COSTANTINO
KAVAFIS E LA TRASFIGURAZIONE POETICA DELL'ELLENISMO*
Kavafis fu sempre orgogliosamente memore della discendenza fanariota che
gli derivava dalla famiglia materna, ma non dimenticò mai le origini asiatiche
che gli derivavano da quella paterna. Resosi assai presto conto della realtà
delle proprie origini e della propria condizione, e lungi dall'essere
intimorito o dal sentirsi sminuito da questa bastardy, il poeta reagì a essa trasformandola in una delle
principali fonti di ispirazione per i propri versi. Tale reazione non influì
solo sulla sua creazione artistica, ma anche sul suo concetto dell'ellenismo,
sul volersi e sentirsi non e{llhn (elleno) ma eJllhnikov" (ellenico) e, di conseguenza, sul modo di
guardare alla Grecia. Tuttavia, per approdare a una simile coscienza di sé,
Kavafis doveva scoprire una visuale appropriata, una prospettiva peculiare
dalla quale, al momento opportuno, sarebbe stato in grado di scorgere, in una
città di antica fondazione ellenica, sì, ma i cui legami con il passato
ellenistico e bizantino erano stati violentemente recisi da secoli, cose
precluse ai non iniziati. Ma per Kavafis era sufficiente desiderarlo, e nello
scenario cittadino di Alessandria, “ejn
mevrei”
europeo e “ejn mevrei” orientale, era
avvertibile uno “slight angle”, uno squilibrio
tra apparenza e realtà, come se una prodigiosa lente d'ingrandimento avesse
avvicinato la visione del presente a quella del passato, una lente grazie alla
quale l'occhio del Poeta avrebbe messo a fuoco, insieme ai luoghi, anche
l'animo dell'uomo quando è solo con se stesso.[1] Era
sufficiente desiderarlo, e l'alessandrinismo[2] sussisteva
a ogni svolta di viuzza, nelle equivoche taverne del porto, nei crepuscoli
orgiastici di San Stefano[3] e
nei bordelli misti del Quartier Attarine,
il bazàr dei profumi.[4]
Sth'" hJdonh'" to; spivti o{tan mph'ka,
de;n e[meina sth;n ai[qousan o{pou giortavzoun
me; kavpoia tavxin ajnagnwrimevnoi e[rwte".
Ste;" kavmare" ejph'fa te;" krufe;"
ki ajkouvmphsa kai; plavgiasa ste;" klive" twn.
Ste;" ka;mare" ejph'ga te;" krufe;"
pou; tw[coun gia; ntroph; kai; na; te;" ojnomavsoun.
Ma; o[ci ntroph; gia; mevna – giati;
tovte
tiv poihth;" kai; tiv tecnivth" qa[moun;
Kallivtera n’ ajskhvteua. Qa\tan pio; suvmfwno
polu; pio; suvmfwno me; th;n poivhsiv mou:
para; me;" sth;n koinovtophn ai[qousa na; carw'.[5]
(“Ki
ajkouvmphsa kai; plavgiasa ste;" kli'ne" twn”,1915)
Kavafis fu il primo contemporaneo a percepire tale squilibrio che altri dopo di lui
avrebbero percepito. Quel prodigio avvenne allorché il poeta,
aristocratico fanariota esule in Alessandria, affacciandosi al balcone del suo
appartamento al numero 10 di Rue Lepsius, riuscì a trasfigurare ciò che vedeva
della vita dell'Alessandria contemporanea.
Kai; bgh'ka sto; mpalkovni melagcolika; –
bgh'ka n’ ajllavxw skevyei" blevponta" toulavciston
ojlivgh ajgaphmevnh politeiva,
ojlivgh kivnhsi tou' drovmou kai; tw'n magaziw'n.[6]
(“
jEn eJspevra/”,
1917)
Identificando con gli occhi della sua anima la nostra epoca vacillante
con la triste decadenza del mondo antico,[7] fece rispecchiare la
storia nelle proprie liriche come quel suo antico “specchio nell'ingresso” che,
accogliendo per alcuni fugaci minuti le armoniose sembianze di un ragazzo
bellissimo, non aveva rispecchiato che l'alienazione umana, l'immagimne della nostra
stessa rovina. La storia, allusivamente trasfigurata, diventò per il poeta lo
specchio su cui si rifletteva la sua propria vita confondendosi totalmente con
la storia di Alessandria e dell'ellenismo.[8]
To; plouvsio spivti ei\ce sth;n ei[sodo
e{nan kaqrevpth mevgisto, polu; palaiov:
toulavciston pro; ojgdovnta ejtw'n ajgorasmevno.
{Ena ejmorfovtato paidiv,
uJpavllhlo" se; ravpth
(te;" Kuriake;", ejrasitevcnh" ajqlhtthv"),
stevkontan m’ e{na devma. To; parevdose
se; kavpoion tou' spitiou', ki aujto;" to; ph'ge mevsa
na; ;;fevrei th;n ajpovdeixi. JO uJpavllhlo" tou' ravpth
e[meine movno", kai; perivmene.
Plhsivase sto;n kaqrevpth kai; kuttavzontan
k’ e[siaze th;n krabavta tou. Meta; pevnte lepta;
tou' fevran th;n ajpovdeixi. Th;n ph're k’
e[fuge.
Ma; oJ palaio;" kaqrevpth" pou; ei\ce dei' kai; dei',
kata; th;n u{parxivn tou th;n polueth',
ciliavde" pravgmata kai; provswpa:
ma; oJ paliao;" kaqrevpth" twvra caivrontan,
k’ ejpaivrontan pou; ei\ce decqei' ejpavne tou
th;n a[rtian ejmorfia; gia; merika; leptav.
(
JO kaqrevpth" sth;n ei[sodo, 1930)[9]
Solo a questo punto egli riuscì a contemplare la storia, l'arte e la
sensualità di una città che – per i più – era tutt'altro che una città dello
spirito, una città dalle strade tormentate dalla polvere, infestate dalle
mosche, gremite di mendicanti e frequentate da quanti conducevano una esistenza
intermedia tra le une e gli altri. Una città con una dozzina di religioni,
cinque razze e cinque lingue, ma dove vi erano più di cinque sessi che solo il
peculiare greco demotico delle liriche di Kavafis era in grado di distinguere.[10]
Ma Alessandria poteva riserbare anche gradite sorprese, come imbattersi
in quel signore greco con la paglietta, il quale, se gli andava, ti chiamava
per nome con voce ferma e insieme meditativa e che, più che attendere una
risposta, sembrava rendere omaggio al principio di individualità. Ti voltavi e
vedevi Kavafis immobile, in piedi, su uno slight
angle rispetto all'universo. Ti tendeva le braccia e capitava che
cominciasse una frase lunga e
complicata, benché strutturata con attenzione meticolosa, e ricca di parentesi
che non inciampavano mai una nell'altra, ma anche di pudori che erano veri
ritegni. Una frase che procedeva logicamente verso una conclusione facile da
indovinare, sì, ma al tempo stesso del tutto imprevista. Poteva darsi che
trattasse dei dialetti greci parlati nell'interno dell'Asia Minore o del prezzo
delle olive, o delle perfide azioni perpetrare da Alessio Comneno nel 1096.
Oppure di George Eliot. Ed era enunciata con la stessa disinvoltura in greco,
in inglese, in francese. E si capiva che, nonostante la ricchezza intellettuale
e la qualità umana dell'interlocutore, nonostante la misurata benevolenza dei
suoi giudizi, anch'essa, la frase, si teneva su uno slight agle rispetto all'universo. Era la frase di un poeta.[11]
È precisamente questo slight angle di cui parla Forster, lo squilibrio, la prospettiva che Kavafis scoprì e dalla quale prese a
contemplare Alessandria e la storia della nazione greca, quella storia di cui
per tanti anni, nel corso della sua vita, egli aveva udito il delirio senza
capirvi nulla. E questa peculiare visione della città si ampliò fino a
includere il variegato mondo dell'ellenismo e la sua storia che assunsero, per
Kavafis, dimensioni impensabilmente più vaste di quelle proposte dai programmi
politici della Megali Idea (la Grande
Idea), offrendogli possibilità di sviluppo, libertà di azione e una familiarità
inaudite. Il concetto del compimento di tale metamorfosi è espresso in una
lirica del 1929, nella quale la città reale, contemporanea, appare già
trasformata in una città altra, in una entità che, prendendo le mosse dalla
città reale e dal suo passato, si era trasformata in una essenza poetica, storica,
culturale e geografica che sarebbe divenuta – una volta filtrata a goccia a
goccia attraverso la immaginazione del poeta –, puro sentimento.
Oijkiva" peribavllon, kevntrwn, sunoikiva"
pou; blevpw ki o{pou perpatw': crovnia kai; crovnia.
Se; dhmiouvrghsa me;" se; cara; kai; me;" se; luvpe":
me; tovsa peristatikav, me; tovsa pravgmata.
K’ aijsqhmatopoihvqhke" oJlovklhro, gia; mevna.[12]
(“Sto;n i[dio cw'ro”, 1929)
Il prodigio era avvenuto: l'angustia e la soggettività che caratterizzavano
le prime liriche erano superate e ora l'intero mondo dell'ellenismo, e con esso
la sua storia, erano completamente a disposizione di Kavafis.
L'intricato caso della preminenza tra storia e poesia fu affrontato con
molta fermezza già da Aristotele quando affermò che la poesia è di maggiore
fondamento teorico e più importante della storia, giacché la poesia dice gli
universali, la storia i particolari.[13]
Che la poesia sia più profonda e più filosofica della storia è evidente,
sia perché il vero poeta possiede doti che, comunemente, lo storico non ha, sia
perché la poesia ha il potere di creare sensazioni ed effetti assai più sublimi
di quelli della storia. La poesia può rendere irreale la realtà, può conferire
alle cose vicine il distanziamento onirico di ciò che ormai appartiene al
passato, e può avvicinarci al passato come se
fosse a portata di mano.
Kavafis è stato forse uno dei massimi
studiosi dell'ellenismo. Con il suo sguardo esaminatore ed erudito ne percorse
tutti i periodi, attingendo a essi, con grande perizia, alcuni momenti
significativi. Ma creò anche, con la propria fantasia, epoche di gloria o di
sconfitta, donandocene, con il suo linguaggio semplice ma suggestivo, un gusto
tanto intenso da farci avere la sensazione di trovarci là, compartecipi degli
avvenimenti o delle situazioni che egli faceva abilmente emergere dai recessi
dell'ellenismo. Dell'ellenismo, non della romiosìni,
cioè la Grecia propriamente detta. Per Kavafis la Grecia non esisteva, esisteva
il mevga panellhvnion, l'immenso spazio greco
dello spirito, che fu per molto tempo il sale della terra.[14]
Premesso ciò, vorrei richiamare l'attenzione su due brevi dichiarazioni
– registrate da autorevoli testimoni –, pronunziate da Kavafis nella libreria Grammata di Stefano Pargas[15] la quale era, nel
periodo in questione, il luogo di ritrovo prediletto dagli intellettuali
alessandrini. La prima fu udita da G. Lechonitis tra il 1923 e il 1933, la
seconda dalla signora Eftichìa Zelita, lunedì 8 aprile 1929. Entrambe le
affermazioni, quindi, risalgono agli ultimi anni della vita del Poeta, ed
entrambe esprimono pressoché gli stessi concetti, il più rilevante dei quali è
costituito dall'affermazione: «Ei\mai
poihth;" iJstorikov".»[16]
Nel 1930 la rivista letteraria Alexandrinì Techni pubblicò una nota non
sottoscritta, ma suggerita ai redattori della rivista da Kavafis stesso, con la
quale egli divideva la propria opera artistica in poesie filosofiche, storiche
ed erotiche, avvertendo, tuttavia, che le poesie storiche sovente si
intrecciano con quelle erotiche al punto da renderne la classificazione
difficile ma non impossibile.[17] E in realtà, molte liriche appartengono
simultaneamente a tutte e tre le categorie. Il fatto che questa nota, così come
i due brani di conversazione cui
aabiamo accennato poc'anzi, risalgano tutti agli ultimi anni di vita del poeta,
mette in evidenza tutta la tenacia con cui egli cercò la propria strada e
quanto tempo gli occorse per trovarla. Kavafis, infatti, cosciente di ciò,
soleva ripetere: «Ei\mai poihth;"
tou' ghvrato".»[18] Ed è vero che se Kavafis, nelle poesie giovanili
e anche in molte di quelle scritte intorno alla quarantina, non è
originale, mostrerà tutta la propria
originalità in quelle della vecchiaia.[19]
A questo punto sono necessarie alcune
precisazioni sulle poesie cosiddette storiche di Kavafis. Nel corso degli anni
gli studiosi della sua opera hanno coniato numerosi termini per cercare di
classificare ulteriormente tali liriche usando, di volta in volta, termini
quali poesie storiche, semi-storiche, para-storiche, apparentemente storiche,
storiogeniche, per menzionarne solo alcuni.[20] Poiché a mio parere questa molteplicità
terminologica, oltre a essere eccessiva, non giova affatto a illuminare la
categoria di queste liriche, proponiamo di usare esclusivamente due termini:
poesie storiche e poesie pseudo-storiche. Il primo termine, come abbiamo visto,
fu coniato da Kavafis medesimo, mentre il secondo fu usato per la prima volta
da Seferis per indicare quelle liriche in cui la storia viene utilizzata
metaforicamente, allegoricamente, vale a dire in maniera fittizia, perché in
esse Kavafis non affronta il materiale storico quale poeta storico, bensì quale
poeta filosofico-didattico.[21]
D'ora in avanti, con il termine di poesie
storiche, intenderò esclusivamente quelle che posseggano almeno una delle
seguenti caratteristiche:
– presenza di uno o più personaggi
storici;
– possibilità di verificare la
collocazione cronologico-geografica dell'episodio della poesia tramite i mezzi
e i metodi scientifici di cui si avvale lo storico accademico;
– dipendenza del testo della poesia da
una autorevole fonte storico-letteraria.
Kavafis era solito affermare di non poter scrivere romanzi o commedie,
ma che sentiva dentro di sé centoventicinque voci gridargli che avrebbe potuto
scrivere storia.[22] In realtà egli non scrisse mai storia o, più
esattamente, trattati di storia, che sono compito esclusivo dello storico
accademico. Non molti però sanno che una volta egli fu insegnante di storia
bizantina. Nel 1983 la rivista letteraria ateniese Chartis pubblicò un numero
speciale in occasione del cinquantenario della morte del poeta. E tra i vari
articoli ve n'era uno, assai breve, ma forse più commovente degli altri per la
spontaneità del tono. Si trattava di una intervista rilasciata da Costantino
Ftiaràs, un professore di lettere ormai in pensione.
Egli era nato a Kastellòrizon – l'isola più orientale del Dodecanneso,
la Castelrosso dei veneziani e dei genovesi –, nel 1903, ma subito dopo la sua
nascita si trasferì con la famiglia ad Alessandria dove, più tardi, frequentò
le scuole elementari e il liceo. Verso il 1920, Ftyaràs e un gruppo di giovani
amici fondarono un circolo culturale a cui faceva capo anche la rivista Argò che pubblicava, tra l'altro, poesie
di Kavafis e di Palamàs tra i quali, incidentalmente, non vi fu mai ammirazione
reciproca. Kostìs Palamàs era considerato, nel periodo in questione, il più
grande poeta greco e la sua produzione letteraria, sia in poesia che in prosa,
era sterminata, specialmente se paragonata a quella quantitativamente esigua di
Kavafis. Questi partecipava di tanto in tanto alle riunioni letterarie di Argò, e quando parlava degli altri poeti
usava espressioni come: « jEgw; de;n
ei\mai bevbaia Palamav"... to; potavmi aujtov... ejgw; kavqe e{xi
mh'ne" bgavzw kanevna poihmatavki...».[23] Alcuni anni più tardi
Ftyaràs conobbe personalmente Palamàs il quale, dopo aver letto una delle
poesie bizantine di Kavafis, “ jAnna Dalasshnhv”, aveva esclamato: «Ma; twvra ei\nai poivhma aujto; h] koroi>diva;».[24] Compiuti gli studi
universitari ad Atene, Ftiaràs ritornò ad Alessandria nel 1928 e, come
professore, ebbe l'incarico di insegnare storia bizantina in un liceo.
Spaventato da quella incombenza e ricordatosi che una volta Kavafis gli aveva
detto: «Io sono per quarto quarti bizantino e per tre quarti alessandrino»,[25] decise di rivolgersi al
Poeta il quale si mostrò subito disponibile ad aiutarlo. Il corso privato di storia bizantina ebbe
inizio, e Ftiaràs, insieme a un suo amico, un certo Chatzilìas, seguirono per
un intero anno scolastico le lezioni del poeta storico Kavafis. I due giovani
si recavano a casa sua due volte la settimana e gli dicevano qual era il
periodo della storia bizantina che dovevano approfondire, e lo seguivanoa bocca
aperta: entrava subito in argomento, per tutta la durata della lezione non
parlava d'altro, riusciva a rendere lo spirito
del periodo storico che trattava con grande abbondanza di particolari. Faceva
storia pura.[26]
Kavafis, dunque, volendosi poeta storico nella maniera più rigorosa,
faceva grande uso dei mezzi e dei metodi che di solito sono monopolio dello
storico accademico, quali la ricerca accurata, la meticolosa verifica delle
fonti, oppure si avvaleva di scienze che un tempo erano definite ausiliarie
della storia, quali la numismatica e l'epigrafia, intese come mezzi atti a
procurare una migliore intelligenza della storia tramite una conoscenza più
approfondita di alcuni aspetti delle civiltà antiche. Tali metodi e strumenti
non rientrano certo nelle attività specifiche dei poeti. Kavafis, invece, se ne
servì così profusamente e in modo tanto rigoroso che questo rigore scientifico
conferisce alla sua creazione artistica tratti caratteristici inconfondibili.
Una poesia-epitafio, pubblicata nel 1917, mostra assai efficacemente con
quanta maestria il poeta usasse alcuni degli strumenti che sono appannaggio
dello storico accademico, nella fattispecie i canoni dell'epigrafia impiegati
per decifrare un testo antico integrandone eventuali lacune. Questa lirica,
tutta pervasa di alessandrina grazia, è una splendida dimostrazione del poeta
storico al lavoro. Questo metodo, rischioso e virtualmente infecondo nelle mani
di un poeta qualsiasi, divenne, in quelle di Kavafis, un elemento che contribuì
grandemente alla creazione di un'opera alquanto originale: mentre il
poeta-storico-epigrafista procede con difficoltà alla integrazione delle lacune
testuali sulla pietra tombale infranta a metà – frattura resa ancor più
realistica dallo stratagemma cavafiano di separare i versi in due emistichi –
la decifrazione dell'epigrafe coincide con la composizione della lirica.
Conformemente a quanto detto poc'anzi, questa non può essere considerata una
poesia storica poiché non vi sono gli elementi per definirla tale. È tuttavia
interessante che essa non potrebbe essere stata composta senza l'uso dei metodi
che l'epigrafia mette a disposizione dello storico accademico.
EN TWi MHNI AQUR
Me; duskoliva diabavzw
sth;n pevtra th;n ajrcaiva
«KU[RI]E IHSOU CRISTE». {Ena «YU[C]HN» diakrivnw.
«EN TWi MH[NI]
AQUR» «O LEUKIO[S] E[KOIM]HQH».
Sth; mneiva th'" hJlikiva"
«EBI[WS]EN ETWN»,
To; Kavppa Zh'ra deivcnei
pou; nevo" ejkoimhvqh.
Me;" sta; fqarmevna blevpw
«AUTO[N] ... ALEXANDREA».
Meta; e[cei trei'" gramme;" polu; ajkrwthriasmevne":
ma; kavti levxei" bgavzw – sa;n «D[A]KRUA HMWN», «ODUNHN»,
katovpin pavli «DAKRUA», kai; «[HM]IN TOIS [F]ILOIS PENQOS».
Me; faivnetai pou; oJ Leuvkio" megavlw" q'ajgaphvqh.
jEn tw/' mhni; jAqu;r oJ Leuvkio" ejkoimhvqh.[27](21)
Nel 1892 Kavafis scrisse due articoli, pubblicati sul quotidiano
alessandrino Tilègrafos,
rispettivamente nell'aprile e nel luglio di quello stesso anno. Il primo,
intitolato OiJ Buzantinoi; Poihtaiv (I poeti bizantini),[28] (22) era una critica
assai favorevole ad un compendio della prima edizione del 1891 della Storia della letteratura bizantina di
Karl Krumbacher, eseguito dal bizantinista greco D. Vikelas, e pubblicato in
francese sulla Revue des Deux Mondes.
Kavafis faceva notare ai lettori del Tilègrafos
di aver raccolto le informazioni per il proprio articolo sia dal compendio di
Vikelas, sia ejx ajllakovqen, locuzione avverbiale
dietro la quale si celava la JIstoriva
tou' JEllhnikou' [Eqnou" di Costantino Paparrigòpulos, e proseguiva asserendo che:
«OiJ
Buzantinoi; ajoidoi; ma'" ejndiafevrousi zwhrovtata, diovti
ajpodeiknuvousin o{ti hJ eJllhnikh; luvra ouj movnon de;n ejqrauvsqh,
ajlla; kai oujdevpote e[pausen ajnapevmpousa h[cou" glukei'".
OiJJJ Buzantinoi; ajoidoi; ajpotelou'si to;n suvndesmon metaxu; th'"
dovxh" tw'n ajrcaivwn ma" poihtw'n kai; th'" cavrito"
kai; tw'n crusw'n ejlpivdwn tw'n sugcrovnwn.»[29]
Dopo brevi cenni a vari poeti quali Nonno di Panopoli e Teodoro
Prodromo, troviamo, menzionato qui per la prima volta da Kavafis, Gregorio di
Nazianzo, discusso autore del Cristo;"
Pavscwn,
opera che il Poeta alessandrino definiva «e[rgon
me; ajxiva»
(opera di valore). Ma poiché Krumbacher faceva iniziare la storia della letteratura
bizantina dal regno di Giustiniano (527-565), Kavafis affermava di essere
d'accordo con Vikelas nel considerare inizio di tale letteratura il IV secolo
che, oltre tutto, coincide anche con la fondazione di Costantinopoli. Kavafis,
affermando ciò, non solo dichiarava di considerare greco l'Impero bizantino fin
dalla fondazione della Nuova Roma, ma rivelava assai precocemente il suo
interesse per il IV secolo, interesse al quale egli sarebbe rimasto fedele per
tutta la vita. Dopo aver accennato rapidamente ai poeti appartenenti al periodo
trascurato da Krumbacher, il poeta ritornava a Gregorio di Nazianzo dichiarando
che la sua poesia cristiana, ammirata da dotti di ogni epoca, era paragonabile
a quella di Lamartine e, a sostegno di tale tesi, citava un passo della Storia di Paparrigòpulos:
«Ta;;
e[ph tau'ta wjnomavsqhsan uJpo; th'" newtevra" kritikh'" Qrhskeutikai; Melevtai ejx
ajnalogiva" tw'n Poihtikw'n Meletw'n tou'... Lamartivnou: diovti tw/ovnti
megavlh me;n uJpavrcei diafora; metaxu; th'" fuvsew" tw'n duvo
poihtw'n kai; kai; tw'n crovnwn kaq'ou}" eJkavtero" e[zhsen, oujde;n h|tton
o{mw" parethrhvqh eujlovgw", o{ti ta; tou' Grhgorivou e[ph e[cousi
pollavki" paravdoxon oijkeiovthta pro;" ta;" periplanhvsei"
th'" fantasiva" tou' poihtou' ejkeivnou th'"
skeptikh'" kai; kovrou mesth'" hJlikiva" tou' aijw'no"
hJmw'n. JUpavrcousi mavlista tina; tw'n ejpw'n touvtwn ta; oJpoi'a oJ peri; ta; toiau'ta tosouvtwn e[mpeiro"
Ouj:i:llemai'no" de;n ejdivstase na; ajpokalevsh/ prodrovmou" tw'n
qelktikwtevrwn stenagmw'n th'" melagcolikh'" tw'n kaq'hJma'"
crovnwn mouvsh", eij kai; ajpopnevonta pivstin eijsevti neara;n
kai; ajfelh' ejn tw/' qoruvbw/
auth'". Eij" ta; e[ph tau'ta ejpanqei' ejpafrovditovn ti mi'gma
ajfh/rhmevnwn ijdew'n kai; pragmatikw'n sugkinhvsewn, gohteutikh; dev ti"
ajntivqesi" tw'n kallonw'n th'" fuvsew" pro;" th;n tarach;n
kardiva", h{ti", basanizomevnh uJpo; tou' aijnivgmato" th'"
uJpavrxew" hJmw'n, zhtei' katafuvgion ejn th/' pivstei.»[30] (24)
Auspicando che anche un greco si mettesse al più presto all'opera per
descrivere la raffinata bellezza della
letteratura bizantina, Kavafis concludeva l'articolo con un inno alla genialità
dell'ellenismo usando l'espressione «megalofui?a
tou' gevnou" ma"» (genialità della nostra stirpe). Paputsakis per primo
osservò che l'uso dell'aggettivo possessivo di prima persona plurale, con
particolare riferimento a Bisanzio e alla sua storia,[31](25) acquisisce un
particolare valore affettivo per Kavafis. Anche l'altro articolo, intitolato To; Mousei'on ma"[32] (26) era contraddistinto da espressioni di orgogliosa ammirazione
per tutto ciò che riguardava la civiltà e la cultura dell'Egitto bizantino.
Nel 1963 M. Peridis pubblicò una nota – fino ad allora inedita –, che il
Poeta aveva scritto in inglese intorno al 1900 quale confutazione di taluni
termini usati dallo storico britannico J. Bury nella sua History of the Later Roman Empire from Arcadius to Irene (395 A. D. to
800 A. D.), uscita nel 1891. In questa opera lo storico inglese chiama
‘Romans’ gli abitanti della parte sud-orientale della penisola balcanica e
‘Roman’ l'Impero orientale. Il fervore e la cognizione di causa con cui Kavafis
confuta Bury sono commoventi e dimostrano, una volta di più, fino a qual punto
egli avesse assimilato gli insegnamenti di Costantino Paparrigòpulos:[33] (27)
«Neither advisable, nor necessary. States
should be given – when the historian has the option - the appelation which best
conveys an idea of their composition and their language. After the 5th century
– and perhaps after the 7th – ‘Roman’ becomes a misleading term. The Empire was
not ‘Roman’ ethnically; it was not ‘Roman’ by language; it was not called
‘Roman’ by the contemporary European nations.
The Greeks, it is true, called themselves
‘Romaioi’ in order to avoid the name of the ‘Hellene’ which denoted the
idolater. Later, from the 13th century and on into the 15th, when the
connection between ‘Hellenism’ and paganism grew less present, the old name
reappears in some chronographers, and even the Byzantine Monarch is
occasionally called by them – like the actual Greek king – ‘Basileus Hellenon’.
Besides, the assumption, from religious
motives, of the name of ‘Romaioi’ by the Greeks is not a sufficient reason to
label seven centuries of South European history with a designation which is
confusing to those who are unacquainted or but little acquainted with that long
period, and which will be found unscientific by those who are conversant with
it. The historian should endeavour to use accurate and clear terms. ‘Roman’
conveys to us the idea of a Latin-speaking people, dwelling in or originating
from Italy (and, politically, the predominance or rule of such a people, as in
the last ages of the Republic and the first centuries of the Empire, over foreign
nations). ‘Greek’ conveys to us the idea of a Greek-speaking people dwelling in
or originating from the Southern part of the Balkan Peninsula, the islands of
the Eastern Mediterranean, and Western Asia Minor. (The name Roman can also be
extended to a latinised, and the name Greek to a hellenised population). The
Eastern section of what had been the Roman Empire contained, after the 7th or
8th century, almost none of the former element; it consisted almost entirely of
the latter. If we wish to write history carefully – noticing the changes
effected by time, and making them evident in our terms – we should call that
section the Greek Empire; or then the Byzantine, which connotes the same
meaning, and which is a designation in use among the Greeks of to-day, who
should be accounted fair authorities on their past by reason of that
discriminating capacity which races derive from familiarity with the trend of
their national life.»[34](28)
Nel 1930 la casa editrice alessandrina Grammata pubblicò il secondo e ultimo volume di un'opera di Atanasio G. Politis,
intitolata JO JEllhnismo;" kaiJ hJ
Neotevra Ai{gupto".
Dieci delle trentaquattro pagine dedicate alle attività intellettuali dei greci
d'Egitto sono dedicate a Kavafis, e poiché è stato accertato che fu Kavafis
stesso a fornire a Politis il materiale per la stesura di quel testo, riteniamo
che esso costituisca una testimonianza di straordinario interesse.[35] Vi si legge, tra
l'altro, che Kavafis, all'inizio della sua carriera artistica, aveva scelto il
periodo bizantino per ambientarvi le proprie liriche, ma che più tardi lo aveva
abbandonato in favore di quello ellenistico. Ma tale decisione non fu irrevocabile,
dal momento che alcune delle più significative poesie storiche di Kavafis sono bizantine e risalgono agli ultimi anni
della vita del Poeta. Infatti l'ultima poesia che egli compose nel 1933, “Eij" ta; perivcwra th'" jAntioceiva"”, è una poesia bizantina.
L'interesse del Poeta per la storia bizantina, iniziato assai presto
durante il suo soggiorno costantinopolitano, si intensificò nel corso degli
anni '90 del 1800. Risalgono a questo periodo non solo i già citati articoli
sui poeti bizantini, sul museo di Alessandria e la nota critica all'opera di
Bury, ma anche le note di lettura che egli appose al Decline and Fall di Edward Gibbon,[36] (30) molte delle quali erano il risultato del confronto tra le
teorie di Gibbon e quelle dello storico della nazione greca Costantino
Paparrigòpulos. Savvidis ha dimostrato che tali note furono scritte tra il 1896
e il 1899,[37] (31) e rivelò inoltre che nel cosiddetto Archivio Kavafis
esistevano liste autografe di liriche suddivise per cicli, o capitoli tematici,
reminiscenti per lo stile – e forse non fortuitamente –, dei Poèmes antiques (1852), Poèmes barbares (1862), Poèmes tragiques (1884) e dei Derniers poèmes (1895) di Charles-Marie
Leconte de Lisle (1818-1894).[38] (32)I titoli dei capitoli
tematici di Kavafis sono i seguenti:
–
jArcaivai JHmevrai (Giorni
antichi)
–
AiJ Arcai; tou' Cristianismou' (Gli inizi del cristianesimo)
–
Buzantinai; JHmevrai (Giorni
bizantini)
–
JO [Arcwn th'" JHpeivrou (Il principe dell'Epiro)
–
Pavqh (Passioni)
–
[Eth pteroventa (Anni
alati)
–
Fulakai; (Prigioni)
–
JH tevnch ma" (La
nostra arte)
–
Trei'" eijkovne" (Tre immagini).[39] (33)
Delle poesie i cui titoli sono elencati sotto il capitolo tematico “Buzantinai; JHmevrai” ci sono pervenute soltanto l'imperfetta “Pro; th'" JIerousalhm” di cui ignoriamo la
data di composizione, e l'inedita “Qeovfilo" Palaiolovgo"”, composta nel marzo
1903, con la quale Kavafis ci conduce al momento supremo di Costantinopoli.
Ritengo tuttavia opportuno elencare anche i titoli delle poesie non
pervenuteci, poiché rivelano quali erano i personaggi e gli avvenimenti storici
a cui erano rivolte le sollecitazioni del poeta:
–
Eujdoxiva" [Eudokiva"] Auj[gouvsta"] {Epaino"
–
JH ejpi; Eijrhvnh" ajnasthvlwsi" tw'n eijkovnwn
–
Kavrolo" oJ Mevga"
–
AiJ ajxiwvsei" tou' Pavpa
–
JH ajnavkthsi" th'" Krhvth"
–
Pro; th'" jIerousalh;m
–
JH a[lwsi" th'" Nivkaia" [Nikopovlew"]
–
JO kalo;" [kako;"] iJppovth"
–
JO cremetismo;" tou' i{ppou
–
JO Gra[aiko;"] str[athgov"].[40] (34)
Quanto
al capitolo tematico “AiJ jArcai; tou'
Cristianismou'”,[41] (35) vi sono elencati i titoli di sei poesie delle quali una soltanto
ci è pervenuta, l'inedita “ JO jIouliano;" ejn toi'" Musthrivoi"” composta nel 1896,
mentre un altro titolo, “ JO
Stauroj"”,
si riferisce a una lirica composta nel 1892, revisionata nel 1917 e che
costituiva verosimilmente la prima stesura di “Megavlh sunodeiva ejx iJerevwn kai; la:i:kw'n”, pubblicata nel 1926. (36) Possiamo quindi far coincidere
l'esordio della tematica bizantina nell'opera artistica di Kavafis con “ JO jIouliano;" ejn toi'" Musthrivoi"” che costituisce,
inoltre, l'avvio di quello che può esser considerato il ciclo poetico cavafiano
più importante dal punto di vista quantitativo, vale a dire quello concernente
Giuliano l'Apostata e, di conseguenza, il IV secolo e il conflitto tra pagani e
cristiani.
Irresistibilmente attratto dai periodi di transizione e di crisi,
Kavafis lo fu ancor di più negli ultimi anni della sua vita. L'imperatore
Giuliano, che i Padri della Chiesa soprannominarono con evidente disprezzo ajpostavth" (apostata) e parabavth"
(trasgressore), è uno dei personaggi più tragici della storia, e il periodo in
cui visse fu uno dei più drammatici. Nel corso di esso il cristianesimo, ormai
consolidatosi, e il paganesimo agonizzante, si scontravano dando luogo a
tensioni che, se avevano molto peso sul piano politico, ideologico e religioso
dello Stato, potevano creare situazioni dolorose anche sul piano della vita
individuale. Due poesie pseudo-storiche, composte entrambe nel 1926, dànno una
immagine assai chiara sia della temperie che molto verosimilmente doveva esser
piuttosto frequente in quel periodo, ma anche delle terribili scissioni che i
conflitti religiosi potevano causare nell'animo degli individui.
La prima di queste liriche è intitolata “ JIereu;" tou' Serapivou”. Nonostante la pseudo-storicità della lirica sia evidente, è possibile stabilire
sia un terminus ante quem che un terminus post quem poiché sappiamo che
il Serapeo, fatto costruire in Alessandria da Tolomeo Sotere nel III secolo a.
C., venne distrutto sotto Teodosio nel 392 d. C. L'interlocutore della poesia,
un fervente cristiano, piange il buon vecchio
padre morto due giorni innanzi, all'alba, il quale da vivo aveva sempre amato
il figlio a dispetto di tutto, però era stato sacerdote del tempio di Serapide,
e questo è sufficiente a scatenare nella coscienza del figlio cristiano
terribili sensi di colpa che gli fanno invocare Gesù Cristo affinché lo aiuti a
rimaner fedele alla Sua santa Chiesa; eppure il giovane non può fare a meno di
piangere la morte del suo genitore sebbene questi fosse stato sacerdote in un
esecrando tempio pagano. E a questo punto vien fatto di pensare al paradosso
insito nel fatto che se da un lato uno dei dieci Comandamenti esorta ad amare
il prossimo, dall'altro alcuni brani del Vangelo attribuiti a Gesù sono forieri
di messaggi assai diversi.[42] (37)
To;n gevronta kalo;n patevra mou,
to;n ajgapw'nta me to; i[dio pavnta:
to;n gevronta kalo;n patevra mou qrhnw'
pou; pevqane procqe;", ojlivgo pri;n caravxei.
jIhsou' Cristev, ta;
paraggevlmata
th'" iJerotavth" ejkklhsiva" sou na; thrw'
eij" kavqe pravxin mou, eij" kavqe lovgon,
eij" kavqe skevyi ei\n’ hJ
prospavqeia mou
hJ kaqhmerinhv. Ki o{sou" se; ajrnou'ntai
tou;" ajpostrevfomai. – jAlla;
twvra qrhnw':
ojduvromai, Cristev, gia; to;n patevra mou
m’ o{lo pou; h[tane – frikto;n
eijpei'n –
sto; ejpikatavraton Seravpion iJereuv".[43](38)
Il titolo della seconda lirica è “
JH ajrrwvstia tou' Kleivtou”. Anche qui
l'atmosfera che si respira è quella caratteristica del IV secolo, e anche in
questo caso il dramma è costituito dalla scissione causata nell'animo di un
individuo da talune antitesi esistenti tra gli insegnamenti della fede
cristiana e talune reminiscenze di riti pagani non completamente sopiti.
JO Klei'to", e{na
sumpaqhtiko;
paidiv, perivpou ei[kosi triw' ejtw'n –
me; ajrivsthn ajgwghv, me; spavnia eJllhnomavqeia –
ei\n’ a[rrwsto" bareiav. To;n hu'Jre
oJ pureto;"
pou; fevto" qevrise sth;n jAlexavndreia.
To;n hu'Jre oJ pureto;" ejxantlhmevno kiovla" hjqikw'"
ajp’ to;n ka:u:mo; pou; oJ eJtai'ro" tou, e{na"
nevo" hjqopoiov",
e[pause na; to;n ajgapa' kai; na; to;n qevlei.
Ei\n’ a[rrwsto" bareiav, kai; trevmoun oiJ
gonei'" tou.
Kai; mia; grha; uJphrevtria pou; to;n megavlwse,
trevmei ki aujth; gia; th;n zwh; tou' Kleivtou.
Me;" sth;n deinh;n ajnhsuciva th"
sto;n nou' th" e[rcetai e{na ei[dwlo
pou; lavtreue mikrhv, pri;n mpei' aujtou', uJphrevtria,
se; spivti Cristianw'n ejpifanw'n, kai; cristianevyei.
Paivrnei krufa; kavti plakouvntia, kai; krasiv, kai; mevli.
Ta; pavei sto; ei[dwlo mprostav. {Osa quma'tai mevlh
th'" iJkesiva" yavllei, a[kre", mevse". JH kouth;
de;n noiwvqei pou; to;n mau'ron daivmona livgo to;n mevlei
a]n giavnei h] a]n de;n giavnei e{na" Cristianov".[44](39)
Vorrei adesso accennare a un'altra poesia – pseudo-storica nonostante
tutto –, poiché riteniamo che, per vari motivi, essa sia una delle più
significative tra tutte quelle
ambientate nel IV secolo. Pubblicata nel 1929, è intitolata “Muvrh". jAlexavndreia tou' 340 m. C.”. La presenza nel
titolo di un nome proprio, ma soprattutto la rigorosa precisione cronologica e
geografica che caratterizza la data, ci potrebbero indurre ad aspettarci la
descrizione di un qualche avvenimento storico ben preciso. In fin dei conti nel
340 d. C. vi furono giorni di grandi turbamenti politici e religiosi: i
rapporti tra i figli di Costantino il Grande erano inaspriti dalle dispute
teologiche sorte tra i seguaci di Ario e quelli di Atanasio; nella primavera di
quell'anno Costantino II cadeva in una imboscata tesagli dai soldati del
fratello Costante; le due metà dell'Impero si separavano sempre più
rapidamente.[45] (40) Giuliano era ancora un
fanciullo.
Il testo della lirica, invece, si riferisce ad avvenimenti fittizi, sì,
ma non inverosimili, e la drammaticità è portata all'estremo tramite un
crescendo nella descrizione degli effetti provocati dalle conflittualità
ideologiche e religiose sul piano dei rapporti personali. L'ignoto
interlocutore del tragico monologo è un pagano e Miris, il suo amico morto, era
stato cristiano. Nonostante avessero professato religioni diverse, essi avevano
condiviso e fruito dei piaceri offerti loro da Alessandria. Miris e il suo
amico erano certamente appartenuti entrambi a quell'esiguo tiaso di muhmevnoi, la cui totale dedizione al modo di vita
alessandrino avrebbe dovuto renderli immuni dalle pericoli causati dai
conflitti religiosi che invece riesconoa prevalere e a separare anche persone
che si amano. L'amico di Miris, però, viene sopraffatto dall'atmosfera
cristiana che pervade tutta la casa; dalle vecchie prefiche che, con voce
sommessa, ricordano di come Miris, il giorno prima di morire, avesse
continuamente mormorato il nome di Gesù, stringendo in mano una croce; e poi
quei quattro preti che recitavano devotamente incomprensibili preghiere a Gesù
e a Maria: tutte queste cose tanto estranee, finiscono per suscitare nell'amico
di Miris il terribile sospetto che egli non sia mai stato sincero con lui. (41)
Th;n sumfora; o{tan e[maqa, pou; oJ Muvrh" pevqane,
ph'ga sto; spivti tou, m’ o{lo pou;
to; ajpofeuvgw
na; eijsevrcomai stw'n Cristianw'n ta; spivtia,
pro; pavntwn o{tan e[coun qlivyei" h] giortev".
Stavqhka se; diavdromo. De;n qevlhsa
na; procwrhvsw pio; ejntov", giati; ajntelhvfqhn
pou; oiJ suggenei'" tou' peqamevnou m’ e[blepan
me; profanh' ajporivan kai; me; dusarevskeia.
To;n ei[cane se; mia; megavlh kavmarh
pou; ajpo; th;n a[krhn o{pou stavqhka
ei\da kommavti: o{lo tavphte" poluvtimoi,
kai; skeuvh ejx ajrguvrou kai; crusou'.
Stevkomoun k’ e[klaia se; mia; a[krh tou; diadrovmou.
Kai; skevptomoun pou; hJ sugkentrwvsei" ma" k’ hJ ejkdrome;"
cwri;" to;n Muvrh de;n q’
ajxivzoun piav:
kai; skevptomoun pou; pia; de;n qa; to;n dw'
sta; wJrai'a ki a[semna xenuvctia ma"
na; caivretai, kai; na; gela', kai; n’ ajpaggevllei stivcou"
me; th;n teleiva tou ai[sqhsi tou' eJllhnikou' ruqmou':
kai; skevptomoun pou; e[casa gia; pavnta
th;n ejmorfiav tou, pou; e[casa gia; pavnta
to;n nevon pou; lavtreua paravfora.
Kavti grhev", kontav mou, camhla; milou'san gia;
th;n teleutaiva mevra pou; e[zhse –
sta; ceivlh tou diarkw'" t’ o[noma
tou' Cristou',
sta; cevria tou bastou's’ e{nan
staurov. –
Mph'kan katovpi me;" sth;n kavmarh
tevssare" Cristianoi; iJerei'", k’ e[legan proseuce;"
ejnqevrmw" kai; dehvsei" sto;n jIhsou'n,
h] sth;n Marivan (de;n xevrw th;n qrhskeiva tou" kalav).
Gnwrivzame, bebaivw", pou; oJ Muvrh" h\tan Cristianov".
jApo; th;n prwvthn w{ra to;
gnwrivzame, o{tan
provpersi sth;n pareva ma" ei\ce mpei'.
Ma; zou'sen ajpoluvtw" sa;n k’
ejma'".
jAp’ o{lou" ma" pio; e[kdoto" ste;"
hJdonev":
skorpw'nta" ajfeidw'" to; crh'ma tou ste;"
diaskedavsei".
Gia; th;n uJpovlhyi tou' kovsmou xevnoiasto",
rivcnontan provquma se; nuvctie" rhvxei" ste;"
oJdou;"
o{tan ejtuvcaine hJ pareva ma" na; sunanthvsh pareva.
Pote; gia; th;n qrhskeiva tou de;n milou'se.
Mavlista mia; fora; to;n ei[pame
pw;" qa; to;n pavroume mazuv ma" sto; Seravpion.
{Omw" sa;n na;
dusaresthvqhke
m’ aujtovn ma" to;n ajste:i:smov: qumou'mai twvra.
\A ki a[lle" duo;
fore;" twvra sto;n nou' mou e[rcontai.
{Otan sto;n Poseidw'na kavmname
spondev",
trabhvcqhke ajp’ to;n kuvklo ma", k’
e[streye ajllou' to; blevmma.
{Otan ejnqousiasmevno"
e{na" ma"
ei\pen, JH suntrofiav ma" na\nai uJpo;
th;n eu[noian kai; th;n prostasivan tou' megavlou.
tou' panwraivou jApovllwno" –
yuquvrisen oJ Muvrh"
(oiJ a[lloi de;n a[kousan) «th/' ejxairevsei ejmou'».
O Cristianoi; iJerei'" megalofwvnw"
gia; th;n yuch; tou' nevou devontan. –
Parathrou'sa me; povsh ejpimevleia,
kai; me; tiv prosoch;n ejntatikh;
stou;" tuvpou" th'" qrhskeiva" tou",
eJtoimavzontan
o{la gia; th;n cristianikh; khdeiva.
K’ ejxaivfnh" me; kuriveue mia; ajllovkoth
ejntuvpwsi". jAovrista, aijsqavnomoun
sa;n na[feugen ajpo; kontav mou oJ Muvrh":
aijsqavnomoun pou; ejnwvqh, Cristianov",
me; tou;" dikouv" tou, kai; pou; gevnomoun
x ev n o " ejgwv, x ev n o "
p o l uv: e[noiwqa kiovla
mia; ajmfiboliva na; me; simwvnei: mhvpw" k’ ei\ca
gelasqei'
ajpo; to; pavqo" mou, kai; p av n t a tou' h[moun xevno".
Petavcqhka e[xw ajp’ to; friktov
tou" spivti,
e[fuga grhvgora pri;n aJrpacqei', pri;n ajlloiwqei'
ajp’ th;n cristianosuvnh tou" hJ quvmhsh tou' Muvrh.[46]
[24]Ibid.. La reciproca antipatia tra
Kavafis e Palamàs, assai nota, non si estinse mai. Il 25 aprile 1929 la
francofona rivista letteraria cairota La
Semaine Égyptienne pubblicò un numero dedicato interamente a Kavafis, con
articoli, saggi e interventi di varia ampiezza da parte di personalità del
mondo intellettuale quali R. A. Furness, K. Dietrich, G. Gryparis, D.
Hesseling, N. Kazantzakis, E. M Forster, per
citarne solo alcuni. Robin Furness, grecista inglese, ottimo traduttore di
Callimaco, era stato portato ad Alessandria dagli eventi della prima guerra
mondiale, quale addetto alla censura (Cfr. S. TSIRKAS, jEpochv, p. 236; R. LIDDELL, Biography,pp.
163-64). Sulla copertina della rivista appariva, fedelmente riprodotta, una
quartina autografa che Furness aveva composto in onore di Kavafis: JEllavdo" ejn stefavnw/ peripuvstw a[xi'ajoidw'n
/ tw'n toq'eJh'"
sofivh" a[nqea leptolovgou /
hJdueph; ejpevplexen, jAlexandrei'on a[galma, / hJmevtero" KABAFHS, - baia; mevn, ajlla rJovda.
A pag. 17, il letterato Menos Filindas (cfr. DIMARÀS, cit., pp. 399-400) asseriva non soltanto che Kavafis era il più grande poeta greco, ma lo accostava addirittura a Dionisio Solomòs.. Palamàs, venuto in possesso del numero della rivista in questione, in una lettera indirizzata a G. K. Katsìmbalis, datata 15 agosto 1929, scriveva tra l'altro: «(...) sto; panhguriko; tou' Kabavfh, oJ poihth;" aujto;" parousiazovtan “megaluvtero"” ajpo; mevna (...). JO Swlomo;" mia; fora; ajnafevretai, kai; sto; pleuro; tou' Kabavfh, wJ" i{so" pro;" i[son. K'ejgw; a[llh mia; fora; kai; me; a[llou" sunadevlfou" ajnexwvrista, wJ" poihth;" th'" ntouzivna", ajnavxio" lovgou ajnamasshth;" gallikw'n lurikw'n th'" ntouzivna" k'ejkeivnwn. JO Kabavfh" de;n ei\nai “megaluvterov" mou” poihthv", ajplouvstata, giati; ejmei'" de;n uJpavrcoume: ei\nai oJ mevga", oJ movno", oJ monadikov", kai; ajp'aujto;n ajrcivzei hJ Rennaissance [sic !], hJ JEllhnikh; jAnagevnnhsh. Ma'" e[fere th;n poivhsh, th; glw'ssa, to; stivco, th;n tevcnh. JO dhmotikismov", kolokuvqia!»
Da querimonie come queste, Palamàs passava ad attacchi più palesi in una lettera datata 1 gennaio 1935 e indirizzata a G. Alithersis: «Ta; e]rga tou' Kabavfh, stivco", glw'ssa, e[kfrash, morfh; kai; opujsiva, mou' faivnontai sa; shmeiwvmata pou; de;n hjmporou'n h] pou; de;n katadevcontai na; givnoun poihvmata.» Cfr. G. K. KATZIMBALIS, jAnevkdote" selivde" tou' Kwsth' Palama': gravmmata sto; Giw'rgo K. Katsivmpalh, in NEA ESTIA, Atene dicembre 1943, pp. 293-94, 309.
Kavafis esprimeva la propria antipatia per Palamàs in maniera diversa. Tra coloro che frequentavano l'appartamento al numero 10 di Rue Lepsius, non tutti erano sinceri ammiratori del Poeta alessandrino, e alcuni erano anche «(...) attracted by the poet's generosity with his whisky. He was, however, careful not to give them the best quality. I have beel told of his offering a drink to the artist Zacynthinos. The latter was about to help himself when Cavafy stopped him. “That's the Palamas whisky,” he said (i. e. second rate). As we're alone I'll give you something better.”» Cfr. R. LIDDELL, Biography, p. 167.
[46]«MIRIS. ALESSANDRIA 340 d. C. Come udii la sciagura, la morte di Miris, / andai da lui. (Non metto piede, in genere, / in case di cristiani, / specie quando ci sono lutti, o feste). // Ma rimasi nell'andito. Non volli / addentrarmi di più: m'avvidi bene / che i parenti del morto mi guardavano / con perplesso disagio. // Lo tenevano in una grande camera / che di laggiù, dal punto dove stavo, / intravvidi: tappeti preziosi, / e suppellettili d'oro e d'argento. // Stavo ritto e piangevo, in fondo all'andito. / Pensavo che le nostre gite, i nostri convegni, / non avrebbero avuto, senza di lui, più senso. / Pensavo che mai più l'avrei rivisto / nelle nostre nottate licenziose e belle, / ridere, divertirsi, recitare / versi, col suo perfetto senso del ritmo greco. / Pensavo che per sempre avevo perso / la sua beltà, per sempre avevo perso / il ragazzo adorato alla follia. // Certe vecchie, vicino a me, parlavano sommesso / dell'ultimo suo giorno: / sulle sue labbra sempre il nome di Gesù, / nelle mani una croce. / Nella camera entrarono, più tardi, / quattro preti cristiani: dicevano preghiere / con gran fervore e suppliche a Gesù, / o a Maria (non conosco bene le loro pratiche). // Lo sapevamo, certo, ch'era cristiano, Miris. / Sin dal primo momento lo sapevamo, quando / nella nostra brigata entrò, due anni fa. / Pure, di tutti, il più sbrigliato nel piacere, / prodigo di danaro negli spassi. / Sempre incurante di rispetti umani, / si gettava di slancio nelle risse notturne / per le vie, quando la nostra brigata / s'imbatteva, per caso, in brigate rivali. / Della sua fede non parlava mai. / Ecco: una volta, gli avevamo detto / che l'avremmo portato al tempio di Serapide / con noi. Parve sgradire / lo scherzo: ora ricordo. / Sì! mi vengono a mente altre due volte: / un giorno facevamo offerte a Posidone: / si ritrasse da noi, distolse l'occhio. / E una volta che, tutto entusiasmato, / uno di noi gridò: La nostra compagnia / sia sotto la benevola tutela del bellissimo, / del grande Apollo – “A eccezione di me” bisbigliò Miris (gli altri non l'udirono). // I sacerdoti cristiani a gran voce / pregavano per l'anima del giovine. / Io notavo con quanta diligenza / e con quale attenzione tesa e viva / alle forme del culto, s'apprestava / tutto, per quel funerale cristiano. / E, d'un tratto, mi vinse un'impressione / strana. Sentivo, indefinitamente, / come se Miris se ne andasse via da me. / Cristiano, lo sentivo ora riunito / con i suoi: divenivo, / io, straniero, straniero affatto. Ed ecco un altro / dubbio sfiorarmi: forse, la passione / m'aveva illuso, gli ero stato straniero sempre? / Corsi via, dalla casa d'incubo, di furia, / prima che mi rapissero e cangiassero, / col loro cristianesimo, la memoria di Miris.»