima volta da Seferis per indicare quelle liriche in cui la storia viene utilizzata metaforicamente, allegoricamente, vale a dire in maniera fittizia, perché in esse Kavafis non affronta il materiale storico quale poeta storico, bensì quale poeta filosofico-didattico.[21]

    D'ora in avanti, con il termine di poesie storiche, intenderò esclusivamente quelle che posseggano almeno una delle seguenti caratteristiche:

– presenza di uno o più personaggi storici;

– possibilità di verificare la collocazione cronologico-geografica dell'episodio della poesia tramite i mezzi e i metodi scientifici di cui si avvale lo storico accademico;

– dipendenza del testo della poesia da una autorevole fonte storico-letteraria.

    Kavafis era solito affermare di non poter scrivere romanzi o commedie, ma che sentiva dentro di sé centoventicinque voci gridargli che avrebbe potuto scrivere storia.[22] In realtà egli non scrisse mai storia o, più esattamente, trattati di storia, che sono compito esclusivo dello storico accademico. Non molti però sanno che una volta egli fu insegnante di storia bizantina. Nel 1983 la rivista letteraria ateniese Chartis pubblicò un numero speciale in occasione del cinquantenario della morte del poeta. E tra i vari articoli ve n'era uno, assai breve, ma forse più commovente degli altri per la spontaneità del tono. Si trattava di una intervista rilasciata da Costantino Ftiaràs, un professore di lettere ormai in pensione.

    Egli era nato a Kastellòrizon – l'isola più orientale del Dodecanneso, la Castelrosso dei veneziani e dei genovesi –, nel 1903, ma subito dopo la sua nascita si trasferì con la famiglia ad Alessandria dove, più tardi, frequentò le scuole elementari e il liceo. Verso il 1920, Ftyaràs e un gruppo di giovani amici fondarono un circolo culturale a cui faceva capo anche la rivista Argò che pubblicava, tra l'altro, poesie di Kavafis e di Palamàs tra i quali, incidentalmente, non vi fu mai ammirazione reciproca. Kostìs Palamàs era considerato, nel periodo in questione, il più grande poeta greco e la sua produzione letteraria, sia in poesia che in prosa, era sterminata, specialmente se paragonata a quella quantitativamente esigua di Kavafis. Questi partecipava di tanto in tanto alle riunioni letterarie di Argò, e quando parlava degli altri poeti usava espressioni come: « jEgw; de;n ei\mai bevbaia Palamav"... to; potavmi aujtov... ejgw; kavqe e{xi mh'ne" bgavzw kanevna poihmatavki...».[23] Alcuni anni più tardi Ftyaràs conobbe personalmente Palamàs il quale, dopo aver letto una delle poesie bizantine di Kavafis, “ jAnna Dalasshnhv”, aveva esclamato: «Ma; twvra ei\nai poivhma aujto; h] koroi>diva;».[24] Compiuti gli studi universitari ad Atene, Ftiaràs ritornò ad Alessandria nel 1928 e, come professore, ebbe l'incarico di insegnare storia bizantina in un liceo. Spaventato da quella incombenza e ricordatosi che una volta Kavafis gli aveva detto: «Io sono per quarto quarti bizantino e per tre quarti alessandrino»,[25] decise di rivolgersi al Poeta il quale si mostrò subito disponibile ad aiutarlo. Il corso privato di storia bizantina ebbe inizio, e Ftiaràs, insieme a un suo amico, un certo Chatzilìas, seguirono per un intero anno scolastico le lezioni del poeta storico Kavafis. I due giovani si recavano a casa sua due volte la settimana e gli dicevano qual era il periodo della storia bizantina che dovevano approfondire, e lo seguivanoa bocca aperta: entrava subito in argomento, per tutta la durata della lezione non parlava d'altro, riusciva a rendere lo spirito del periodo storico che trattava con grande abbondanza di particolari. Faceva storia pura.[26]

    Kavafis, dunque, volendosi poeta storico nella maniera più rigorosa, faceva grande uso dei mezzi e dei metodi che di solito sono monopolio dello storico accademico, quali la ricerca accurata, la meticolosa verifica delle fonti, oppure si avvaleva di scienze che un tempo erano definite ausiliarie della storia, quali la numismatica e l'epigrafia, intese come mezzi atti a procurare una migliore intelligenza della storia tramite una conoscenza più approfondita di alcuni aspetti delle civiltà antiche. Tali metodi e strumenti non rientrano certo nelle attività specifiche dei poeti. Kavafis, invece, se ne servì così profusamente e in modo tanto rigoroso che questo rigore scientifico conferisce alla sua creazione artistica tratti caratteristici inconfondibili.

    Una poesia-epitafio, pubblicata nel 1917, mostra assai efficacemente con quanta maestria il poeta usasse alcuni degli strumenti che sono appannaggio dello storico accademico, nella fattispecie i canoni dell'epigrafia impiegati per decifrare un testo antico integrandone eventuali lacune. Questa lirica, tutta pervasa di alessandrina grazia, è una splendida dimostrazione del poeta storico al lavoro. Questo metodo, rischioso e virtualmente infecondo nelle mani di un poeta qualsiasi, divenne, in quelle di Kavafis, un elemento che contribuì grandemente alla creazione di un'opera alquanto originale: mentre il poeta-storico-epigrafista procede con difficoltà alla integrazione delle lacune testuali sulla pietra tombale infranta a metà – frattura resa ancor più realistica dallo stratagemma cavafiano di separare i versi in due emistichi – la decifrazione dell'epigrafe coincide con la composizione della lirica. Conformemente a quanto detto poc'anzi, questa non può essere considerata una poesia storica poiché non vi sono gli elementi per definirla tale. È tuttavia interessante che essa non potrebbe essere stata composta senza l'uso dei metodi che l'epigrafia mette a disposizione dello storico accademico.

 

EN TWi MHNI AQUR      

 

Me; duskoliva diabavzw     sth;n pevtra th;n ajrcaiva

«KU[RI]E IHSOU CRISTE».    {Ena «YU[C]HN» diakrivnw.

«EN TWi MH[NI] AQUR»    «O LEUKIO[S] E[KOIM]HQH».

Sth; mneiva th'" hJlikiva"    «EBI[WS]EN ETWN»,

To; Kavppa Zh'ra deivcnei    pou; nevo" ejkoimhvqh.

Me;" sta; fqarmevna blevpw    «AUTO[N] ... ALEXANDREA».

Meta; e[cei trei'" gramme;"    polu; ajkrwthriasmevne":

ma; kavti levxei" bgavzw     sa;n «D[A]KRUA HMWN», «ODUNHN»,

katovpin pavli «DAKRUA»,   kai; «[HM]IN TOIS [F]ILOIS PENQOS».

 

Me; faivnetai pou; oJ Leuvkio"    megavlw" q'ajgaphvqh.

 jEn tw/' mhni; jAqu;r    oJ Leuvkio" ejkoimhvqh.[27](21)

    Nel 1892 Kavafis scrisse due articoli, pubblicati sul quotidiano alessandrino Tilègrafos, rispettivamente nell'aprile e nel luglio di quello stesso anno. Il primo, intitolato OiJ Buzantinoi; Poihtaiv (I poeti bizantini),[28] (22) era una critica assai favorevole ad un compendio della prima edizione del 1891 della Storia della letteratura bizantina di Karl Krumbacher, eseguito dal bizantinista greco D. Vikelas, e pubblicato in francese sulla Revue des Deux Mondes. Kavafis faceva notare ai lettori del Tilègrafos di aver raccolto le informazioni per il proprio articolo sia dal compendio di Vikelas, sia ejx ajllakovqen, locuzione avverbiale dietro la quale si celava la JIstoriva tou' JEllhnikou' [Eqnou" di Costantino Paparrigòpulos, e proseguiva asserendo che:

 

    «OiJ Buzantinoi; ajoidoi; ma'" ejndiafevrousi zwhrovtata, diovti ajpodeiknuvousin o{ti hJ eJllhnikh; luvra ouj movnon de;n ejqrauvsqh, ajlla; kai oujdevpote e[pausen ajnapevmpousa h[cou" glukei'". OiJJJ Buzantinoi; ajoidoi; ajpotelou'si to;n suvndesmon metaxu; th'" dovxh" tw'n ajrcaivwn ma" poihtw'n kai; th'" cavrito" kai; tw'n crusw'n ejlpivdwn tw'n sugcrovnwn.»[29]

 

    Dopo brevi cenni a vari poeti quali Nonno di Panopoli e Teodoro Prodromo, troviamo, menzionato qui per la prima volta da Kavafis, Gregorio di Nazianzo, discusso autore del Cristo;" Pavscwn, opera che il Poeta alessandrino definiva «e[rgon me; ajxiva» (opera di valore). Ma poiché Krumbacher faceva iniziare la storia della letteratura bizantina dal regno di Giustiniano (527-565), Kavafis affermava di essere d'accordo con Vikelas nel considerare inizio di tale letteratura il IV secolo che, oltre tutto, coincide anche con la fondazione di Costantinopoli. Kavafis, affermando ciò, non solo dichiarava di considerare greco l'Impero bizantino fin dalla fondazione della Nuova Roma, ma rivelava assai precocemente il suo interesse per il IV secolo, interesse al quale egli sarebbe rimasto fedele per tutta la vita. Dopo aver accennato rapidamente ai poeti appartenenti al periodo trascurato da Krumbacher, il poeta ritornava a Gregorio di Nazianzo dichiarando che la sua poesia cristiana, ammirata da dotti di ogni epoca, era paragonabile a quella di Lamartine e, a sostegno di tale tesi, citava un passo della Storia di Paparrigòpulos:

 

    «Ta;; e[ph tau'ta wjnomavsqhsan uJpo; th'" newtevra" kritikh'" Qrhskeutikai; Melevtai ejx ajnalogiva" tw'n Poihtikw'n Meletw'n tou'... Lamartivnou: diovti tw/ovnti megavlh me;n uJpavrcei diafora; metaxu; th'" fuvsew" tw'n duvo poihtw'n kai; kai; tw'n crovnwn kaq'ou}" eJkavtero" e[zhsen, oujde;n h|tton o{mw" parethrhvqh eujlovgw", o{ti ta; tou' Grhgorivou e[ph e[cousi pollavki" paravdoxon oijkeiovthta pro;" ta;" periplanhvsei" th'" fantasiva" tou' poihtou' ejkeivnou th'" skeptikh'" kai; kovrou mesth'" hJlikiva" tou' aijw'no" hJmw'n. JUpavrcousi mavlista tina; tw'n ejpw'n touvtwn ta; oJpoi'a  oJ peri; ta; toiau'ta tosouvtwn e[mpeiro" Ouj:i:llemai'no" de;n ejdivstase na; ajpokalevsh/ prodrovmou" tw'n qelktikwtevrwn stenagmw'n th'" melagcolikh'" tw'n kaq'hJma'" crovnwn mouvsh", eij kai; ajpopnevonta pivstin eijsevti neara;n kai; ajfelh'  ejn tw/' qoruvbw/ auth'". Eij" ta; e[ph tau'ta ejpanqei' ejpafrovditovn ti mi'gma ajfh/rhmevnwn ijdew'n kai; pragmatikw'n sugkinhvsewn, gohteutikh; dev ti" ajntivqesi" tw'n kallonw'n th'" fuvsew" pro;" th;n tarach;n kardiva", h{ti", basanizomevnh uJpo; tou' aijnivgmato" th'" uJpavrxew" hJmw'n, zhtei' katafuvgion ejn th/' pivstei.»[30] (24)

 

    Auspicando che anche un greco si mettesse al più presto all'opera per descrivere la raffinata bellezza della letteratura bizantina, Kavafis concludeva l'articolo con un inno alla genialità dell'ellenismo usando l'espressione «megalofui?a tou' gevnou" ma"» (genialità della nostra stirpe). Paputsakis per primo osservò che l'uso dell'aggettivo possessivo di prima persona plurale, con particolare riferimento a Bisanzio e alla sua storia,[31](25)  acquisisce un particolare valore affettivo per Kavafis. Anche l'altro articolo, intitolato To; Mousei'on ma"[32] (26) era contraddistinto da espressioni di orgogliosa ammirazione per tutto ciò che riguardava la civiltà e la cultura dell'Egitto bizantino.

         Nel 1963 M. Peridis pubblicò una nota – fino ad allora inedita –, che il Poeta aveva scritto in inglese intorno al 1900 quale confutazione di taluni termini usati dallo storico britannico J. Bury nella sua History of the Later Roman Empire from Arcadius to Irene (395 A. D. to 800 A. D.), uscita nel 1891. In questa opera lo storico inglese chiama ‘Romans’ gli abitanti della parte sud-orientale della penisola balcanica e ‘Roman’ l'Impero orientale. Il fervore e la cognizione di causa con cui Kavafis confuta Bury sono commoventi e dimostrano, una volta di più, fino a qual punto egli avesse assimilato gli insegnamenti di Costantino Paparrigòpulos:[33]   (27)

 

    «Neither advisable, nor necessary. States should be given – when the historian has the option - the appelation which best conveys an idea of their composition and their language. After the 5th century – and perhaps after the 7th – ‘Roman’ becomes a misleading term. The Empire was not ‘Roman’ ethnically; it was not ‘Roman’ by language; it was not called ‘Roman’ by the contemporary European nations.

    The Greeks, it is true, called themselves ‘Romaioi’ in order to avoid the name of the ‘Hellene’ which denoted the idolater. Later, from the 13th century and on into the 15th, when the connection between ‘Hellenism’ and paganism grew less present, the old name reappears in some chronographers, and even the Byzantine Monarch is occasionally called by them – like the actual Greek king – ‘Basileus Hellenon’.

    Besides, the assumption, from religious motives, of the name of ‘Romaioi’ by the Greeks is not a sufficient reason to label seven centuries of South European history with a designation which is confusing to those who are unacquainted or but little acquainted with that long period, and which will be found unscientific by those who are conversant with it. The historian should endeavour to use accurate and clear terms. ‘Roman’ conveys to us the idea of a Latin-speaking people, dwelling in or originating from Italy (and, politically, the predominance or rule of such a people, as in the last ages of the Republic and the first centuries of the Empire, over foreign nations). ‘Greek’ conveys to us the idea of a Greek-speaking people dwelling in or originating from the Southern part of the Balkan Peninsula, the islands of the Eastern Mediterranean, and Western Asia Minor. (The name Roman can also be extended to a latinised, and the name Greek to a hellenised population). The Eastern section of what had been the Roman Empire contained, after the 7th or 8th century, almost none of the former element; it consisted almost entirely of the latter. If we wish to write history carefully – noticing the changes effected by time, and making them evident in our terms – we should call that section the Greek Empire; or then the Byzantine, which connotes the same meaning, and which is a designation in use among the Greeks of to-day, who should be accounted fair authorities on their past by reason of that discriminating capacity which races derive from familiarity with the trend of their national life.»[34](28)

 

    Nel 1930 la casa editrice alessandrina Grammata pubblicò il secondo e ultimo volume di un'opera di Atanasio G. Politis, intitolata JO JEllhnismo;" kaiJ hJ Neotevra Ai{gupto". Dieci delle trentaquattro pagine dedicate alle attività intellettuali dei greci d'Egitto sono dedicate a Kavafis, e poiché è stato accertato che fu Kavafis stesso a fornire a Politis il materiale per la stesura di quel testo, riteniamo che esso costituisca una testimonianza di straordinario interesse.[35] Vi si legge, tra l'altro, che Kavafis, all'inizio della sua carriera artistica, aveva scelto il periodo bizantino per ambientarvi le proprie liriche, ma che più tardi lo aveva abbandonato in favore di quello ellenistico. Ma tale decisione non fu irrevocabile, dal momento che alcune delle più significative poesie storiche di Kavafis sono bizantine e risalgono agli ultimi anni della vita del Poeta. Infatti l'ultima poesia che egli compose nel 1933, “Eij" ta; perivcwra th'" jAntioceiva"”, è una poesia bizantina.

    L'interesse del Poeta per la storia bizantina, iniziato assai presto durante il suo soggiorno costantinopolitano, si intensificò nel corso degli anni '90 del 1800. Risalgono a questo periodo non solo i già citati articoli sui poeti bizantini, sul museo di Alessandria e la nota critica all'opera di Bury, ma anche le note di lettura che egli appose al Decline and Fall di Edward Gibbon,[36] (30) molte delle quali erano il risultato del confronto tra le teorie di Gibbon e quelle dello storico della nazione greca Costantino Paparrigòpulos. Savvidis ha dimostrato che tali note furono scritte tra il 1896 e il 1899,[37] (31) e rivelò inoltre che nel cosiddetto Archivio Kavafis esistevano liste autografe di liriche suddivise per cicli, o capitoli tematici, reminiscenti per lo stile – e forse non fortuitamente –, dei Poèmes antiques (1852), Poèmes barbares (1862), Poèmes tragiques (1884) e dei Derniers poèmes (1895) di Charles-Marie Leconte de Lisle (1818-1894).[38] (32)I  titoli dei capitoli tematici di Kavafis sono i seguenti:

 

jArcaivai JHmevrai (Giorni antichi)

AiJ Arcai; tou' Cristianismou' (Gli inizi del cristianesimo)

Buzantinai; JHmevrai (Giorni bizantini)

JO [Arcwn th'" JHpeivrou (Il principe dell'Epiro)

Pavqh (Passioni)

[Eth pteroventa (Anni alati)

Fulakai; (Prigioni)

JH tevnch ma" (La nostra arte)

Trei'" eijkovne" (Tre immagini).[39] (33)

 

    Delle poesie i cui titoli sono elencati sotto il capitolo tematico “Buzantinai; JHmevrai” ci sono pervenute soltanto l'imperfettaPro; th'" JIerousalhm” di cui ignoriamo la data di composizione, e l'ineditaQeovfilo" Palaiolovgo"”, composta nel marzo 1903, con la quale Kavafis ci conduce al momento supremo di Costantinopoli. Ritengo tuttavia opportuno elencare anche i titoli delle poesie non pervenuteci, poiché rivelano quali erano i personaggi e gli avvenimenti storici a cui erano rivolte le sollecitazioni del poeta:

 

Eujdoxiva" [Eudokiva"] Auj[gouvsta"] {Epaino"

JH ejpi; Eijrhvnh" ajnasthvlwsi" tw'n eijkovnwn

Kavrolo" oJ Mevga"

AiJ ajxiwvsei" tou' Pavpa

JH ajnavkthsi" th'" Krhvth"

Pro; th'" jIerousalh;m

JH a[lwsi" th'" Nivkaia" [Nikopovlew"]

JO kalo;" [kako;"] iJppovth"

JO cremetismo;" tou' i{ppou

JO Gra[aiko;"] str[athgov"].[40] (34)

 

    Quanto al capitolo tematico “AiJ jArcai; tou' Cristianismou'”,[41] (35) vi sono elencati i titoli di sei poesie delle quali una soltanto ci è pervenuta, l'inedita JO jIouliano;" ejn toi'" Musthrivoi"” composta nel 1896, mentre un altro titolo, “ JO Stauroj"”, si riferisce a una lirica composta nel 1892, revisionata nel 1917 e che costituiva verosimilmente la prima stesura di “Megavlh sunodeiva ejx iJerevwn kai; la:i:kw'n”, pubblicata nel 1926. (36) Possiamo quindi far coincidere l'esordio della tematica bizantina nell'opera artistica di Kavafis con “ JO jIouliano;" ejn toi'" Musthrivoi"” che costituisce, inoltre, l'avvio di quello che può esser considerato il ciclo poetico cavafiano più importante dal punto di vista quantitativo, vale a dire quello concernente Giuliano l'Apostata e, di conseguenza, il IV secolo e il conflitto tra pagani e cristiani.

    Irresistibilmente attratto dai periodi di transizione e di crisi, Kavafis lo fu ancor di più negli ultimi anni della sua vita. L'imperatore Giuliano, che i Padri della Chiesa soprannominarono con evidente disprezzo ajpostavth" (apostata) e parabavth" (trasgressore), è uno dei personaggi più tragici della storia, e il periodo in cui visse fu uno dei più drammatici. Nel corso di esso il cristianesimo, ormai consolidatosi, e il paganesimo agonizzante, si scontravano dando luogo a tensioni che, se avevano molto peso sul piano politico, ideologico e religioso dello Stato, potevano creare situazioni dolorose anche sul piano della vita individuale. Due poesie pseudo-storiche, composte entrambe nel 1926, dànno una immagine assai chiara sia della temperie che molto verosimilmente doveva esser piuttosto frequente in quel periodo, ma anche delle terribili scissioni che i conflitti religiosi potevano causare nell'animo degli individui.

    La prima di queste liriche è intitolata “ JIereu;" tou' Serapivou”. Nonostante la pseudo-storicità della lirica sia evidente, è possibile stabilire sia un terminus ante quem che un terminus post quem poiché sappiamo che il Serapeo, fatto costruire in Alessandria da Tolomeo Sotere nel III secolo a. C., venne distrutto sotto Teodosio nel 392 d. C. L'interlocutore della poesia, un fervente cristiano, piange il buon vecchio padre morto due giorni innanzi, all'alba, il quale da vivo aveva sempre amato il figlio a dispetto di tutto, però era stato sacerdote del tempio di Serapide, e questo è sufficiente a scatenare nella coscienza del figlio cristiano terribili sensi di colpa che gli fanno invocare Gesù Cristo affinché lo aiuti a rimaner fedele alla Sua santa Chiesa; eppure il giovane non può fare a meno di piangere la morte del suo genitore sebbene questi fosse stato sacerdote in un esecrando tempio pagano. E a questo punto vien fatto di pensare al paradosso insito nel fatto che se da un lato uno dei dieci Comandamenti esorta ad amare il prossimo, dall'altro alcuni brani del Vangelo attribuiti a Gesù sono forieri di messaggi assai diversi.[42] (37)

 

To;n gevronta kalo;n patevra mou,

to;n ajgapw'nta me to; i[dio pavnta:

to;n gevronta kalo;n patevra mou qrhnw'

pou; pevqane procqe;", ojlivgo pri;n caravxei.

 

 

 jIhsou' Cristev, ta; paraggevlmata

th'" iJerotavth" ejkklhsiva" sou na; thrw'

eij" kavqe pravxin mou, eij" kavqe lovgon,

eij" kavqe skevyi ei\n hJ prospavqeia mou

hJ kaqhmerinhv. Ki o{sou" se; ajrnou'ntai

tou;" ajpostrevfomai. jAlla; twvra qrhnw':

ojduvromai, Cristev, gia; to;n patevra mou

m o{lo pou; h[tane frikto;n eijpei'n

sto; ejpikatavraton Seravpion iJereuv".[43](38)

 

    Il titolo della seconda lirica è “ JH ajrrwvstia tou' Kleivtou”.  Anche qui l'atmosfera che si respira è quella caratteristica del IV secolo, e anche in questo caso il dramma è costituito dalla scissione causata nell'animo di un individuo da talune antitesi esistenti tra gli insegnamenti della fede cristiana e talune reminiscenze di riti pagani non completamente sopiti.

 

 JO Klei'to", e{na sumpaqhtiko;

paidiv, perivpou ei[kosi triw' ejtw'n

me; ajrivsthn ajgwghv, me; spavnia eJllhnomavqeia

ei\n a[rrwsto" bareiav. To;n hu'Jre oJ pureto;"

pou; fevto" qevrise sth;n jAlexavndreia.

 

To;n hu'Jre oJ pureto;" ejxantlhmevno kiovla" hjqikw'"

ajp to;n ka:u:mo; pou; oJ eJtai'ro" tou, e{na" nevo" hjqopoiov",

e[pause na; to;n ajgapa' kai; na; to;n qevlei.

Ei\n a[rrwsto" bareiav, kai; trevmoun oiJ gonei'" tou.

 

Kai; mia; grha; uJphrevtria pou; to;n megavlwse,

trevmei ki aujth; gia; th;n zwh; tou' Kleivtou.

Me;" sth;n deinh;n ajnhsuciva th"

sto;n nou' th" e[rcetai e{na ei[dwlo

pou; lavtreue mikrhv, pri;n mpei' aujtou', uJphrevtria,

se; spivti Cristianw'n ejpifanw'n, kai; cristianevyei.

Paivrnei krufa; kavti plakouvntia, kai; krasiv, kai; mevli.

Ta; pavei sto; ei[dwlo mprostav. {Osa quma'tai mevlh

th'" iJkesiva" yavllei, a[kre", mevse". JH kouth;

de;n noiwvqei pou; to;n mau'ron daivmona livgo to;n mevlei

a]n giavnei h] a]n de;n giavnei e{na" Cristianov".[44](39)

 

    Vorrei adesso accennare a un'altra poesia – pseudo-storica nonostante tutto –, poiché riteniamo che, per vari motivi, essa sia una delle più significative tra tutte quelle  ambientate nel IV secolo. Pubblicata nel 1929, è intitolata “Muvrh". jAlexavndreia tou' 340 m. C.”. La presenza nel titolo di un nome proprio, ma soprattutto la rigorosa precisione cronologica e geografica che caratterizza la data, ci potrebbero indurre ad aspettarci la descrizione di un qualche avvenimento storico ben preciso. In fin dei conti nel 340 d. C. vi furono giorni di grandi turbamenti politici e religiosi: i rapporti tra i figli di Costantino il Grande erano inaspriti dalle dispute teologiche sorte tra i seguaci di Ario e quelli di Atanasio; nella primavera di quell'anno Costantino II cadeva in una imboscata tesagli dai soldati del fratello Costante; le due metà dell'Impero si separavano sempre più rapidamente.[45] (40) Giuliano era ancora un fanciullo.

    Il testo della lirica, invece, si riferisce ad avvenimenti fittizi, sì, ma non inverosimili, e la drammaticità è portata all'estremo tramite un crescendo nella descrizione degli effetti provocati dalle conflittualità ideologiche e religiose sul piano dei rapporti personali. L'ignoto interlocutore del tragico monologo è un pagano e Miris, il suo amico morto, era stato cristiano. Nonostante avessero professato religioni diverse, essi avevano condiviso e fruito dei piaceri offerti loro da Alessandria. Miris e il suo amico erano certamente appartenuti entrambi a quell'esiguo tiaso di muhmevnoi, la cui totale dedizione al modo di vita alessandrino avrebbe dovuto renderli immuni dalle pericoli causati dai conflitti religiosi che invece riesconoa prevalere e a separare anche persone che si amano. L'amico di Miris, però, viene sopraffatto dall'atmosfera cristiana che pervade tutta la casa; dalle vecchie prefiche che, con voce sommessa, ricordano di come Miris, il giorno prima di morire, avesse continuamente mormorato il nome di Gesù, stringendo in mano una croce; e poi quei quattro preti che recitavano devotamente incomprensibili preghiere a Gesù e a Maria: tutte queste cose tanto estranee, finiscono per suscitare nell'amico di Miris il terribile sospetto che egli non sia mai stato sincero con lui.  (41)

 

Th;n sumfora; o{tan e[maqa, pou; oJ Muvrh" pevqane,

ph'ga sto; spivti tou, m o{lo pou; to; ajpofeuvgw

na; eijsevrcomai stw'n Cristianw'n ta; spivtia,

pro; pavntwn o{tan e[coun qlivyei" h] giortev".

 

Stavqhka se; diavdromo. De;n qevlhsa

na; procwrhvsw pio; ejntov", giati; ajntelhvfqhn

pou; oiJ suggenei'" tou' peqamevnou m e[blepan

me; profanh' ajporivan kai; me; dusarevskeia.

 

To;n ei[cane se; mia; megavlh kavmarh

pou; ajpo; th;n a[krhn o{pou stavqhka

ei\da kommavti: o{lo tavphte" poluvtimoi,

kai; skeuvh ejx ajrguvrou kai; crusou'.

 

Stevkomoun k e[klaia se; mia; a[krh tou; diadrovmou.

Kai; skevptomoun pou; hJ sugkentrwvsei" ma" k hJ ejkdrome;"

cwri;" to;n Muvrh de;n q ajxivzoun piav:

kai; skevptomoun pou; pia; de;n qa; to;n dw'

sta; wJrai'a ki a[semna xenuvctia ma"

na; caivretai, kai; na; gela', kai; n ajpaggevllei stivcou"

me; th;n teleiva tou ai[sqhsi tou' eJllhnikou' ruqmou':

kai; skevptomoun pou; e[casa gia; pavnta

th;n ejmorfiav tou, pou; e[casa gia; pavnta

to;n nevon pou; lavtreua paravfora.

 

Kavti grhev", kontav mou, camhla; milou'san gia;

th;n teleutaiva mevra pou; e[zhse

sta; ceivlh tou diarkw'" t o[noma tou' Cristou',

sta; cevria tou bastou's e{nan staurov.

Mph'kan katovpi me;" sth;n kavmarh

tevssare" Cristianoi; iJerei'", k e[legan proseuce;"

ejnqevrmw" kai; dehvsei" sto;n jIhsou'n,

h] sth;n Marivan (de;n xevrw th;n qrhskeiva tou" kalav).

 

Gnwrivzame, bebaivw", pou; oJ Muvrh" h\tan Cristianov".

 jApo; th;n prwvthn w{ra to; gnwrivzame, o{tan

provpersi sth;n pareva ma" ei\ce mpei'.

Ma; zou'sen ajpoluvtw" sa;n k ejma'".

 jAp o{lou" ma" pio; e[kdoto" ste;" hJdonev":

skorpw'nta" ajfeidw'" to; crh'ma tou ste;" diaskedavsei".

Gia; th;n uJpovlhyi tou' kovsmou xevnoiasto",

rivcnontan provquma se; nuvctie" rhvxei" ste;" oJdou;"

o{tan ejtuvcaine hJ pareva ma" na; sunanthvsh pareva.

Pote; gia; th;n qrhskeiva tou de;n milou'se.

Mavlista mia; fora; to;n ei[pame

pw;" qa; to;n pavroume mazuv ma" sto; Seravpion.

 {Omw" sa;n na; dusaresthvqhke

m aujtovn ma" to;n ajste:i:smov: qumou'mai twvra.

 \A ki a[lle" duo; fore;" twvra sto;n nou' mou e[rcontai.

 {Otan sto;n Poseidw'na kavmname spondev",

trabhvcqhke ajp to;n kuvklo ma", k e[streye ajllou' to; blevmma.

 {Otan ejnqousiasmevno" e{na" ma"

ei\pen, JH suntrofiav ma" na\nai uJpo;

th;n eu[noian kai; th;n prostasivan tou' megavlou.

tou' panwraivou jApovllwno" yuquvrisen oJ Muvrh"

(oiJ a[lloi de;n a[kousan) «th/' ejxairevsei ejmou'».

 

O Cristianoi; iJerei'" megalofwvnw"

gia; th;n yuch; tou' nevou devontan.

Parathrou'sa me; povsh ejpimevleia,

kai; me; tiv prosoch;n ejntatikh;

stou;" tuvpou" th'" qrhskeiva" tou", eJtoimavzontan

o{la gia; th;n cristianikh; khdeiva.

K ejxaivfnh" me; kuriveue mia; ajllovkoth

ejntuvpwsi". jAovrista, aijsqavnomoun

sa;n na[feugen ajpo; kontav mou oJ Muvrh":

aijsqavnomoun pou; ejnwvqh, Cristianov",

me; tou;" dikouv" tou, kai; pou; gevnomoun

x ev n o " ejgwv, x ev n o "  p o l uv: e[noiwqa kiovla

mia; ajmfiboliva na; me; simwvnei: mhvpw" k ei\ca gelasqei'

ajpo; to; pavqo" mou, kai; p av n t a   tou' h[moun xevno".

Petavcqhka e[xw ajp to; friktov tou" spivti,

e[fuga grhvgora pri;n aJrpacqei', pri;n ajlloiwqei'

ajp th;n cristianosuvnh tou" hJ quvmhsh tou' Muvrh.[46]

 



* Questo saggio fa parte di un più vasto lavoro intitolato Kavafis e Bisanzio.

 

[1]O. VOTSI, Livga gia; to;n Kabavfh, in Mevre" tou' poihth' K. P. Kabavfh, Tetravdia Eujquvnh 19, Atene, 1992, p. 34.

 

[2]Per una definizione del concetto di alessadrinismo con specifici riferimenti a Kavafis e alla sua opera, cfr. F. GOLFFING, The Alexandrian Mind: Notes Toward a Definition, in The Mind and Art of  C. P. Cavafy, Athens 1983, pp. 115-16.

 

[3]Località sulla costa, sede di un elegante casinò.

 

[4]Costretto dai pregiudizi a celare le proprie tendenze omosessuali, di notte Kavafis frequentava i bordelli misti del Quartier Attarine. Egli ci introduce nel quartiere proibito di Alessandria con una poesia inedita, composta nel febbraio 1904, intitolata “Sulle scale” ( jAnevkdota, pp. 141, 238) ma anche in questo caso, come altrove, si tratta di contatti sfuggenti, di amori inappagati. Tuttavia l'atmosfera è quella che caratterizzerà molte delle liriche erotiche e che sarà trasposta anche in altre città appartenenti al mondo dell'ellenismo kavafisiano. Basti pensare al quartiere «che vive solo la notte»  a Seleucia in “ {Ena" qeov" twn”. Cfr. T. MALANOS, JO poihth;" K. P. Kabavfh" -J JO a[nqrwpo" kai; to; e[rgo tou, Atene 1957, p. 17; E. KEELEY, Cavafy's Alexandria: Study of a Myth in Progress, Massachusetts 1977, pp. 8, 49, 51-51.

 

[5]Le poesie di Kavafis citate in italiano nel presente saggio sono offerte nella traduzione di F. M. Pontani. «E SU QUEI LETTI MI DISTESI E GIACQUI. Com'entrai nella casa del piacere, / non restai nella sala ove gli amori / ammessi fanno una sagra decente. // Andai verso le camere segrete / e su quei letti mi distesi e giacqui. // Andai verso le camere segrete / la cui sola menzione fa vergogna. / Ma non per me vergogna - che poeta,  / che artefice sarei? / Meglio una vita ascetica: più consona / alla poesia, molto più consona / che nella sala comune del tripudio.»

 

[6]«di sera. Ed uscii sul balcone, malinconicamente, / per mutare pensieri, / mirando un po' della città diletta, un poco / di moto della strada e dei negozi.»

 

[7]K MITSAKIS, JO K. P. Kabavfh" kai; hJ parakmh; tou' dutikou' kovsmou'';; in Mevre" tou' poihth' K. P. Kabavfh, Tetravdia Eujquvnh", 19, Atene 1992, p. 112.

 

[8]K. P. MICHAILIDIS, JIstoriva kai; poivhsh. JO uJparxiako;" Kabavfh" in Mevre" tou' poihth' K. P. Kabavfh, Tetravdia Eujquvnh", 19, Atene 1992, pp. 122-24.

 

[9]«LO SPECCHIO NELL'INGRESSO. Quella casa di lusso aveva, nell'ingresso / uno specchio grandissimo, antico / almeno d'ottant'anni. // Un ragazzo bellissimo, il commesso d'un sarto / la domenica, atleta dilettante), / era là, con un pacco. Lo consegnò a qualcuno: / quello andò dentro per la ricevuta. / Il commesso del sarto / restò solo. Aspettava. / S'avvicinò allo specchio. Si guardava; assestava / la cravatta. Portarono, dopo cinque minuti, / la riceveuta; ed egli la prese, e se n'andò. // Ma quello specchio antico, che in così lunga vita / ne aveva viste tante / – migliaia d'oggetti, di visi – / ma quello specchio antico s'allegrava, / s'esaltava d'avere accolto in sé / – per attimi – l'armonica beltà.»

 

[10]L. DURRELL, The Alexandria Quartet, London 1962, p. 17.

 

[11]E. M. FORSTER, The Poetry of C. P. Cavafy, in The Mind and Art of  C. P. Cavafy, Athens 1983, pp.13-14.

 

[12]«NELLO STESSO POSTO. Casa, ritrovi, mio quartiere: ambiente / ch'io vedo, e dove giro: anni dopo anni. // Io t'ho creato nella gioia e nei dolori: / con tanti eventi e tante, tante cose. // E tutto sentimento ti sei fatto, per me.»

 

[13]ARISTOTELE, Poetica, 9, 1451b, 5 11; E. P. PAPANUTSOS, Palama'"-Kabavfh"-Sikelianov", Atene 1977, p 17.

 

[14]A. S. VLACHOS, To; ai[sqhma monaxia'" sto;n Kabavfh in Mevre" tou' poihth' K. P. Kabavfh, Tetravdia Eujquvnh" 19, Atene 1992, pp. 13-14.

 

[15]Stefano Pargas fu una delle figure più significative del mondo intellettuale dell'ellenismo d'Egitto. Il suo vero nome era Nikos Zelitas. Appartenne, in un primo tempo, a un gruppo di letterati che facevano capo alla rivista Nea Zoìv, ma in seguito se ne staccò e fondò quella che sarebbe divenuta la prestigiosa rivista alessandrina Gràmmata. La sua casa editrice, chiamata anch'essa Gràmmata, oltre a pubblicare le poesie di Kavafis, pubblicava anche le opere di scrittori quali Palamàs, Vutiràs, Xenòpulos, Vàrnalis, Mirtiòtissa e di molti altri. La libreria di S. Pargas divenne il luogo di ritrovo più frequentato dagli intellettuali alessandrini alla testa dei quali vi era, naturalmente, Kavafis, e dai letterati che di tanto in tanto giungevano in Egitto da Atene.

 

[16] «Sono un poeta storico.» G. LECHONITIS, Kabafika; aujtoscovlia, Atene 1977, p. 19.

 

[17]G. P. SAVVIDIS, Oij kabafike;" ejkdovsei", Atene 1966, pp.  209-10.

 

[18]«Sono un poeta della vecchiaia.». LECHONITIS, cit., p. 19.

 

[19]G. SEFERIS, Dokimev", I, p.324.

 

[20]M. PIERÍS, Kabavfh" kai; JIstoriva in Praktika; Trivtou Sumposivou Poivhsh", Università di Patrasso, 1 - 3 luglio 1983, Atene 1984, pp. 373 ss.

 

[21]SEFERIS, Dokimev", I, Atene 1984, , pp. 324-63.

 

[22]LECHONITIS, cit., p. 20.

 

[23]K. FTIARÀS, To; 1928 h] '29 m. C. sth;n jAlexavndreia in CARTHS, 5/6, aprile 1983, Atene, pp. 545-47.

 

[24]Ibid.. La reciproca antipatia tra Kavafis e Palamàs, assai nota, non si estinse mai. Il 25 aprile 1929 la francofona rivista letteraria cairota La Semaine Égyptienne pubblicò un numero dedicato interamente a Kavafis, con articoli, saggi e interventi di varia ampiezza da parte di personalità del mondo intellettuale quali R. A. Furness, K. Dietrich, G. Gryparis, D. Hesseling, N. Kazantzakis, E. M Forster, per citarne solo alcuni. Robin Furness, grecista inglese, ottimo traduttore di Callimaco, era stato portato ad Alessandria dagli eventi della prima guerra mondiale, quale addetto alla censura (Cfr. S. TSIRKAS, jEpochv, p. 236; R. LIDDELL, Biography,pp. 163-64). Sulla copertina della rivista appariva, fedelmente riprodotta, una quartina autografa che Furness aveva composto in onore di Kavafis: JEllavdo" ejn stefavnw/ peripuvstw a[xi'ajoidw'n / tw'n toq'eJh'" sofivh" a[nqea leptolovgou / hJdueph; ejpevplexen, jAlexandrei'on a[galma, / hJmevtero" KABAFHS, - baia; mevn, ajlla rJovda.

    A pag. 17, il letterato Menos Filindas (cfr. DIMARÀS, cit., pp. 399-400) asseriva non soltanto che Kavafis era il più grande poeta greco, ma lo accostava addirittura a Dionisio Solomòs.. Palamàs, venuto in possesso del numero della rivista in questione, in una lettera indirizzata a G. K. Katsìmbalis, datata 15 agosto 1929, scriveva tra l'altro: «(...) sto; panhguriko; tou' Kabavfh, oJ poihth;" aujto;" parousiazovtan megaluvtero" ajpo; mevna (...). JO Swlomo;" mia; fora; ajnafevretai, kai; sto; pleuro; tou' Kabavfh, wJ" i{so" pro;" i[son. K'ejgw; a[llh mia; fora; kai; me; a[llou" sunadevlfou" ajnexwvrista, wJ" poihth;" th'" ntouzivna", ajnavxio" lovgou ajnamasshth;" gallikw'n lurikw'n th'" ntouzivna" k'ejkeivnwn. JO Kabavfh" de;n ei\nai megaluvterov" mou poihthv", ajplouvstata, giati; ejmei'" de;n uJpavrcoume: ei\nai oJ mevga", oJ movno", oJ monadikov", kai; ajp'aujto;n ajrcivzei hJ Rennaissance [sic !], hJ JEllhnikh; jAnagevnnhsh. Ma'" e[fere th;n poivhsh, th; glw'ssa, to; stivco, th;n tevcnh. JO dhmotikismov", kolokuvqia!»

    Da querimonie come queste, Palamàs passava ad attacchi più palesi in una lettera datata 1 gennaio 1935 e indirizzata a G. Alithersis: «Ta; e]rga tou' Kabavfh, stivco", glw'ssa, e[kfrash, morfh; kai; opujsiva, mou' faivnontai sa; shmeiwvmata pou; de;n hjmporou'n h] pou; de;n katadevcontai na; givnoun poihvmata.» Cfr. G. K. KATZIMBALIS, jAnevkdote" selivde" tou' Kwsth' Palama': gravmmata sto; Giw'rgo K. Katsivmpalh, in NEA ESTIA, Atene dicembre 1943, pp. 293-94, 309.

    Kavafis esprimeva la propria antipatia per Palamàs in maniera diversa. Tra coloro che frequentavano l'appartamento al numero 10 di Rue Lepsius, non tutti erano sinceri ammiratori del Poeta alessandrino, e alcuni erano anche «(...) attracted by the poet's generosity with his whisky. He was, however, careful not to give them the best quality. I have beel told of his offering a drink to the artist Zacynthinos. The latter was about to help himself when Cavafy stopped him. “That's the Palamas whisky,” he said (i. e. second rate). As we're alone I'll give you something better.”»  Cfr. R. LIDDELL, Biography, p. 167. 

 

[25] FTIARÀS, cit., p. 546.

 

[26]Ibid., pp. 546-47.

 

[27]«NEL MESE DI ATHYR. Leggo con grande stento   sopra la pietra antica / GESÙ CRISTO SI[GN]ORE.      Un'AN[I]MA distinguo, / e NEL ME[SE DI] ATHYR     LUCI[O] S'[ADDORM]ENTÒ. / Si scorge poi memoria    dell'età: VI[SS]E ANNI... / il XXVII mostra / che giovine morì. / Fra lacinie discerno    EG[LI FU] ALESSANDRINO. / Indi ci sono tre    righe assai rovinate: / e tuttavia decifro    NOSTRE L[A]CRIME, PIANTO / e sotto ancora LACRIME     e [A N]OI SUOI [A]MICI LUTTO. // A me pare  che Lucio    molto diletto fu. / E nel mese di Athyr     Lucio s'addormentò.»

 

[28]KAVAFIS,  Pezav, pp. 43-50.

 

[29] Ibid., pp. 43-44.

 

[30]Ibid., p. 49; K. PAPARRIGÒPULOS, cit., III, pp. 571-72.

 

[31]KAVAFIS, Pezav, nota 18 a pp. 47-48.

 

[32]Ibid., pp. 159-61.

 

[33]Sono di straordinario interesse le osservazioni fatte da K. Paparrigòpulos circa le «peripevtiai tou' tw'n JEllhvnwn ojnovmato"», che sicuramente devono aver colpito Kavafis. Cfr. PAPARRIGÒPULOS, cit., IV, pp. 39-45.

 

[34]K. P. KAVAFIS, jAnevkdota peza; keivmena, a cura di M. Peridis, Atene 1963, pp. 76-80.

 

[35]A. G. POLITIS, K. P. Kabavfh" in jEpiqewvrhsh Tevcnh", 108, Atene 1963, pp. 645-48.

 

[36]D. HAAS, Cavafy's Reading Notes on Gibbon's 'Decline and Fall', in Folia Neohellenica, Band IV, Amsterdam 1982..

 

[37]Ibid., pp. 28-29 nota 21: «G. P. Savvidis, in an unpublished paper given at the Thirteenth International Congress of Byzantine Studies (Oxford, 1966), has dated the notes on the Decline and Fall between 1896 and 1899.»

 

[38]G. SAVVIDIS, jEkdovsei", p. 137; H. I. MARROU, cit., p. 142.

 

[39]G. SAVVIDIS,  jEkdovsei", pp. 106-107, 137.

 

[40]D. HAAS, Reading Notes, p. 91 nota 166.

 

[41]D. HAAS, 'AiJ jArcai; tou' C
ristianismou'
': e{na qematiko; kefavlaio tou' Kabavfh, in Cavrth", 5/6, Atene 1983, pp. 589-608. D'ora in avanti citato come: HAAS, AiJ jArcai; tou' Cristianismou'.

 

[42]MAT, X, 34-36; LUCA, XII, 51-53.

 

[43]«SACERDOTE DI SERAPIDE. Mio padre, il vecchio buono, / che mi volle lo stesso bene sempre, / mio padre, il vecchio buono piango, / che ieri l'altro è morto, avanti l'alba. // Cristo Gesù! Fa che sempre ai dettami / della tua Santa Chiesa io tenga fede, / in ogni azione e parola e pensiero. / È questo il mio quotidiano sforzo. / E quanti ti rinnegano / li aborro: eppure gemo: / Cristo, piango la morte di mio padre, / sebbene fosse (è spaventoso a dirsi) sacerdote / nell'esecrando tempio di Serapide.»

 

[44]«LA MALATTIA DI CLITO. Clito, un affascinante / ragazzo – ventitré anni, squisita / educazione, e una rara cultura / greca – sta molto male. La febbre, che infierisce / quest'anno ad Alessandria, l'ha colpito // L'ha colpito la febbre, già sfinito / dall'abbandono del giovine attore (non ambisce / d'averlo più; per lui più nulla vale. / Sta molto male. I genitori tremano. // E trema, per la vita del suo Clito, / una vecchia fantesca che lo crebbe. / Nell'angoscia terribile, / le viene a mente un idolo che venerò piccina, / prima d'entrare in quella casa illustre / di cristiani e abbracciare il cristianesimo. / Reca furtiva all'idolo le focacce sacrali, / e vino, e miele. Recita suppliche rituali, / come ricorda, a briciole. E non capisce, stolta, / che a quell'idolo nero nulla cale / se un cristiano guarisce o non guarisce.»

 

[45]E. GIBBON, Decadenza e caduta dell'Impero romano, Roma 1973, II, p. 155; K. PAPARRIGÒPULOS, cit., III, p. 524; G. OSTROGORKY, Storia dell'Impero bizantino, Torino 1968. p. 43.

 

[46]«MIRIS. ALESSANDRIA 340 d. C. Come  udii la sciagura, la morte di Miris, / andai da lui. (Non metto piede, in genere, / in case di cristiani, / specie quando ci sono lutti, o feste). // Ma rimasi nell'andito. Non volli / addentrarmi di più: m'avvidi bene / che i parenti del morto mi guardavano / con perplesso disagio. // Lo tenevano in una grande camera / che di laggiù, dal punto dove stavo, / intravvidi: tappeti preziosi, / e suppellettili d'oro e d'argento. // Stavo ritto e piangevo, in fondo all'andito. / Pensavo che le nostre gite, i nostri convegni, / non avrebbero avuto, senza di lui, più senso. / Pensavo che mai più l'avrei rivisto / nelle nostre nottate licenziose e belle, / ridere, divertirsi, recitare / versi, col suo perfetto senso del ritmo greco. / Pensavo che per sempre avevo perso / la sua beltà, per sempre avevo perso / il ragazzo adorato alla follia. // Certe vecchie, vicino a me, parlavano sommesso / dell'ultimo suo giorno: / sulle sue labbra sempre il nome di Gesù, / nelle mani una croce. / Nella camera entrarono, più tardi, / quattro preti cristiani: dicevano preghiere / con gran fervore e suppliche a Gesù, / o a Maria (non conosco bene le loro pratiche). // Lo sapevamo, certo, ch'era cristiano, Miris. / Sin dal primo momento lo sapevamo, quando / nella nostra brigata entrò, due anni fa. / Pure, di tutti, il più sbrigliato nel piacere, / prodigo di danaro negli spassi. / Sempre incurante di rispetti umani, / si gettava di slancio nelle risse notturne / per le vie, quando la nostra brigata / s'imbatteva, per caso, in brigate rivali. / Della sua fede non parlava mai. / Ecco: una volta, gli avevamo detto / che l'avremmo portato al tempio di Serapide / con noi. Parve sgradire / lo scherzo: ora ricordo. / Sì! mi vengono a mente altre due volte: / un giorno facevamo offerte a Posidone: / si ritrasse da noi, distolse l'occhio. / E una volta che, tutto entusiasmato, / uno di noi gridò: La nostra compagnia / sia sotto la benevola tutela del bellissimo, / del grande Apollo – “A eccezione di me”  bisbigliò Miris (gli altri non l'udirono). // I sacerdoti cristiani a gran voce / pregavano per l'anima del giovine. / Io notavo con quanta diligenza / e con quale attenzione tesa e viva / alle forme del culto, s'apprestava / tutto, per quel funerale cristiano. / E, d'un tratto, mi vinse un'impressione / strana. Sentivo, indefinitamente, / come se Miris se ne andasse via da me. / Cristiano, lo sentivo ora riunito / con i suoi: divenivo, / io, straniero, straniero affatto. Ed ecco un altro / dubbio sfiorarmi: forse, la passione / m'aveva illuso, gli ero stato straniero sempre? / Corsi via, dalla casa d'incubo, di furia, / prima che mi rapissero e cangiassero, / col loro cristianesimo, la memoria di Miris.»